CONVERSAZIONE-INTERVISTA
CON MASSIMO FOLADOR SULLE IMPRESE “RESPONSABILI” E LA REGOLA BENEDETTINA
di
Anna Maria Vailati e Aldo Vecchi
Nel libro “Storie di
ordinaria economia“,(GueriniNext editore, ottobre 2017) il professor Folador raccoglie una serie di
“racconti”, già pubblicati singolarmente sul quotidiano “L’Avvenire”, riferiti
ad altrettanti dialoghi con 24 tra imprenditori, manager, dirigenti, di aziende
“profit e no profit”, che - nelle ombre della crisi - hanno sviluppato esperienze positive su
diversi fronti della innovazione, non solo tecnologica e organizzativa, ma
soprattutto motivazionale e relazionale. Il testo è completato da una
introduzione di Marco Girardo (responsabile delle pagine economiche del
Quotidiano), che inquadra il viaggio dell’Autore nella ricerca di una “economia
civile” (riallacciandosi ad un filone culturale italiano di economia attenta al
sociale, dall’illuminismo a Luigi Einaudi) e da due contributi finali dei padri
benedettini Ubaldo Cortoni e Cassian Folsom (priore a Norcia) dai significativi
titoli “Norcia e il Capitale Spirituale” e “La Persona, l’Impresa e il Bene
Comune”.
La ricerca del prof.
Folador tra le imprese è nel frattempo ripresa, e viene pubblicata settimanalmente
su “L’Avvenire” dall’ottobre del 2018.
Massimo
Folador è fondatore e amministratore di Askesis srl (www.askesis.eu), società che si
occupa di processi di cambiamento culturale e organizzativo in alcune tra le più
importanti realtà imprenditoriali italiane, sia del mondo profit che del mondo
no profit. E’ docente di business ethics presso la LIUC (Università Carlo Cattaneo,
di Castellanza) e svolge attività di formazione e consulenza per la Business
school della stessa Università. Ha pubblicato tra l’altro “L’organizzazione
perfetta” (2006), “Il lavoro e la Regola” (2008), “Un’impresa possibile”
(2014), tutti per GueriniNext edizioni. Dal 2006 è presidente dell’associazione
“Verso il cenobio” (www.versoilcenobio.it) la cui finalità è far
conoscere in ambito aziendale, e non solo, l’attualità della regola di San
Benedetto.
Riassunto:
la casistica delle
imprese “responsabili” e la ricerca di un filo conduttore: capitale umano,
capitale relazionale, capitale fiduciario;
l’imprenditorialità
specifica del terzo settore, e la crisi del welfare pubblico;
le contraddizioni delle
imprese “responsabili” di alta gamma ed il rischio del “green washing”;
governance e partecipazione:
prevalenza dei cambiamenti indotti dall’alto;
i limiti di
riproducibilità delle esperienze più alte rispetto al ruolo dei fondatori, da
Don Bosco ad Adriano Olivetti;
il modello benedettino:
ricerca della consapevolezza di sé e della relazione con la comunità; gerarchia
moderata e valorizzazione del lavoro; peculiarità e limiti dell’esperienza
storica;
le modalità di
diffusione delle esperienze “responsabili”
e gli apporti istituzionali e legislativi.
AMV) segnala un intervento
di Anna Maria Vailati, AV) di Aldo
Vecchi e MF) del professor Massimo
Folador
AV) Con riferimento alla
Sua esperienza di formatore, orientato alla valorizzazione, per l’appunto
“umana”, delle cosiddette “risorse umane”, le esperienze aziendali da Lei
narrate in “Storie di ordinaria economia” spaziano, dal concreto delle singole
realtà, a problematiche assai vaste e diversificate, quali il welfare
aziendale, il ricambio generazionale ed i rapporti proprietà/dirigenti, la qualità
integrale dei processi produttivi, l’internazionalizzazione, le reti
collaborative esterne, le sinergie con il territorio….: si può rintracciare in
questo insieme complesso un filo conduttore?
MF) E’ la domanda che mi sono posto io quando ho
scritto la postfazione. Mentre scrivevo le storie ho approcciato due ricerche,
una dell’Università di Bergamo e l’altra della Cattolica che approdavano a
considerazioni analoghe sulle imprese dette innovative o generative. Sostanzialmente il filo conduttore è in primo
luogo questa attenzione che alcuni imprenditori (più che non i manager) danno
alla valorizzazione delle persone, del capitale umano; e in secondo luogo è una
tendenza a collaborare, che è innata, non è forse strategica, più a macchia di
leopardo che non sistemica: questi imprenditori intuiscono che c’è un capitale
relazionale; il terzo punto, che io chiamavo capitale fiduciario, è la
percezione che l’impresa sia un sistema complesso, che include il legame con il
territorio, non inteso come ambiente fisico, ma la comunità, il Comune, la rete
dei fornitori…. Molti di loro vivono questo tema di un’impresa aperta, da cui
dipende il valore dell’impresa stessa: è proprio un passaggio importante, è
come estendere il limite dell’impresa molto all’esterno dei cancelli.
