Paolo
Leon in “Il capitalismo e lo stato” (Roma, 2014 – Castelvecchi editore, pagg.
285 € 27,00) propone una analisi dettagliata delle trasformazioni del
capitalismo e del ruolo economico-finanziario dello stato dal dopoguerra ad
oggi, con i necessari richiami alle vicende della prima metà del novecento,
prima e dopo la precedente “grande crisi”, quella deflagrata nel 1929.
La
visione storica, articolata nelle fasi (mia schematizzazione):
-
1945-1971
“postumi del compromesso roosveltiano”
-
1971-1987
“la grande inflazione”
-
1987-2007
“globalizzazione e finanziarizzazione”
-
dal
2007 crisi e permanenza del modello global-finanziario,
serve
a Leon anche per contrapporsi a tutte le teorie economiche astratte, fondate su
un “equilibrio” che in realtà non esiste, mentre occorre comprendere le
specificità del funzionamento del sistema capitalistico nelle sue costanti
trasformazioni, da uno stato di squilibrio ad un altro stato di squilibrio
(trasformazioni incessanti anche a livello molecolare, così da rendere
inservibili strumenti concettualmente semplici, come la matrice
dell’interscambio tra i diversi settori, ideata da Leontieff, se la si volesse
utilizzare come strumento previsionale e non come semplice consuntivo; a
maggior ragione scendendo alla scala delle singole imprese).
Altro
tema cardine per Leon è per l’appunto quello della “scala”, e cioè
l’impossibilità di proiettare le teorie aziendalistiche e micro-economiche alla
scala della macro-economia, perché l’assetto complessivo dell’economia non
consiste nella sommatoria dei comportamenti “razionali” delle singole
imprese+consumatori, bensì coinvolge variabili specifiche, che ruotano comunque
attorno al ruolo dello stato, seppur tendenzialmente costretto dall’egemonia
neo-liberista ad uno spazio minimo-residuale.
Inoltre
Leon, riprendendo con diversi accenti Adam Smith e Carlo Marx, batte e ribatte
sulla “cecità” del singolo capitalista, i cui interessi non coincidono mai con
quelli generali dello stesso capitalismo (trascurando
un poco a mio avviso, i comportamenti dei conglomerati oligopolistici ed il
ruolo delle associazioni categoriali degli imprenditori, nonché dello stesso
stato, quando guidato da forze filo-padronali, che forse non sono sempre e del
tutto ciechi in materia di macroeconomia, almeno nell’interesse loro).
Il
testo costituisce un amplio manuale (direi
una summa del pensiero neo-Keynesiano), che non è quindi né possibile né
utile riassumere con questa recensione in tutti i suoi aspetti, ed è invece
utile comunque leggere per i profani, per capire il mondo in cui viviamo (anche
nei passi più ostici, come ad esempio quando spiega che è l’entità degli
impieghi bancari a determinare l’entità dei depositi, e non viceversa):
- le singole fasi storiche
vengono sistematicamente esaminate dall’Autore riguardo a tutte le seguenti questioni:
moneta – banca – finanza – forza lavoro – spesa pubblica – import export –
stato – impresa;
- dentro l’impresa Leon
illustra i diversi ruoli che assumono le varie direzioni aziendali:
ricerca&sviluppo-acquisti-gestione-personale-finanza-marketing ecc.;
- inoltre nel capitolo IV analizza con precisione i “fondamenti
macro-economici della micro-economia”, dai vari “moltiplicatori” alla “moneta
fiduciaria”, dalla legge di Engel sull’evoluzione dei consumi alla “regola aurea”
che assegnerebbe ai salari gli incrementi di produttività e che – ovviamente –
costituisce una condizione di equilibrio, impossibile nel contesto della
globalizzazione, ed impossibile anche perché sgradita ai capitalisti stessi.
Mi
limito quindi a segnalare, oltre alle premesse generali su equilibri/squilibri
e su macro/micro-economia, i seguenti elementi peculiari:
-
la
lettura della fase global-finanziaria come trasferimento della supremazia dal
profitto alla valorizzazione patrimoniale, comunque conseguita, e quindi della
competizione tra capitalisti come sfida (senza limiti) nella accumulazione
della ricchezza (e del debito), strumento di potere in se, quasi a prescindere
dal possesso dei mezzi di produzione (non
capisco però, in questo quadro, la mancata citazione del concetto di
“finanz-capitalismo” e dell’omonimo testo scritto da Luciano Gallino nel 2008,
nonché ‘assenza di “7° - Non rubare” di Paolo Prodi nella bibliografia)
-
le
poco rassicuranti ed aperte pagine di conclusioni, che da un lato non escludono
un eventuale resipiscenza verso un approdo keynesiano (non mi sento di condividere, in tal senso, la certezza che un maggior
deficit oggi rientrerebbe automaticamente come maggior gettito fiscale domani,
in questo oggi ed in questo domani) ed in alternativa prospettano, oltre alla
prospettiva di un disordinato disastro anarco-capitalista, possibili scenari di
compromesso autoritario tra stato e mercato, di cui l’attuale Cina
costituirebbe un laboratorio sperimentale.
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