Cosa
sono divenute “città” e “campagna”, in scenari di crescenti
“metropolizzazioni”, ma molto differenziati nei diversi continenti; quale è il
saldo della impronta ecologica di ogni porzione di territorio rispetto al resto
del pianeta: a partire da queste domande preliminari, il presente articolo (2^
parte) prosegue un tentativo di rassegna
critica sulle principali teorie in materia di sostenibilità urbana, iniziata su
UTOPIA21 di maggio 2017.
Confermando
una qualche grossolanità dei confini tracciati nell’ambito dell’esame delle
proposte in campo in materia di “sostenibilità urbana”, mentre la 1^ parte
dell’articolo si è dedicata alle teorie più generali e meno strettamente
“disciplinari”, in questa 2^ parte si inizia ad affrontare le principali scuole
degli urbanisti e dintorni.
Sempre
con necessarie approssimazioni, si cerca di suddividere le posizioni esaminate
in questa 2^ parte (rispetto alla prossima, 3^ ed ultima) raggruppando qui
quelle che – pur adeguate od aggiornate all’oggi – sembrano affondare le loro
radici nel Novecento, assumendo quindi una certa qual “classicità”, e rinviando
invece all’ultima puntata le proposte più attinenti ad un dibattito
“post-moderno” ed imperniato sulla crisi ecologica.
Riassunto:
Khronopolis e New Kabul:
utopie metropolitane unilaterali
lo
sviluppo locale autosostenibile, “localismo cosmopolita” ovvero scuola
territorialista
la
riscoperta degli archetipi ovvero gli aspetti strutturali e magici dello
statuto dei luoghi
l’urbanistica
riformista
il
circolo di Eddyburg e “salviamo-il-paesaggio” tra la citta’ pubblica e i beni
comuni
urbanistica
e architettura – architettura della citta’
- appendice 1: analogie formali tra Khronopolis, New Kabul e Stadtkronen
- appendice 2: urbanisti assessori e
urbanisti condotti
- appendice 3: approfondimenti e divagazioni su “architettura della città”
PER LE IMMAGINI VEDI SUL SITO DI UTOPIA21 PRESSO UNIVERSAUSER VARESE
Figura 1 – territorio antropizzato : Langhe
(foto
dell’autore)
KHRONOPOLIS
E NEW KABUL: UTOPIE METROPOLITANE UNILATERALI
Connessa
a “Green Life” 1,2 (vedi
parte 1^ di questo articolo, su UTOPIA21 di maggio 2017), perché riportata nel
suddetto testo e perché presente all’interno dell’omonima mostra del 2010, era
l’ambiziosa proposta “Khrònopolis” del compianto Fabio Casiroli3, che – partendo dalla sua cultura trasportistica e da
una affascinante rappresentazione delle “città dei flussi” (simile nella
spettacolarità alle rilevazioni di SENSEable City Lab4, vedi ancora
parte 1^) - perveniva ad una organica formulazione di uno schema generale
“disegnato” di rifondazione delle aree metropolitane (supportato dalle visioni
architettoniche di grandi firme, da Burdett a Piano, da Foster a Rogers), articolata in moduli quadrati di 6 km di lato, affiancabili,
caratterizzati da:
-
grande
parco centrale (quadrato di lato 2
km , di estensione pertanto pari a 400 ettari )
-
elevata
densità (densità abitativa territoriale pari a circa 30.000 abitanti/km2 ovvero
300 ab/ettaro)
-
distribuzione
reticolare degli insediamenti e delle funzioni governata dal sistema dei
trasporti, articolata questa in:
o
reti
super-efficienti e gerarchizzate di trasporti pubblici: ferrovia,
metropolitana, monorotaia o bus-rapid-transit
o
percorrenze
ciclo-pedonali per il “primo e l’ultimo miglio” (cioè nei tratti più capillari
del percorso, vicino all’origine e alla destinazione), sostenute da una rete
capillare di eco-stazioni per il noleggio di mezzi innovativi (“veicoli
elettrici compatti”, bici elettriche) e
tradizionali (taxi)
-
scoraggiamento,
senza divieti, per l’automobile privata tradizionale.
Di questa formulazione,
che stupisce non sia stata quasi per nulla discussa sulle riviste di
urbanistica, colpiscono, e non convincono, soprattutto i seguenti aspetti (pur
nella consapevolezza del rapporto dialettico tra questa proiezione utopica e la
prassi riformista degli urbanisti e ingegneri del traffico, a partire dallo
stesso Casiroli, nella realtà concreta delle città esistenti, con esempi
virtuosi quali in Europa Berlino, Bordeaux, ecc. e in America Latina Cutiriba,
Medellin, ecc.):
-
la proiezione utopica
verso una rifondazione complessiva dei
tessuti urbani, contempla indicazioni sul modo di arrivare alla
sostituzione delle attuali città?
-
la densità proposta,
che risulta al livello massimo suggerito classicamente da Lewis Mumford,
cioè 250 abitanti/ettaro (e più alta di quella generalmente realizzata in
Europa nei più recenti eco-quartieri, che oscillano tra 110 e 200 ab/ha,
esclusi pochi casi, vedi mio articolo su UTOPIA21 di marzo 2017 5),
ma assai più bassa di quella rilevata da Jane Jacobs 6,per
assicurare la spontanea vivacità urbana/pedonale, cioè oltre i 500 ab/ha, è
verificabile sia rispetto alla sua accettabilità sociale, sia rispetto
all’efficienza socio-economica (oltre che trasportistica)?
-
quale attenzione si
intende riservare pertanto alle componenti sociali ed economiche della
sostenibilità, nonché alle componenti ambientali diverse da quella
trasportistica (ad esempio i consistenti parchi centrali non risultano
collegati a corridoi ecologici di scala territoriale)?