AV) Quindi l’impresa non
si ferma ai suoi confini giuridici
MF) Può essere utile
richiamare la mia prima esperienza di lavoro, che fu nell’editoria alla Fabbri
Bompiani Sonzogno: nell’86 l’azienda editoriale aveva all’interno quasi tutto il
ciclo produttivo, con poche lavorazioni esterne; negli anni successivi si è
verificata l’esternalizzazione, prima della stampa, e poi di altri funzioni, ma
alla fine il ricavo era quello di prima, ma dato dall’apporto di attori
diversi. Questo tipo di processi sta diventando un po’ di più una cultura
specifica, dove l’imprenditore ha chiaro che il valore che riuscirà a produrre dipende da un sistema di relazioni.
Però
è difficile per una impresa curare nell’insieme i tre aspetti, i tre “capitali”
di cui prima parlavo, in modo sistemico e strategico: c’è chi cura l’uno, chi
cura l’altro, chi un pezzo dell’uno o dell’altro e ci sono esperienze che si
intrecciano…
AV) In taluni casi da Lei
presentati la “socialità” delle imprese è intrinseca alla stessa “ragione
sociale”, o perché operanti per i servizi di pubblica utilità o perché direttamente
strutturate nel cosiddetto ”terzo settore”, cioè senza fini di lucro; mi sembra
interessante osservare come anche in
queste realtà (necessariamente?) si ripropongono, con alcune peculiarità, le
tipiche dinamiche “imprenditoriali”
MF) Anche questo è un tema
– non nuovo – ma che oggi viene finalmente affrontato con il giusto rilievo. Alcune
Cooperative - ci sono esempi anche nel libro – sono nate attorno a persone con
esperienze peculiari post 68, servizio civile, obiezione di coscienza, grande
impegno sociale, che hanno retto per 20-30
anni; poi si è arrivati ad una svolta ed il volontariato ha preso altre forme: c’è la parte di volontariato che ha anche
necessità di riscontri economici, c’è il rapporto con la Regione che si è
complicato per la necessità di certificare gli accreditamenti, occorrono
precise competenze (la qualità c’era anche prima, ma ora occorre il rispetto di
standard pre-definiti), talora sono venute meno alcune donazioni e gli Enti
pubblici tendono a pagare di meno i
servizi. Cosicché molte realtà si sono trovate con risorse fortemente
diminuite. E allora si manifesta lento questo tentativo di dare forme più organizzate
a queste cooperative che prima erano molto più spontanee; e c’è anche un terzo
settore che cerca di diventare molto più impresa, al limite del profit, pur
sempre all’interno di una ispirazione sociale; mentre alcune imprese private
scoprono una dimensione sociale…
AV) Le realtà del “terzo
settore” da Lei considerate come si pongono rispetto alla diffusa tendenza alla
contrazione del settore pubblico e alla esternalizzazione di servizi per
prevalenti obiettivi di taglio dei costi (spesso a carico delle retribuzioni)?
MF) Il problema è diffuso
ed infatti ci sono cooperative che ormai stanno saltando; o rimangono molto
piccole, con la sede nell’appartamento del fondatore, per dire, o viceversa
devono dotarsi di strutture, di un minimo di capitale, di competenze. Spesso si
tratta di cooperative che nascono per
dare lavoro a persone in condizioni di disagio, per cui hanno ereditato
funzioni che i Comuni non potevano più fare, di minore valenza, e così hanno conti economici molto risicati. Oppure
addirittura devono far ricorso a persone ricadenti in categorie protette, per
poter abbassare i costi. In questo modo però si recupera la produttività delle
persone che il mercato scarterebbe.
AV) Queste cooperative
fanno il contrario delle imprese che allontanano le persone disabili, monetizzandone
l’onere e appaltandone la gestione al terzo settore.
MF) E’ una sorta di
economia border-line, che si gioca tra Enti Pubblici, imprese e cooperative, sul
filo del costo del lavoro.
Poche
cooperative stanno facendo invece un salto di qualità. Per anni il settore
pubblico ha appaltato alle cooperative lavori di scarsa qualità. Ma oggi lo
stesso settore pubblico è in crisi di prospettive e di reperimento di risorse
economiche. Alcune cooperative riescono a inserirsi in questo vuoto assumendo
un ruolo progettuale, ponendosi come capofila o come suggeritori nella
partecipazione a bandi europei, proponendo collaborazione a enti pubblici e ad
imprese private (alle quali non fanno ombra).
AV) All’altro estremo
della casistica, Le chiedo se alcune attenzioni sociali (verso i lavoratori e/o
verso i fornitori e/o verso i clienti e/o verso il territorio e l’ambiente)
siano sufficienti a rendere “etiche” le altre imprese, tipicamente fondate sul
profitto e mirate a conquistare i mercati.
In
particolare mi sembra significativo il caso delle imprese di Cucinelli
(maglieria pregiata in cachemire), che risulta molto sensibile su tutti quei
fronti, però inevitabilmente impone agli allevatori un determinato assetto
produttivo e asseconda, o sollecita, tra i clienti, un tipo di consumi non
propriamente “popolare”.
MF) Non è l’unico, forse è
il caso più clamoroso. Tra l’altro Cucinelli ha un suo rapporto diretto con il
monachesimo (padre Cassian è stato a lungo nel CdA dell’azienda). E’ comunque interessante
come sa tenere i conti in ordine e nel contempo offrire condizioni di favore ai
dipendenti come ai fornitori. Posizionandosi così in alto nel mercato
sembrerebbe un modello poco replicabile. Invece è perseguito anche da altre
imprese - di alcune ho parlato nel libro - con aspetti simili, pur in fasce di
mercato un po’ inferiori, e con minori margini di redditività.