-
la motorizzazione
privata, da scoraggiare solo mediante un sistema complesso e massiccio di
investimenti pubblici e privati in infrastrutture e nuovo assetto insediativo,
non deve essere intaccata da alcuna attiva politica tariffaria o normativa?
-
non sono contestualmente
da immaginare e verificare ragionevoli mutamenti di scenario nell’andamento dei
prezzi dei carburanti, dei pedaggi e delle stesse auto?
Architecture
Studio7 propone le sue esperienze e riflessioni sulla città
sostenibile a partire dalla scala edilizia, dove declina alcuni principi,
comparabili quali alternative ai
precetti di Le Corbusier (Doppia pelle – Facciata attiva – Spazi tampone –
Copertura dinamica), e spaziando sull’urbanistica, dagli eco-quartieri al
rinnovo delle metropoli (sostenendo il ritorno a densità più elevate), ma
culmina con la proposta di New Kabul che – se fosse mai realizzata nella difficile situazione politico-militare afgana – prevederebbe
una occupazione ex-novo di 2.000 ettari.
[vedi
in appendice 1: analogie formali tra Khronopolis, New Kabul e Stadtkronen di
Bruno Taut, 1919]
Quanto tale piano è
coerente con il principio del risparmio
nel consumo di suolo?
Come si declina tale imperativo
in presenza di pressioni demografiche ed insediative sconosciute in Europa?
Simili dubbi – estesi
anche alla compatibilità economica e sociale, nonché alla quantità di energia
inglobata nel ciclo di costruzione delle città - sollevano altre proposte di
nuove città super-ecologiche nel Medio e nell’Estremo Oriente: vedi in
proposito l’articolo “Ecocittà” di Rosario Pavia su Urbanistica n°148 del 2011 8,
che in positivo segnala invece, tra l’altro, le proposte, soprattutto
metodologiche, di Bernardo Secchi per Grand Pari(s): reti ecologiche, porosità
ciclopedonale, trasporti pubblici a diverse maglie e velocità, riuso del suolo e ricucitura
urbana; in parte ricordano le ipotesi di Khronopolis, ma declinate sulla
metropoli esistente, il che è assai più utile, almeno per le prospettive
europee.
LO SVILUPPO LOCALE
AUTOSOSTENIBILE, “LOCALISMO COSMOPOLITA” OVVERO SCUOLA TERRITORIALISTA
Si
cimenta con l’utopia anche Alberto Magnaghi, in “Il progetto locale” del 2000 e
2011 9, ma nel senso di una visione di nuovi rapporti complessivi
tra globale e locale, città e campagna, produzione e consumo, utili per
facilitare la partecipazione e la crescita dei progetti locali di sviluppo
auto-sostenibile.
Nel
volume, difficile da riassumere, benché breve, perché denso e problematico, più
delle visioni utopiche risultano interessanti le analisi e le riflessioni
dialettiche aperte.
Mettendo
in guardia da approcci scorretti alla sostenibilità, quali:
-
l’approccio
funzionalista, che subordina le mitigazioni ambientali alle tendenze del
mercato globalizzato, in una continua rincorsa inefficace
-
l’approccio
ambientalista “bio-centrico”, che assume la natura “come soggetto vivente
dotato di anima” (vedi precedenti paragrafi 3 e 4), ma non può giustificare
scientificamente l’interpretazione umana dei mutevoli equilibri naturali e
rischia di dimenticare il sistema antropico, oppure di perdersi in battaglie
settoriali,
-
ed
anche l’approccio proceduralista, che punta sulla partecipazione senza indicare
contenuti, e quello realista-rinunciatario di chi “trova ritmi musicali nella
città diffusa” (vedi parte 3^ di questo
articolo),
Magnaghi
contrappone l’approccio “territorialista o antropo-bio-centrico”, fondato su
una lettura del territorio (antropizzato) come palinsesto storico di lunga
durata, patrimonio di valori che vanno oltre quelli di scambio ed anche quelli
di uso delle generazioni presenti (ma pur sempre solo da queste possono essere
interpretati e tutelati).
Per
Magnaghi la città-fabbrica fordista e la successiva metropolizzazione
globalista costituiscono un processo negativo di de-territorializzazione:
massimizzazione del profitto a breve termina indipendentemente ed in danno dei
valori peculiari dei luoghi, con progressivo impoverimento dell’ambiente
naturale ed antropico.
Arrivando
a definire il territorio “come soggetto
vivente ad alta complessità”, Magnaghi
però si preoccupa ampliamente di individuare nelle “tensioni, comportamenti,
culture brulicanti” nella e contro la globalizzazione i possibili soggetti sociali concretamente
coinvolgibili nella costruzione, dal basso, di alternative fondate sulla
“ri-territorializzazione”, progetti locali di sviluppo auto-sostenibile, da
collegare in nuove reti “non gerarchiche”: agricoltori, artigiani, commercianti
e altri lavoratori autonomi e micro-imprese, volontariato e terzo settore,
abitanti e consumatori che intendono sottrarsi alle nuove povertà derivanti dal
degrado metropolitano; e le loro aggregazioni locali, neo-municipali (da
sottrarre al localismo identitario di tipo chiuso e “triste”).
Il
testo articola il concetto del “progetto locale” a partire dallo Statuto dei
Luoghi (in una concezione più amplia e radicale di quella enunciata dalla Legge
Urbanistica Regionale Toscana), nei suoi aspetti conoscitivi, aggregativi,
normativi, che attraversano la produzione, i consumi, la chiusura “breve” dei
cicli ecologici, e gli insediamenti, compresa la crescita culturale verso un
controllo comunitario delle tipologie edilizie e della qualità
architettonica; senza escludere un
ragionevole consumo di suolo, qualora coerente con il “codice genetico” ovvero
con le regole insediative del luogo.