Mi
ricorda l’esperienza dei “santi sociali”, come Don Bosco, che potevano riuscire
perché erano anche manager. Per fare certe scelte non basta essere brave
persone, ma bisogna saper fare impresa; e al tempo stesso non basta saper fare
impresa, sennò tutti gli imprenditori sarebbero santi. Ci vuole un innesco tra
queste due capacità. Penso tuttavia che tali scelte valgono solo se ci si pone
in una prospettiva di medio-lungo periodo, il pensare a breve termine porta
inevitabilmente ad altre scelte.
AV) Qualche anno fa siamo
stati invitati, come architetti, a visitare una fabbrica di rubinetti di alta
gamma, che vantava molti pregi ambientali e anche qualche attenzione sociale;
mi chiedo (e Le chiedo) però se può essere “ecologico” fare “rubinetti d’oro”
(oppure produrre la Ferrari). Pochi
giorni fa, guardando al TG la settimana della moda, vedevo l’assegnazione di
premi per gli stilisti più sostenibili: ma può esserci una sostenibilità del lusso?
E’ solo una campagna promozionale oppure finalmente queste tematiche
raggiungono anche quel mondo, in modo forse un po’ distorto? Insomma c’è del
buono in queste iniziative?
AMV) Però tu puoi fare produzione
di lusso sfruttando i bambini in India oppure puoi fare la stessa cosa
rispettando tutte le norme; forse è meglio “comunque”
MF) Sì, c’è questo
“comunque”. Due o tre anni fa fecero una serata a Report con Cucinelli e
Moncler; erano due aziende fashion entrate in borsa lo stesso anno: di
Cucinelli hanno raccontato di una impresa che fa alta moda secondo certi
criteri; Moncler, pur guadagnando meno, risultava spinta alla de-localizzazione
senza guardare troppo per il sottile. Un'altra cosa che mi viene in mente a
proposito sono due spot che ho visto al cinema, prima di un film, due spot di marchi
molto noti, tutte
imperniate sull’Africa, sul Sociale, sulla sostenibilità, ma in maniera molto
pubblicitaria, su cui ti viene subito il dubbio che sia una finzione, che sia
solo quello che viene chiamato ”green washing”. D’altra parte ti chiedi, se ne
parlano tanto, qualcosa avranno pur fatto. In questo campo è difficile capire
dove inizia o finisce il bene rispetto al male.
AV) Nelle imprese profit
da Lei raccontate, la responsabilità sociale nasce solo dall’imprenditore (top
down) o anche da spinte etiche dal basso (bottom up)? Si riscontrano modalità
tipiche di modificazione negli schemi di governance aziendale?
MF) Negli ultimi tempi su
questo aspetto mi ritrovo un po’ pessimista. Ne parlavamo ad un convegno
all’abbazia di Viboldone, con la Badessa, madre Ignazia, che è di vista molto
acuta: l’uomo è sì plasmabile, si diceva, ma se si plasma nell’insicurezza di
oggi, si determina allineamento e appiattimento. Quando c’è cambiamento per iniziativa
dai vertici aziendali, che perdura nel tempo, allora c’è coinvolgimento. Invece
oggi vedo pochi processi di cambiamento dal basso. Nelle situazioni confuse e
insicure le persone fanno passi indietro.
AV) Anche quando c’è
partecipazione, allora, è piuttosto passiva?
MF) Ho l’impressione che
se non viene indotta dai vertici con energia, la partecipazione sia “poco
partecipata”. Così non era anni addietro, quando si riscontrava molta più
vivacità anche dal basso.
AMV) C’è anche una
questione dei ruoli nella vita individuale e nella vita sociale, il lavoro si
sta svalorizzando?
MF) Certamente. E non è
questione di giovani o anziani, io smitizzerei questa separazione. Se c’è un
po’ di attenzione ai temi sociali e ambientali, di contro c’è però molta pigrizia
AMV) Vorrei chiedere se i lavoratori
delle imprese dove vi sono maggiori sensibilità positive si rendono conto della
differenza rispetto alle altre situazioni più ordinarie?
MF) Anche questo è un tema
grande. C’è anche poca mobilità e quindi ci sono limiti alla consapevolezza. Ad
esempio in una impresa assicurativa con cui ho lavorato
(e le assicurazioni sono un settore dove ancora c’è un agio economico), a fronte di importanti innovazioni, ci sono
state resistenze e polemiche, che fanno venir voglia di dire “ma provate ad andare
a lavorare nell’azienda accanto…” .
E’
questo che un po’ mi spiace nell’umano di oggi, ma anche di ieri: è che teniamo
un orizzonte limitato alla propria area di benessere.
AV) Il caso delle
cooperative agro-alimentari anti-mafiose della Locride, che resistono agli
attacchi vandalici mettendo in conto i costi di periodiche ricostruzioni di
attrezzature danneggiate dalle cosche (quasi “porgessero l’altra guancia”) e
però vantano bilanci in attivo, coniugando solidarietà sociale e qualità
ecologica (e che merita di essere raccontato, come nel Suo libro, ben oltre
questa nostra rivista) può divenire un modello ampliabile e ripetibile (con
quali strumenti e alleati: lo Stato, associazioni come Libera…?) oppure
costituisce una esperienza unica e fortunata?
MF) E’ l’esperienza più importante
del libro. Nasce da una intuizione di monsignor Bregantini, un pensiero
cristiano e ad un tempo socialista. Per realizzarla è stata incaricata la persona
giusta, con incredibile forza morale (ha famiglia, e va in giro senza scorta) e
bravo a fare impresa, capace di fare molta comunicazione già sui primi piccoli
effetti, e di far crescere la cosa in una spirale virtuosa, che li ha portati
ad essere molto visibili, ad esempio nei programmi della RAI, ad avere
l’Ambrogino d’oro.
E
questo li protegge in parte anche dalla Ndrangheta, che – diversamente dalla
mafia – non cerca notorietà dannose.
Oggi
raggruppano 200 persone, sono 5 cooperative ed un consorzio, hanno una sede, hanno
credito dalle banche, collaborano con Libera e altre realtà, in una rete
articolata, ben congegnata: ad esempio hanno una linea produttiva per Yamamay,
impresa che figura nel libro e che io gli ho fatto conoscere. Le istituzioni li
hanno accolti, ma continuano a vederli come dei tipi strani.
C’è
il rischio che la sorte dell’iniziativa resti legata alla vita del fondatore.
E’ un modello che si fonda molto sul “carisma”, e il carisma personale (anche
nelle imprese), non sempre è replicabile…
C’è
anche un problema di carenze teoriche.
Uno
degli imprenditori “responsabili” con cui collaboro, ad esempio, vorrebbe finalmente
fare un libro. I miei sono solo racconti, manca ancora una saggistica con
analisi approfondite su queste esperienze, difficilmente diventano modelli
ripetibili, perché non sono ancora ben indagati, proprio sotto il profilo
economico.
AV) Forse manca anche una
domanda organizzata per sorreggere studi analitici su questo tipo di economia.
MF) Si, certo. Mi viene da
pensare ancora ai Santi Sociali, che erano persone di grandi ideali, ma anche
capaci di organizzare. Don Bosco pare che fosse un vero imprenditore. E le loro
intraprese spesso sono sopravvissute ai fondatori, oltre il carisma personale.
AMV) Ma dietro c’era la
Chiesa e anche la Chiesa è una organizzazione sopravvissuta al suo fondatore…
MF) La Chiesa infine li ha
riconosciuti. Ed era anche un periodo particolare, alla fine dell’Ottocento e
all’inizio del Novecento, in presenza di un forte fermento sociale.
AMV) Un periodo in cui per
la Chiesa occorreva contrapporsi ai movimenti socialisti.
MF) Invece il caso di
Olivetti ha visto il crollo del suo disegno dopo la sua morte, che purtroppo è
avvenuta in un momento delicato, al massimo storico dell’indebitamento della
ditta. Le banche, la famiglia, i nuovi manager hanno distrutto quella
prospettiva (facendolo passare per un visionario)
AMV) Probabilmente non solo
per come intendeva l’impresa, ma anche per quello che produceva, e che avrebbe
affidato all’Italia un ruolo di avanguardia nell’informatica, disturbando
l’America?
MF) Ci sono voluti
trent’anni per ristabilire una corretta ri-lettura di Olivetti
AV) Al termine del Suo
libro, è inserito un contributo del padre benedettino Cassian Folsom (O.S.B.
del Monastero di Norcia), che ci ricollega alla rivalutazione della regola di
San Benedetto, da Lei proposta (in altri Suoi testi e nelle Sue attività di
formazione; ma ciò avviene anche in altri ambiti benedettini, come recentemente
raccontato su “la Repubblica” da Paolo Rumiz) come valido riferimento
alternativo per la gestione dei rapporti umani all’interno delle aziende; tale
impostazione è affascinante, tuttavia leggendo gli esempi riportati da padre
Folsom mi pongo il dubbio se tali casi estremi non siano eccessivamente
paradossali per la riflessione dei comuni mortali nota A : si tratta
di un percorso verso la “santità”, e quindi necessariamente elitario, oppure di
una profezia (o utopia) accessibile a tutti?
MF) Ne parlavo oggi con un
imprenditore ligure. Le imprese sono immerse in una complessità sociale,
politica, che è esogena, e che si protrarrà nei prossimi anni, ma cui le
imprese devono comunque rispondere.
E
la chiave sono le persone. Solo se le persone reggono la complessità, l’impresa
risponde in modo adeguato: la persona che si muove in relazione alla comunità,
viene prima delle strategie, che oggi nessuno sa quali possano essere.
Per
questo faccio riferimento alla figura del monaco, che sceglie di stare
nell’ambito del convento e metà delle cose che fa le fa per diventare più
consapevole di sé e del rapporto tra sé e il mondo, avvalendosi di questo
sguardo diverso. E’ anche il pensiero del saggio cinese Lao-Tse: se il nemico è
sovrastante devi concentrare le tue forze.
D’altronde
l’elenco delle competenze che emergeranno nel futuro, e che cambieranno
radicalmente rispetto al passato, secondo il rapporto del World Economic Forum,
sono tutte quelle incentrate sulla persona: la relazione, la capacità di
concentrazione, il problem solving.
Nel
contempo si conviene che è la persona che dovrebbe rafforzarsi nella comunità;
gli uffici, le aziende, i Comuni devono diventare più “comunità”: che è l’altro
uovo di Colombo del monachesimo, e che è quello che dice Cassian.
Credo
che loro, i benedettini, abbiano evidenziato due cose, che sono semplici, ma
che nei momenti di difficoltà permettono alle persone ed ai convivi delle
persone di reggere l’urto.