Magnaghi
non prospetta successi lineari né automatici, e neppure orizzonti messianici o
rivoluzionari, in questa contrapposizione “lillipuziana” alla globalizzazione
ed alla sua endemica crisi ‘di ambientazione’; egli stesso si pone infatti le
seguenti domande, cui risponde in modo aperto e dialettico:
-
è
possibile una globalizzazione dal basso? a quali condizioni?
-
che
ruolo possono svolgere le autonomie municipali europee? come si pone il dialogo
con le esperienze anti-globalizzazione del terzo mondo?
-
è
pensabile una più alta “produttività” dei nuovi modelli insediativi legati in
reti non-gerarchiche, anziché la ricaduta nello schema centro-periferico?
A fronte di questa
prospettiva complessa e affascinante, mi sembra però opportuno esplicitare
ulteriori problemi, cui Magnaghi in parte accenna, ma forse sottovalutandoli:
- le tendenze in atto,
misurate ad esempio da Manuel Castells 10,11, non solo verso una
ulteriore espansione delle metropoli, sia nella regioni sviluppate che in
quelle meno sviluppate, ma anche, complessivamente (per il peso delle aree di
nuove industrializzazione), all’incremento percentuale del lavoro salariato,
sia pure in forme contrattuali più frammentate, ed alla limitazione ai paesi
sviluppati dei fenomeni di maggiore articolazione dei rapporti di lavoro;
- le resistenze e
alternative locali alla globalizzazione e de-territorializzazione rischiano
pertanto di essere fenomeni di nicchia, e non bastano le parole per distinguere
il localismo aperto da quello reazionario e xenofobo;
- la spinta alla
competitività, sia nel mercato locale che in quello globale, connota comunque
la micro-impresa, ed alimenta i conflitti tra soggetti forti e deboli dentro
alle “comunità” locali; la dimensione locale può favorire chiusure corporative
a danno dei soggetti deboli (es. lavoratori dipendenti);
- non si intravvedono
strumenti certi per dare voce ai “soggetti silenti” nei processi di
partecipazione;
- affidare alle forze
neo-municipali il successo di progetti dal basso su “come, quanto e dove quali
attività produttive insediare”, in Europa si scontra con il dogma ed il diritto
della “libertà di impresa”, che forse può essere più facilmente compressa ed
indirizzata ad obiettivi di riequilibrio ambientale e socio-economico (green
economy) con una riconversione democratica dei poteri statali e comunitari
(certamente sulla spinta delle nuove esperienze locali), rendendo intelligente
l’enorme leva della tassazione e della spesa pubblica (in Europa vicina alla
metà del PIL), nella direzione finora teorica o minoritaria della TOBIN TAX e della
CARBON TAX; il riformismo necessario è piuttosto radicale che “continuista”, ma
questo è vero sia nell’approccio dal basso, dove i movimenti molecolari
rischiano di non concretizzarsi in mutamenti stabili e profondi, sia in quello dall’alto, che è meno probabile
e reso difficoltoso anche dalla evanescenza dei poteri statali a fronte della
globalizzazione finanziaria: merita forse di essere meglio valutata
l’integrazione tra i due approcci (vedi la parte 1^ di questo articolo riguardo
alle proposte del Wuppertal Institut 12,13 e all’analogo localismo,
ma più conflittuale, enunciato da Guido Viale 14,15).
LA RISCOPERTA DEGLI
ARCHETIPI OVVERO GLI ASPETTI STRUTTURALI E MAGICI DELLO STATUTO DEI LUOGHI
Muovendo
dal filone culturale di Magnaghi, e cioè dalla scuola territorialista, Anna
Marson in “Archetipi di Territorio” del 2008 16 approfondisce il
rapporto storico tra uomo e luoghi, cercando nell’uno e negli altri gli
“Archetipi”, antropologici e territoriali, che hanno presieduto agli
insediamenti umani, fino alla rottura concettuale del Rinascimento ed alla
definitiva lacerazione in epoca moderna, anche per effetto della strasbordante
potenza tecnologica.
L’accattivante
racconto attraversa dapprima Acqua, Terra, Aria, Fuoco, e poi Centro, Confine,
Giardino, Selva, alla ricerca delle tracce archeologiche e storiche e delle
speranze di rifondazione (in una nuova sacralità laica) dei principi ecologici
nelle relazioni tra uomo/donna e
ambiente e delle radici antropologiche nella concezione dell’abitazione e
dell’urbanità, rivisitando numerose ricerche e scuole di pensiero (tra cui
spiccano quelle di Gustav Jung e Marija Gimbutas, Giovanni Ferraro17
e Joseph Rykwert18, Martin Heidegger e Christian Norberg-Schulz 19).
Marson
propone una nuova cultura della progettazione, che preliminarmente ascolti con
umiltà i sussurri e le grida dei Quattro Elementi, della terra e del
fuoco, nonché “quelle conoscenze, almeno
parzialmente inconsce e poco codificate, che ognuno di noi, come essere umano, porta con se
geneticamente”, per – non solo – “adattarsi ai progetti che la natura ha già
disegnato, ma di dialogarvi a partire dalle esigenze umane e quindi sociali
essenziali, sedimentate nella stratificazione storica degli insediamenti a
partire dalla quale possiamo ritrovare regole di lunga durata, codificate negli
archetipi di territorio”.
Figura 2: dalla copertina di “Archetipi del Territorio”
Il limite dell’opera mi
pare stia nella mancanza di indicazioni sociologiche e politiche per portare
questa appassionante battaglia culturale fuori dalle accademie, e costruire
consenso e tendenze alternative negli utenti (e quindi poi forse nei
committenti) delle case, delle città e delle metropoli.
Considerando che
l’individuo/consumatore può essere ancora facilmente indotto a pensare,
acquistando od abitando o anche solo desiderando ad esempio una villetta a
schiera - e quindi mentre concorre a distruggere o dissipare suolo, paesaggio,
risorse naturali - di attingere privatamente a gran parte degli
archetipi in questione, ma sotto la forma caricaturale di Piscina, Barbecue,
Orto, Recinzione, “Godimento esclusivo terra/tetto” (come dice la pubblicità
immobiliare), probabilmente con qualche forma di architettura vernacolare che
risalga anche alla storia locale, e vantandosi di risparmiare energia perché la
costruzione ricade in “classe A”.
[Vedi
in appendice 2 alcune considerazioni a partire dall’esperienza di Anna Marson
come Assessore Regionale in Toscana dal 2010 al 2015]
L’URBANISTICA
RIFORMISTA
Giuseppe
Campos Venuti, con l’articolo “Città sostenibili e austerità” del 2011 20,
ha teso a riallacciare il ciclo di esperienze dell’urbanistica riformista (da
Bologna anni 60 al paradigma INU per il nuovo piano a metà anni ’90 alle
successive verifiche e riflessioni) alla battaglia culturale di Enrico
Berlinguer (rimasta minoritaria anche a sinistra) per “l’austerità” in risposta alla crisi
degli anni ’70, così sintetizzata: “non una generica riduzione dei consumi ma
la limitazione di quelli improduttivi e parassitari, allargando quelli
produttivi e sociali”.
Rivendicando
di aver affiancato la posizione berlingueriana, in particolare con il volume “Urbanistica e austerità” 21,
Campos Venuti ha ripercorso la “lunga marcia della sostenibilità urbanistica in
Italia”, dalla riduzione all’indispensabile delle espansioni private al
contenimento delle densità eccessive, dalla conquista degli standards di spazi
pubblici alla tutela delle aree agricole “per la produzione alimentare e la difesa
ambientale”, dall’attenzione al paesaggio alla introduzione “del verde
indispensabile ad assorbire l’anidride carbonica emessa dalle nuove auto nei
percorsi urbani”, fino al recepimento delle norme europee per la qualità
energetica degli edifici.
Ha
affrontato poi, in sintonia con il 27° congresso INU di Livorno (2011), il tema
della crisi urbana sullo sfondo della nuova crisi socio-economica e finanziaria
mondiale e nell’intreccio, specificamente italiano, con il peso del debito
pubblico, la debolezza dei bilanci
comunali ed il ruolo delle rendite, finanziaria e fondiaria, proponendo
interessanti elementi di riflessione (anche per il superamento di alcuni
carenze e difetti applicativi delle leggi regionali ispirate dal modello INU),
sui seguenti problemi, inerenti alle modalità attuali della pianificazione
urbana e territoriale in Italia:
-
rafforzamento
del carattere non-conformativo delle
previsioni di trasformazione dei piani strutturali e del carattere attuativo
dei piani operativi (da non sovradimensionare e con scadenza della
edificabilità non utilizzata nel quinquennio),
-
gestione
attiva e non solo “regolativa” degli interventi sui tessuti esistenti,
-
“compensazione
perequativa” e “contributi di
sostenibilità” finalizzati al contenimento della rendita ed al suo recupero in favore della città pubblica e degli
obiettivi ecologico-ambientali,
-
pianificazione
di area vasta (integrati a tutti gli aspetti paesistici e ambientali) adeguata
a fronteggiare e governare la “metropolizzazione”, sostituendo – ove necessario
- i troppo angusti piani comunali, e connessa con piani regionali concentrati
sulla localizzazione delle risorse di livello regionale/statale/comunitario.
In
tal modo, secondo Campos Venuti, l’urbanistica (e quindi, come soggetto, gli
enti locali virtuosi e l’arco delle forze politiche e sociali connesse) può
contribuire ad una uscita positiva dalla crisi, combattendo la rendita che
(resta) “la causa di fondo della crisi urbana, strettamente integrata alla
crisi economica, entrambe legate alle scelte improduttive della finanza”
“probabilmente la prima non si potrà risolvere separata dalla seconda”.
Le formulazioni più
generali dell’Urbanistica Riformista (come riassunte da Campos Venuti 22, e senza assolutamente voler trascurare i meriti acquisiti
nella sperimentazione e riflessione teorica), mi sembra pongano la necessità di
approfondire le seguenti riflessioni di fondo, che trascendono in parte la
specificità disciplinare (riflessioni in parte già lasciate aperte dallo stesso
Campos Venuti):
-
la metropolizzazione
può effettivamente essere governata ed “umanizzata” dalla pianificazione, in
Italia ed altrove (sviluppando proposte tipiche dell’urbanistica riformista,
come le nuove polarità ed il trasporto pubblico su rotaia)?
-
quali sono le forze, le
alleanze e le modalità per suscitare il necessario consenso sociale nella
battaglia per piegare la rendita a finalità urbane pubbliche ed ecologiche?
-
risulterà possibile,
con queste battaglie locali, salvare il welfare urbano nello scontro economico
e finanziario a livello “globale”?
-
la contrapposizione
alle rendite può aprire la strada ad uno sviluppo veramente sostenibile, oppure
i limiti ambientali comportano una più radicale revisione del concetto di
sviluppo?
IL CIRCOLO DI EDDYBURG
E “SALVIAMO ILPAESAGGIO” TRA LA CITTA’ PUBBLICA E I BENI COMUNI
All’
“urbanistica riformista” (ed in particolare al Piano Regolatore di Roma del
2008 – giunta Veltroni – redatto e poi sconfessato da Campos Venuti &C. ,
per le modifiche introdotte in fase di approvazione) si contrappongono
nettamente:
-
le
posizioni tradizionali degli urbanisti di stampo “decisionista”, nel senso di
avocare alla pubblica amministrazione la piena potestà in materia di
pianificazione del suolo, contro la crescente invadenza degli investitori
privati (che trova i suoi campioni nella
legislazione e nella pratica lombarda e milanese, dai Programmi Integrati di Intervento
alla borsa dei diritti di edificazione, fino al tramontato disegno di legge per
una riforma urbanistica nazionale varato dall’ex-ministro Lupi),
-
i
nuovi teorici del territorio e del paesaggio come “beni comuni”, che dalle
esperienze movimentiste dei referendum sull’acqua (2011) sono approdati sia a
derive comunitaristiche di scarsa credibilità (vedi Ermanno Vitale23 contro
Mattei, e mia recensione su Utopia21 di ottobre 2016 24) sia ad
interessanti premesse di carattere giuridico per una più contenuta concezione
della proprietà privata (l’ex vice-presidente della Corte Costituzionale Paolo
Maddalena in “Il territorio bene comune degli italiani” 25 , sviluppato
a partire dall’art. 42 della Costituzione).