In
fasi difficili si sono addirittura chiusi dentro, però hanno salvaguardato valori
generali. Noi arriviamo a questo più deboli personalmente e con poca voglia di
relazionarci
AMV) Siamo di fronte a
modificazioni profonde e inquietanti…
MF) Ed è preoccupante la
banalità dilagante, che riduce il linguaggio ad “I like”, al ritrovarsi tra
simili, facendo venir meno il confronto.
Il
monachesimo in sostanza dice: cercati, che qualcosa in fondo troverai, meglio
se con l’aiuto di una Parola terza (così è per loro); e cercati una comunità.
AV) Il messaggio
benedettino di ascolto e cura delle persone risulta valido se diretto ai capi e
agli apprendisti capi od anche per i subalterni (i quali sono però costretti
comunque a subire “a-priori” il potere gerarchico del ”priore”)?
MF) A quell’incontro con
la Badessa di Viboldone, si esaminava la Superbia (e gli ultimi 3 vizi capitali)
e si evidenziava che nella Regola di Benedetto la figura dell’abate compare
solo al cap. 2 e poi in uno degli ultimi, nella versione rielaborata dopo 30 anni
di esperienza.
Benedetto
rivede e arricchisce il ruolo dell’Abate come buon padre di famiglia, fondato
sul buon senso: fa scendere ancora la gerarchia
in favore della relazione, e lì ci sarebbe ancora molto da indagare.
Nella
comunità monastica comunque c’è una gerarchia che è molto moderata da un’idea
di relazione e di comunità. Quella che aveva in mente Olivetti, quando parlava
di comunità organizzata.
Mentre
nell’azienda molto dipende dalle persone che ci sono al vertice: ci sono
aziende che sono fortemente gerarchizzate, e dove comunque la gerarchia vince e
altre poco organizzate a forte relazionalità (e che poi talora si incasinano).
L’ideale
è un equilibrio tra una ossatura gerarchica che comunque è necessaria ed una diffusa
capacità di relazione. Il nodo sono i capi, che danno l’impronta, mentre i subalterni
per lo più li seguono.
AV) La vostra didattica pertanto
è rivolta ai capi. Andare a insegnare ai subalterni che il capo deve ascoltarli
appare contradditorio?
MF) Sì, è rivolta soprattutto
ai capi Le neuroscienze ce lo stanno dicendo, che l’uomo ha bisogno di
partecipazione, si nutre di relazione (d’altronde lo diceva anche Aristotele, e
poi Maslow). Dove una realtà genera relazione, poi l’uomo risponde. Se attivi
la relazione, è un modo che tu hai affinché la persona cominci a cambiare
velocità. Devi attivarla continuativamente in modo fiduciario. E chi può
attivarla è il capo, il quadro intermedio
AV) Questa considerazione
è anche un caposaldo culturale per contrapporsi all’isolamento dei fruitori di
Internet
MF) Mi diceva un amico,
padre di ragazzi adolescenti, che l’oratorio dove li forza ad andare ha organizzato
prima un week end e poi una settimana in montagna lasciando a casa i
telefonini. C’è stata dapprima una bassissima adesione, al week end, ma quelli
che sono tornati hanno cominciato a dire che è stata un’esperienza bellissima,
e alla successiva settimana c’è stata un’adesione enorme, scoprendo che stare
assieme facendo cose è molto meglio. Se abitui le persone alla relazione, poi
si accorgono che è fonte di energia, che dentro c’è un sacco di roba buona.
AV) La riproposizione, in
un moderno contesto aziendale, di alcuni canoni della regola benedettina si
fonda sulla qualità intrinseca del messaggio oppure anche sulla considerazione dei
successi storici/aziendali dei monasteri benedettini (pur trattandosi comunque
di esperienze minoritarie, ed in calo dopo l’Alto Medio Evo)?
MF) La cosa buffa, che ho
toccato con mano, è che ai monaci dell’economia non importa nulla. Hanno
condotto imprese senza documentare gli aspetti economici (diversamente dai
francescani). Se ora qualche padre benedettino, come Grun in Germania, incrocia
il monachesimo e l’economia è per esperienze particolari. La Regola ha detto
essenzialmente “tu vuoi essere felice, ti propongo una comunità”, poi se di
conseguenza c’è anche da lavorare “non farlo come disgrazia, fallo perché ha
senso”. Poi da lì si è sviluppata una storia inusuale, ma forse anche
inconsapevole, combinando lavoro e competenze, in autosufficienza e facendo
meglio dentro i monasteri che fuori, nei tempi più bui.
AV) Forse anche perché i
secoli di maggior fulgore dei benedettini sono periodi con scarsa circolazione
di moneta; però il concetto di autosufficienza e di autonomia del singolo monastero
viene poi contraddetto dal grande disegno dei cistercensi, che si propagano da
un monastero all’altro?
MF) Prima c’era
l’esperienza di Cluny, una grande struttura accentrata, fino a 800 monaci, più
l’indotto; per i cistercensi invece valeva il modulo di 12 monaci, quando c’era
più afflusso si andava a fondare un nuovo monastero.
AMV) Può ricordare
l’esperienza delle città dell’antica Grecia, che avevano, per motivi di
scarsità delle risorse agricole (ma anche per consentire il funzionamento di
istituzioni assembleari), una sorta di numero chiuso, superato il quale i
cadetti dovevano partire per fondare una colonia.