I
primi si ritrovano soprattutto attorno al sito Eddyburg, 26 fondato
da Edoardo Salzano, che negli anni ‘80 fu presidente dell’INU, e sviluppa
critiche, fondate (ma forse talvolta
ingenerose), non solo all’urbanistica contrattata di cui al “rito
ambrosiano”, ma anche alla accettazione della “perequazione dei diritti
volumetrici” (premi in edificabilità traslata altrove per la acquisizione di
aree ad uso pubblico e per edilizia sociale) largamente praticata nei decenni
scorsi anche dall’”urbanistica riformista” (vedi precedente paragrafo), mentre
i reduci salzaniani ben vedrebbero un ritorno alla pratica espropriativa (dimenticando forse la sentenza europea che
obbliga ad indennizzi ai prezzi di mercato).
I limiti principali
delle resistenze salzaniane, a mio avviso, non stanno nella nostalgia di uno
Stato autorevole e regolatore, ma nello scarso approfondimento sulle ragioni
per cui oggi le scelte pubbliche, anche se fondate su procedure istituzionali
democratiche e su impegnati esperimenti di partecipazione popolare, rischiano
comunque di apparire “calati dall’alto”, sfasati rispetto alle veloci dinamiche
dei bisogni e delle risorse finanziarie; cioè, al fondo, sulle motivazioni
antropologiche che stanno alla base del crollo del “socialismo reale” e della
crisi delle socialdemocrazie, e del pur contrastato successo, di fatto, della
globalizzazione e della finanziarizzazione neo-liberista.
E non mi pare che la
riproposizione del piano decisionista e delle procedure espropriative sia la
chiave più efficace verso la sostenibilità urbana.
(Tuttavia il circolo di
Eddyburg non è solo “passatismo”; si veda ad esempio, nella prossima 3^ parte,
la mia valutazione positiva sulle controproposte di Sergio Brenna a Stefano
Boeri in merito ai “grattacieli di Milano”).
I
secondi si radunano soprattutto attorno al sito “salviamo-il-paesaggio”, 27
da cui si attende tuttora, dopo le campagne contro il consumo di suolo e
per il censimento degli edifici inutilizzati, il promesso disegno di legge
alternativo che vada oltre le condivisibili critiche al progetto Catania (vedi
mio articolo su Utopia 21 di novembre 2016 28). Si possono collegare
inoltre ai movimentisti del “tactical urbanism” (riappropriazione immediata dei
beni comuni), di cui parlerò nella parte 3^.
Il limite che finora ho
riscontrato in tale ambito, oltra alla diversa ragionevolezza delle campagne
dei vari comitati locali, tutte invece acriticamente sostenute a livello
nazionale (e ad una oggettiva opacità verso il Grande Fratello del Movimento 5
Stelle, che incombe su tali movimenti, locali e nazionali, pur senza ancora
dispiegare una leggibile articolazione propositiva, che superi gli slogan
contro il cemento e le grandi opere), risiede nel mancato passaggio da una
“opposizione quantitativa” (ovvero: basta consumare suolo) ad una “proposizione
qualitativa”, che dica come – pur risparmiando suolo – si possano coniugare e
soddisfare i bisogni delle società urbane, anche più vaste di Cassinetta di
Lugagnano; tema su cui si cimentano invece autori come Lanzani o Nonni, di cui
parlerò nella 3^ parte.
E su cui mi pare
inciampino i successori di Berdini nella Giunta di Roma (vedi cemento dello
stadio romanista, comunque ingente, ma ora più spalmato su più suolo e meno
dotato di infrastrutture e servizi): vedremo nel tempo Guido Montanari a Torino
con la Giunta Appendino.
Un
curioso elemento che unisce, a partire da intenzioni e sensibilità opposte, i
neo-liberisti alla lombarda ed i neo-comunitari dei “beni comuni”, è una certa
volatilità o “mobilizzazione” dei diritti immobiliari, gli uni spingendo verso
una transustanziazione o “gassificazione” in direzione finanziaria, ed i
secondi verso una compressione che comunque tende la proprietà ad uno stato più
liquido.
Ambedue
soluzioni ancora aperte e problematiche, ma a mio avviso più utili ad un
orizzonte di sostenibilità urbana rispetto alla rigidità tradizionalista della
proprietà immobiliare privata, immobile (e se possibile esente da IMU): penso a
tutti i casi di edifici e fondi sotto-utilizzati per liti pendenti, eredità
contese, fallimenti annunciati e pignoramenti inefficaci.
URBANISTICA E
ARCHITETTURA
Un limite di fondo delle
posizioni teoriche dell’Urbanistica Riformista di Campos Venuti e Oliva, anche
se più varia è la prassi, e vivace l’attenzione culturale dell’INU (vedi le
riviste dell’Istituto) è a mio avviso anche
la separazione tra pianificazione e
architettura urbana: la giusta considerazione sulla inefficacia dei Piani
Regolatori Generali “disegnati” e la coerente separazione tra Piani Strutturali
e Piani Operativi rischiano di
impoverire ambedue i livelli riguardo alla necessaria attenzione alla ‘forma’
della città e di delegare tutte le scelte tipologiche e morfologiche, relative
ai fabbricati ed agli spazi pubblici, al momento della progettazione
architettonica, isolata dal dibattito generale sulla trasformazione urbana, e
quindi alla auto-referenzialità degli architetti ed all’impronta costruttiva
dei committenti (immobiliaristi, imprese, singoli privati).
Il tema sembrerebbe non
riguardare strettamente la sostenibilità, mentre secondo me è centrale per
cercare di perseguire una effettiva vivibilità collettiva degli spazi urbani, e
quindi valori culturali e sociali che sono però anche ambientali (paesaggio
urbano, qualità edilizia, qualità della vita) ed economici (efficacia della
densificazione, successo della mobilità ‘dolce’, costi e benefici delle aree ed
attrezzature ad uso collettivo).
Lo
affrontano con brillante esposizione Graziella Tonon con l’articolo
“Urbanistica e architettura: un rapporto da rinnovare” del 2011 29 e nel testo “La citta’ necessaria” del 2013 30, così come Giancarlo
Consonni, nel testo “La difficile arte. Fare città nell’era della metropoli” del
--- ed in altri successivi, 31,32,33 articolando la proposta di una
diversa urbanistica che divenga architettura della città:
Consonni:
-
sia
nella lettura della genesi storica della metropoli contemporanea (a partire
dagli opposti caratteri della città antica e medioevale, e dallo sviluppo e
crisi della città industriale) e dei limiti della risposta che architetti e
urbanisti del “movimento moderno” hanno dato ai problemi della modernità (con
Jane Jacobs 6 e Ildefonso Cerdà – tra gli altri - contro il Le
Corbusier teorico dei CIAM ed
i suoi epigoni, e soprattutto contro i contemporanei cantori della bellezza del
caos e del frammento, tipo Koolhaas – vedi parte 3^ di questo articolo):
schematicamente si può riassumere che per
Consonni la metropoli contemporanea tende a innestare contenitori
isolati (architettura dei bunker) su una ipertrofica rete di trasporti e
comunicazioni, finendo per consumare, con lo “sprawl”, non solo lo spazio
(frammentato e disperso dalle reti),
ma anche il tempo (spostamenti
obbligati su lunghe distanze, congestione), degradando la campagna e
disperdendo gli spazi della socialità, della convivenza tra diversi e della
conseguente sicurezza spontanea, surrogata dalla segregazione e
“militarizzazione”;
-
sia
nella formulazione di criteri alternativi per la progettazione, come “luoghi” a
misura d’uomo degli spazi urbani e
paesaggistici, valorizzando la complessità dei “contesti” (cum-texere: operare
su tessuti storicamente stratificati, polimorfi e polifonici), spaziando, con
ampia competenza letteraria e poetica (vedi soprattutto il cap. “L’ospitalità
dei luoghi – la riconquista possibile”)
anche sui campi attigui delle altre arti: danza, teatro, romanzo,
musica: secondo Consonni (se mi è possibile riassumere in breve prosa una
poetica espressa in linguaggio letterario alto) è necessario e possibile
ricreare, anche nella modernità, isole urbane a misura pedonale, orientate alla
liberazione del tempo, riconfigurandone la stratificazione diacronica con la
progettazione di nuovi spazi di relazione (archetipo della “radura” e ripristino
di corretti rapporti tra cielo e terra, tra verticale e orizzontale) e
collegandole con “strade vitali”; contro l’isolamento estremizzato di tecnica
(funzionalismo), natura (illusione della città giardino) e storia (mimesi
stilistica), occorre trovare l’equilibrio tra opposte polarità, quali
artificio/natura, ordine/complessità, aperto/chiuso, moto/quiete (ecc.),
riscoprendo - nella massima attenzione alla dimensione sociale (necessità che
la VAS sia “Valutazione Sociale Strategica) - altri archetipi progettuali, tra
urbanistica ed architettura: la soglia, la penombra, l’interferenza, la
permeabilità.
Tonon
contrappone ai teorici contemporanei della “bellezza del caos anti-urbano” una
serie di corposi argomenti, fondati appunto sulla dimensione del corpo umano e
sul benessere della “mente”, negando che l’architettura e l’urbanistica possano
essere gestite come “produzione di oggetti artistici” (analogamente a pittura
e/o scultura) e tanto meno come occasioni per rappresentare e celebrare il
disordine della modernità (assecondando nel frattempo tutti i più banali
appetiti della speculazione fondiaria).
Richiamando
l’armonia della città antica (ed anche di quella ottocentesca) ed in
particolare la sapiente costruzione e/o progettazione degli spazi vuoti tra i
fabbricati (cortili, strade, piazze) come “interni urbani”, luoghi di vita e
interazione sociale, Graziella Tonon, oltre
criticare con veemenza le odierne periferie metropolitane, propone
all’attenzione di architetti e urbanisti la necessità di re-inventare nuovi
spazi urbani vivibili, mediante un approccio “olistico”, che superi la
separazione (teorica e pratica) tra l’architettura e l’urbanistica e tra una
ragione astratta (che isola le singole funzioni) e la concretezza della vita,
che è mente e corpo (e poesia).
Le riflessioni e
proposte di Tonon e Consonni non sono scevre dalla consapevolezza delle ragioni
strutturali della crisi della città e delle dominanti socio-economiche (con
frequenti riferimenti a Mc Luhan) ed anche ideologico-culturali (il “nemico …
non sta solo fuori di noi …: è la diffusa perdita di senso”; mentre outlets,
centri commerciali e cinema multi-sale godono di un effettivo successo di
massa), che rendono difficile l’immane compito di “civilizzare” la metropoli
contemporanea.