MF) E’ un criterio che ho
incontrato anche nella crescita della Cooperativa di Iseo, di cui parlo nel
libro, che ha una struttura fondata su micro-cellule e da lì la generazione di
nuove unità, abbinando crescita e stabilità; può essere utile nel dibattito che
si è riaperto su grande o piccola impresa.
AV) L’autonomia delle
cellule ricorda anche la struttura delle organizzazioni clandestine…
MF) L’analogia delle forme
organizzative è interessante
AMV) Anche la Chiesa cristiana
delle origini talora doveva seguire logiche di clandestinità…
AV) Tornando ai conventi e
all’economia, il caso dei francescani è stato diverso, perché sorti più tardi e
dentro le città? (secondo Paolo Prodi è stato Bernardino da Siena a sdoganare il
tasso di interesse rispetto al peccato di usura, affrontando il nocciolo del
capitalismo nascente)
MF) Certamente i
francescani hanno sempre fatto economia, dal tardo medio Evo, con gli strumenti
dell’epoca. I sermoni di San Bernardino sono dei trattati di economia. E anche
oggi dai francescani emergono importanti contributi…Anche i benedettini di
Dumenza, che la vostra redazione di Utopia21 conosce, e che stanno sviluppando
importanti riflessioni sull’oggi, con cui collaboro, hanno chiamato alcuni
francescani, che non sono tecnicamente economisti, ma capiscono le
trasformazioni
AV) Non è paradossale
assumere il modello monastico benedettino per la formazione del capitale umano,
in quanto fondato anche sulla castità e quindi sulla non-riproduzione delle
stesse forze di lavoro?
Ci
sono queste comunità che perseguono la felicità, l’equilibrio con il
territorio, con un influsso benefico sulla popolazione circostante, si offrono
come luogo di rifugio, ma non si pongono il problema di riprodursi, se non per
l’adesione di altri adulti
MF) San Benedetto eredita
questa impostazione, ma in effetti nella Regola non se ne occupa, la dà per
scontata
AMV) Probabilmente pesano i
precedenti, la concezione del monachesimo orientale, con il purismo degli
eletti ed il rifiuto della riproduzione, il rapporto tra la castità e l’Essere
superiore, fino quasi ad un rifiuto della vita terrena, in un processo di
rinuncia e di ascesi; il monachesimo benedettino nasce con una Chiesa cristiana
già strutturata, che include questi valori. E agli albori del cristianesimo si
intrecciano con l’attesa escatologica del ritorno del Messia. Le prime comunità
di tipo monastico nei territori dell’impero si insediano in ville patrizie
rustiche (quando il cristianesimo raggiunge il patriziato), dove si pratica la
fratellanza, e che spesso hanno continuità di luogo con i successivi monasteri
veri e propri.
D’altronde
la castità è presente in altre religioni, ad esempio nell’induismo spesso
persone che hanno condotto una normale vita familiare, ad una certa età passano
ad una condotta quasi eremitica, rinunciando tra l’altro al sesso (e quindi alla
riproduzione della vita), come se fossero un impedimento alla spiritualità.
AV) Però nel monachesimo
occidentale, da Benedetto a padre Bianchi della comunità di Bose, c’è anche un
approccio gioioso alla vita, ad esempio al cibo
MF) Subentra anche un
processo di sublimazione, ad esempio dal sesso al cibo. Ci stiamo occupando del
monachesimo antico, prima di Benedetto, in questo ciclo di incontri sui “vizi
capitali”, approfondendo il pensiero dei monaci cristiani orientali; un
pensiero che si propone la persona come luogo di energia, che si sublima verso
le virtù o viceversa si deteriora se se ne fa un uso cattivo; questa energia è
la sessualità, che può andare verso la lussuria o viceversa. C’è un contraltare
sempre: l’ira può diventare il coraggio.
La
creatività e il sesso diventano una cosa delicata e complessa da capire; la
repressione può generare disagio oppure sublimarsi in bene per gli altri, in
creatività artistica.
AMV) E’ la storia della
Chiesa, la svolta rispetto al mondo greco-romano, che porta a questa
impostazione, a cui il monachesimo deve attenersi
AV) Rispetto al
monachesimo orientale degli stiliti e degli eremiti, con Benedetto si profila
come un sorta di “monachesimo deviato”, che abbandona le finalità ascetiche perché
non esclude la ricerca di una felicità terrena, ma in una dimensione
orizzontale e comunitaria, proponendo un benessere possibile, ma attraverso la
rinuncia all’egotismo?
MF) Questo è un passaggio
importante, anche per l’oggi, come i monaci affrontano la “filautia”. La Regola
– come anche il Cristianesimo – è improntata alla rinuncia dell’egotismo in
favore di un sano egoismo che però incontra la Relazione
AV) Ora tutto questo
discorso del non-riprodursi della comunità forse funziona così, che avevano
comunque molti adepti perché erano un luogo di rifugio, la “materia prima”
arrivava perché erano in qualche modo gli “scarti” del resto della società.
AMV) Era una società in cui
l’idea del peccato era una cosa pazzesca. La gente viveva a contatto con questa
paura dell’Inferno, dei Mostri (ne vediamo le immagini). Anche se il Medioevo
non è in realtà solo ”secoli bui”. C’era di che fuggire. Penso soprattutto ai
monasteri femminili, queste povere ragazze sfuggivano a matrimoni spaventosi e
trovavano l’unico luogo in cui le donne potevano avere un ruolo, come
testimoniano molte grandi Badesse…
AV) Era una forma di
prevenzione dal femminicidio? Anche per gli uomini la protezione delle mura del
convento poteva consentire di non andare in guerra, di non assoggettarsi ai signori.
MF) Ma è vero soprattutto
per le donne, potevano trovare un ruolo e paradossalmente anche una forma di
libertà, nel solo rispetto della Regola.
La
Badessa di Viboldone mi spiegava come l’obbedienza alla Regola è la massima
libertà perché la vera libertà sta nel seguire le cose che producono felicità.
In realtà tutti obbediamo a qualche cosa, se disobbediamo e perché obbediamo a
qualcos’altro, ma ci sembra di essere liberi. L’accettazione di una regola un
po’ costrittiva ci appare difficile. Ma loro dicono “noi crediamo che in questa
regola ci sia del buono, per cui liberamente scegliamo di seguirla, e poi
effettivamente pian piano ci accorgiamo di diventare un poco migliori”.
AMV) Il periodo tardoantico
è pervaso da grandi paure: impero d’occidente caduto, regni che si scontrano;
la Regola è semplice, fatta di poche cose. Seguire la Regola è diverso che
seguire l’autorità del vescovo, che può essere anche arbitraria e diventa
spesso potere temporale
Figura 6 – Un chiostro cistercense (Morimondo)
MF) All’inizio non capivo,
poi, approfondendo, Benedetto aveva chiaro l’umano, aveva alle spalle una
esperienza di santità, nella Regola ad ogni parola inserisce una piccola
ricchezza. La Regola è semplice ma piena di buon senso e di umanità
E’
il contrario di quello che si fa oggi. Pensiamo a come oggi cresce un giovane,
che ogni giorno se ne inventa una...
AMV) Quando noi eravamo
bambini e ragazzi le regole da seguire, a partire dalla famiglia erano chiare,
anche poche, ma non c’erano dubbi.
MF) Se pensiamo a come
erano acuti i conflitti anche dentro la Chiesa, in quei secoli, la scelta del
monachesimo era anche quella di dire “dandoci una regola noi almeno litighiamo
di meno”
AMV) La situazione poi
peggiora nell’epoca delle Commende, nelle degenerazioni degli Ordini?
MF) E’ da valutare questo
meccanismo delle “degenerazioni”, che spingono a nuove riforme.
Il
percorso dovrebbe essere quello persona-comunità-Regola-competenze, ma vediamo
proprio con i Cistercensi che si allontanano da Cluny per starsene a
“Ca-di-Dio” e nella povertà assoluta, ed invece in cento anni conquistano
l’Europa, e a un certo punto si arricchiscono e qualcuno poi si domanda se
stanno deviando dalla retta via; e così si ha la ripartenza, con le riforme e
nuovi ordini.
Perché
la storia del monachesimo non è lineare, ma comprende questi cicli, pauperisti
che poi si imbattono con la ricchezza e si “imborghesiscono”, depravano, e
allora si cerca un nuovo ritorno alle origini.
E
però dimostra che l’organizzazione fondata sul circuito
persona-comunità-Regola-competenze, un modo giusto di far circolare le risorse,
produce ricchezza. E questo ci interessa anche per l’economia di oggi.
AV) Non so bene come si
sia evoluta nella storia del monachesimo benedettino, ma dentro alle pieghe
della Regola si insinua ad un certo punto anche una divisione classista del
lavoro, tra i monaci, i conversi ed i servi? (se ne coglie una versione
esasperata ne “I Viceré” di De Roberto: ma siamo in pieno Ottocento)
MF) Distorcendo la
concezione del lavoro di Benedetto, che - anche a detta di antropologi e
sociologi - è il primo nella storia dell’Occidente che lo nobilita, in quel suo
inciso “guarda che se Tu sei un uomo di fede, allora lavora, ma non per mero
dovere, guarda che è roba buona”, capovolgendo quanto vissuto fino ad allora,
quando il lavoro era solo la fatica degli schiavi.
Ma
al fondo l’umanità è fragile. Sartre, l’esistenzialismo, Camus mi fanno
tenerezza, perché non tengono conto di questa fragilità umana.
AMV) D’altronde falliscono
tutte le teorie che postulano che l’uomo sia buono e non fanno i conti con la
realtà
AV) Con il disorientamento
di oggi, forse chiudersi in una comunità, con le sue belle regole, può avere
nuovamente un fascino
MF) C’è questo libro di Rod
Dreher, un americano, “L’opzione Benedetto”, dove si teorizza che le comunità
monastiche avrebbero avuto successo perché erano enclaves chiuse; ma in realtà
i monasteri erano porosi, le grandi abbazie erano dei borghi. Anche oggi il
tema non è chiudiamoci
AV) Intendevo
“sottraiamoci alla confusione”
MF) Non è barricandoci che
si risolve. A parte che probabilmente non è possibile. Questo libro,
equivocando l’esperienza monastica, propone la chiusura: non è nello spirito
cristiano,
AMV) Però un po’ c’è nello
spirito del monachesimo; raccogliamo le nostre forze, e solo poi confrontiamoci
con l’esterno
MF) Conoscendo tante
comunità, vedo che le comunità che si chiudono involvono. Quelle che evolvono
mantengono l’identità, ma si aprono. Vedi i monaci di Dumenza: fisicamente si
sono quasi isolati, ma lo vedi che sono in dialogo. Altri si ritraggono e si
accartocciano. Oggi c’è l’impressione che tutti comunichino, e in realtà non
dialogano con nessuno C’è contatto, ma non c’è relazione.