Ma gli autori sembrano
concentrati soprattutto ad un approccio intellettuale, sia ‘dall’alto’
(interessanti considerazioni, e suggerimenti ai legislatori, sui limiti
concettuali della attuale legislazione sul suolo, ridotto a concetto
catastale-geometrico, e sulla mancanza di relazioni tra “beni paesaggistici” e
“beni culturali”, e cioè di attenzioni ai luoghi, ai tessuti e per l’appunto
alle stesse “relazioni” tra i diversi elementi di interesse), sia ‘dal basso’,
ma limitatamente ad una battaglia culturale per “addetti ai lavori”,
progettisti e amministratori, senza una prospettiva di articolazione strategica
dei modi e dei mezzi, dei soggetti e delle alleanze, per avvicinarsi alla
rifondazione urbana e paesaggistica auspicata (e dichiarata, ma non dimostrata,
necessaria e possibile).
Valgono quindi, a
maggior ragione, le domande poste nel precedente paragrafo all’Urbanistica
Riformista.
[Vedi
in appendice 3: approfondimenti e divagazioni su “architettura della città”]
APPENDICE 1: ANALOGIE FORMALI TRA KHRONOPOLIS, NEW KABUL E STADTKRONEN
Colpisce sul piano formale la non dichiarata
analogia – fatta salva la diversità di scala – tra lo schema di Khronopolis di
Casiroli, il piano per la nuova Kabul, pubblicizzato dagli autori di AS.
Architecture Studio A-S 7(nel 2009) ed il progetto utopico “Stadtkronen”
di Bruno Taut del 1919.
Figura 3: segmenti di utopie urbane:
Bruno Taut: Stadtkronen 1919
AS. Architecture-Studio: nuova Kabul 2008
Fabio Casiroli: Khronopolis 2008
Idem , visione di Narinder Sagoo, Richard
Miller, Foster + Partners
APPENDICE 2: URBANISTI
ASSESSORI E URBANISTI CONDOTTI.
La difficoltà di raffrontare una visione utopica
con la realtà sociale e politica sono da valutare anche in relazione al
coraggioso impegno diretto della professoressa Marson come Assessore Regionale
al territorio per la Toscana dal 2010 al 2015 (mentre la scuola territorialista
di Magnaghi si è cimentata attivamente con la redazione dei Piani Territoriali
e Paesaggistici di importanti territori, dalla provincia di Prato alla Regione
Puglia), in analogia storica con l’impegno politico-amministrativo diretto di
importanti maestri dell’urbanistica riformista, da Astengo a Detti, da Campos
Venuti (e di molti suoi allievi milanesi) a Cervellati, nonché Lodovico
Meneghetti (di cui sono stato allievo), che in proposito teorizzò anche il
ruolo dell’”urbanista condotto” (ripreso in questi tempi in altra forma da
Arturo Lanzani, vedi parte 3^).
Di Urbanisti-Professori-Assessori è ricca anche la
cronaca politica recente, da Angela Barbanente in Puglia a Giovanni Caudo a
Roma con la Giunta Marino, e poi con le Giunte del M5Stelle a Torino (Guido
Montanari) e ancora a Roma, dove però il prof. Paolo Berdini è durato troppo
poco all’Assessorato per sperimentare le sue cure sulle “città fallite”: “la
finanza dominante ha deliberatamente rotto lo storico patto sociale su cui è
fondata la vita delle città ed è stata conseguentemente minata alla radice la
stessa concezione del vivere comune”.34,35
APPENDICE 3: APPROFONDIMENTI E
DIVAGAZIONI SU “ARCHITETTURA DELLA CITTÀ”
Ho scelto di commentare Tonon e Consonni
(oltre che per personale simpatia ed antica vicinanza studentesca), per il
peculiare fascino della loro scrittura, ma è doveroso segnalare che analoghe
proposte orientate alla qualità urbana della città compatta sono avanzate in
Italia, da diverse altre scuole (vedi ad esempio Dal Pozzolo, Giovannini, Colarossi
e Latini 36,37,38) e che a
simili attenzioni si perviene anche attraverso i ragionamenti eretici di Marco
Romano 39, nonché – a mio avviso – seguendo gli esiti meno
formalistici e auto-referenziali della scuola di Aldo Rossi e della sua
“Architettura della Città” 40 (meno meccanicista nella parte
propositiva della “analisi urbana” di Muratori e Caniggia, 41,42
ritenuta da Consonni inadeguata a descrivere “le manifestazioni mature della
metropoli contemporanea”).
Figura 4: dalla copertina di “Architettura
della città”
Un percorso analogo di riflessione sulla città
sostenibile, in quanto eco-sistema, e non semplice sommatoria di macchine per
abitare energeticamente virtuose, si trova nel testo “Ecopolis” di Sergio
Lironi 43, che parte dalla
critica al funzionalismo del Movimento Moderno, cui contrappone la concezione
olistica ed organica di Mumford e Geddes, ed approda ad una proposta attenta
agli aspetti comunitari e partecipativi, affiancata da una recensione sugli
sviluppi concreti della bio-architettura e degli eco-villaggi europei negli
ultimi decenni.
Fonti:
1.
Maria
Berrini e Andrea Poggio “GREEN LIFE” - Edizioni Ambiente, Milano 2010
2.
AA.VV. a cura di Maria Berrini e Aldo Colonetti
“GREEN LIFE. Costruire città sostenibili.“ Catalogo della mostra (Milano, 5
febbraio-28 marzo 2010) - Editore: Compositori, Milano 2010
3.
Fabio
Casiroli “KHRONOPOLIS – città accessibile, città possibile” – Idea books/
idearte, Viareggio 2008
4. Anna Frisa, Carlo Ratti
“PROGETTARE LA CITTÀ: COME?” Dipartimento Interateneo Territorio, Politecnico
di Torino - School of Architecture and Planning, MIT, 2001 www.senseable.mit.edu/.../20011116_Frisa_Ratti_ProgettareCitta_Proceedings
CittaDiffusa
5.
Aldo
Vecchi “LA SOSTENIBILITA’ AMBIENTALE NELLA PROGETTAZIONE DI NUOVI QUARTIERI IN
EUROPA” su UTOPIA21, marzo 2017 https://universauser.it/utopia21.html
6.
Jane
Jacobs “VITA E MORTE DELLE GRANDI CITTA’
saggio sulle metropoli americane” Piccola Biblioteca Einaudi, Torino
2009
7.
AS
- Architecture-Studio “LA CITTÀ ECOLOGICA” Silvana Editoriale, Cinisello
Balsamo 2009
8.
Rosario
Pavia “ECOCITTA’” su URBANISTICA n° 148 del 2011
9.
Alberto
Magnaghi “IL PROGETTO LOCALE – verso la coscienza di luogo” Bollati Boringhieri,
Torino 2000 e 2011
10. Manuel Castells “LA NASCITA DELLA SOCIETÀ IN RETE” UBE
Paperback, Milano 2002
11. Manuel Castells “LA CITTÀ
DELLE RETI” Marsilio, Padova 2004
12. Wolfgang Sachs e Tilman
Santarius (2007) “PER UN FUTURO EQUO.
Conflitti sulle risorse e giustizia globale” Feltrinelli, Milano 2007
13. Wolfgang Sachs e Marco
Morosini (2011) “FUTURO SOSTENIBILE” Edizioni Ambiente, Milano 2011
14. Guido Viale “LE SBERLE
DELL’ECONOMIA” su “Il Manifesto” quotidiano del 18-06-2011; anche sul sito www.eddyburg.it
15. Guido Viale “I SEI
PILASTRI DELLA CONVERSIONE” su “Il Manifesto” quotidiano del 02-02-2012; anche
sul sito www.eddyburg.it
16. Anna Marson “ARCHETIPI
DI TERRITORIO” Alinea, Firenze 2008
17. Giovanni Ferraro “IL
LIBRO DEI LUOGHI” Jaca Book, Milano 2001
18. Joseph Rykwert “LA
SEDUZIONE DEL LUOGO. Storia e futuro della città” Einaudi, Torino 2003
19. Christian Norberg-Schulz
(1979) “GENIUS LOCI” Mondadori Electa, Milano 1979
20. Giuseppe Campos Venuti
“CITTÀ SOSTENIBILI E AUSTERITÀ” su “URBANISTICA INFORMAZIONI” n° 236 del 2011
21. Giuseppe Campos Venuti
“URBANISTICA E AUSTERITÀ” CLUP, Milano 1978
22. Giuseppe Campos Venuti
“IL CONTENUTO STRUTTURALE DEL NUOVO PIANO” in “Il nuovo piano – atti del XXVI
Congresso nazionale INU – Ancona 2008, su “URBANISTICA DOSSIER” n° 111 del 2009
23. Ermanno Vitale “CONTRO
I BENI COMUNI – UNA CRITICA ILLUMINISTA” – Editori Laterza, Bari 2013
24. Aldo Vecchi “ERMANNO
VITALE: UN ILLUMINISTA CONTRO IL BENE-COMUNISMO” su UTOPIA21, Ottobre 2016 https://universauser.it/utopia21.html
25. Paolo Maddalena “IL
TERRITORIO BENE COMUNE DEGLI ITALIANI” Donzelli, Roma 2014
28. Aldo Vecchi “LA
LIMITAZIONE AL CONSUMO DI SUOLO: PARTE 2^ - LA LEGGE CATANIA E GLI SVILUPPI
DELL’URBANISTICA ITALIANA” su UTOPIA21, Novembre 2016 https://universauser.it/utopia21.html
29. Graziella Tonon
“URBANISTICA E ARCHITETTURA: UN RAPPORTO DA RINNOVARE” su URBANISTICA n° 145
del 2011
30. Graziella Tonon “LA
CITTA’ NECESSARIA” Mimesis, Milano 2013
31. Giancarlo Consonni “LA
DIFFICILE ARTE. Fare città nell’era della metropoli” Maggioli, Santarcangelo di
Romagna, 2008
32. Giancarlo Consonni “LA
BELLEZZA CIVILE. Splendore e crisi della città” Maggioli, Santarcangelo di
Romagna, 2013
33. Giancarlo Consonni
“URBANITA’ E BELLEZZA. Una crisi di Civiltà” Solfanelli, Chieti 2016
34. Paolo Berdini “LE
CITTA’ FALLITE. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano”
Donzelli, Roma 2014
35. Aldo Vecchi “LE CITTA’
FALLITE” DI PAOLO BERDINI COME STIMOLO AD UNA VERIFICA FATTUALE” sul blog http://aldomarcovecchi.blogspot.it
36. AA.VV. a cura di Luca Dal
Pozzolo “FUORI CITTÀ, SENZA CAMPAGNA. Paesaggio e progetto nella città diffusa”
Franco Angeli, Milano 2002
37. Paolo
Giovannini “IL PROGETTO URBANO PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE” Dipartimento di
Urbanistica e Pianificazione territoriale, Università di Firenze (atti convegno
“dalla città diffusa alla città diramata”, Torino 2011)
38. AA.VV.
a cura di Piero Colarossi e Antonio Pietro Latini (2009) “LA CITTÀ DEL BUON
ABITARE E LA PROGETTAZIONE URBANA” in URBANISTICA n° 140 del 2009
39. Marco
Romano “COSTRUIRE LE CITTÀ” Skira, Milano 2004
40. Aldo
Rossi “L’ARCHITETTURA DELLA CITTÀ” Città studi, Milano 2006 (ristampa)
41. Gianfranco
Caniggia e Gian Luigi Maffei “LETTURA DELL’EDILIZIA DI BASE” Marsilio, Padova
1979
42. Gianfranco
Caniggia e Gian Luigi Maffei “IL PROGETTO NELL’EDILIZIA DI BASE” Marsilio,
Padova 1984
43. Sergio Lironi
"ECOPOLIS - bioarchitettura ed ecologia urbana" Edizioni GB, Padova
2011
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