AV) Domandone finale: alcuni
economisti, come Becchetti o Magatti, criticando gli assetti presenti, sembrano
puntare molto sul ruolo sociale delle “imprese responsabili”. Lei pensa che
possa delinearsi una società migliore attraverso la (sola) diffusione di un
insieme di esempi virtuosi? C’è modo di rendere etico il contesto di mercato,
oltre la singola impresa? L’auspicabile estensione di esperienze evolutive
rimane affidata alla spontaneità oppure sono possibili stimoli istituzionali?
Inoltre: sono comunque indispensabili anche i classici (ma usurati) strumenti
di politica economica generali? (C’è facoltà di non rispondere…)
MF) Non mi pronuncio
ancora sulla manovra di questo Governo, sono in attesa: forse c’è qualcosa che
non capisco. L’economia avrebbe bisogno di scelte. Il precedente governo
qualcosa aveva fatto. Ad esempio la legge sulle “società benefit” NOTA B, con l’Italia
prima in Europa su questo fronte. Aiuterebbero ad esempio de-fiscalizzazioni…
Ma
al momento rimangono fenomeni marginali. Qualcosa di positivo c’è, ad esempio
la legge 231 del 2001 (sulla responsabilità penale dei soggetti giuridici), o
anche l’obbligo dei report di sostenibilità per le imprese quotate o per le
cooperative. Però mi sembrano norme o indirizzi che non hanno ancora iniziato a
generare cultura; la sensibilità resta in capo alle imprese e quindi agli
imprenditori. Bisognerebbe invece che si muovessero i “corpi intermedi”. Mentre
vedo indietro sia Confindustria che Confartigianato. Le imprese “virtuose” sono
ancora piuttosto isolate, devono arrangiarsi da sole.
Un
altro aspetto che Becchetti sottolinea è quello del consumatore, se aumentasse
il suo discernimento, potrebbe influenzare molto di più le aziende. Un
pochettino sta accadendo, non so quanto. Un consumatore più maturo rende più mature
anche le imprese; molte imprese cominciano ad essere sensibili ai “voti” dei
consumatori.
Su
questo forse c’è un effetto benefico dei social.
L’Italia,
che appare sempre un po’ in ritardo, però forse è tra i primi paesi ad aver
raccordato alcuni elementi, come le Benefit Corporation, il terzo settore, le
cooperative… Ci sono nuovi elementi su cui in Italia ci si sta muovendo. Adesso
occorre vedere da un lato cosa farà il nuovo governo, dall’altro se queste
norme rimarranno sulla carta o diverranno cultura, innescheranno dei processi:
per ora siamo solo agli inizi.
AV) Per ora sono solo ”nicchie
normative”, che non pervadono l’assetto complessivo del mercato?
MF) Per esempio il Decreto
legislativo 231, “legge sull’etica”, noi l’abbiamo seguita a lungo, perché era
veramente ben congegnata, ma è stata mal interpretata, mal accolta, divenuta ostaggio
degli studi legali, come adempimento burocratico da disbrigare; alla fine è
risultata una opportunità sprecata.
Il
mondo anglosassone è orientato alla norma, l’etica contrattuale nasce lì; il
bene comune è la sfida, per creare bene comune tra me e te occorre normarlo.
L’etica
è la virtù, ma deve essere suffragata dalla norma.
In
Italia c’è un po’ di legge morale, ma è “strattonata”: bisognerebbe in primo
luogo renderla più cultura e in secondo luogo supportarla con una normativa
adeguata.
Però
c’è anche in giro un sacco di brava gente, c’è un fermento positivo, che – ad
esempio – non ti aspetteresti al vertice di tante imprese.
L’Italia
è un po’ un guazzabuglio, un tessuto positivo ci sarebbe, ma poi ci disperdiamo
in mille rivoli: abbiamo il peggio ma anche gli anticorpi.
In
alcuni zone prevalgono gli uni a scapito degli altri, e viceversa.
Io
comunque preferisco lavorare in questa realtà rispetto ad esperienze che ho
fatto in Nord Europa. Altrove, e soprattutto nelle multinazionali (anche nelle
filiali italiane) prevalgono schemi procedurali pesanti e abbastanza
impermeabili alle istanze socio-ambientali di cui abbiamo parlato
AMV) Una cosa che vorrei
capire: le imprese normali come vedono quelle “responsabili”, impegnate nel sociale
nell’ambiente?
MF) Ho l’impressione che
ci sia una sorta di “switch”: o capisci o non capisci. A quelli che potremmo
definire “non-etici” (a parte i ladri), anche imprese serie, non gli passa nemmeno
per la testa di porsi questi problemi: non li vedono. Vedi il caso Olivetti. Li
considerano strani.
Anche
se gli dici che gli imprenditori “etici” hanno fatto profitti, non gli
interessa.
Ci
sono carenze culturali e ideologiche, a partire dalle Università.
NOTA
A: un eremita che distrugge il lavoro svolto per poter ritrovare di che
lavorare.
Un
monaco provetto artigiano che deve rinunciare alla professionalità per
dimostrare umiltà.
Il
successo anche economico dei monasteri quale “eterogenesi dei fini”, ma che
viene conseguito attraverso prezzi fuori-mercato grazie al lavoro volontario e
sottopagato
NOTA
B: il concetto di “società benefit” è ben illustrato ad esempio nel dossier: