Un classico della
sociologia, costruito attraverso sistematiche campagne di rilevamento delle
opinioni socio-culturali e politiche in diversi Paesi, nel passaggio attraverso
lo sviluppo industriale e post-industriale, ritornato di attualità (ed
aggiornato) alla luce delle attuali spinte populiste.
Riassunto:
il metodo di indagine, interviste ripetute di anno in anno in molti Paesi e
riscontri socioeconomici, nel secondo Novecento; correlazioni di fondo tra
stadio di sviluppo materiale e assunzioni di mentalità prima “moderne” (ad
esempio socialdemocratiche) e poi post-moderne (ad esempio radical-verdi), in
materia non solo di politica, ma di famiglia, diritti, lavoro, ecc.;
vischiosità generazionali ed eccezioni geo-politiche; la controversa
peculiarità del fattore religioso; oltre Marx e Weber: oltre la
contrapposizione destra/sinistra? Anticipazioni sulla nuova ricerca pubblicata
nel 2018, in aggiornamento rispetto a quella uscita nel 1996.
in corsivo i commenti
personali del recensore
Si
può considerare ormai un testo classico “La società postmoderna”1 di
Ronald Inglehart, sociologo del Michigan (nato nel 1934) e coordinatore a
livello internazionale delle campagne di indagini demoscopiche “World Values
Surveys”, svolte ripetutamente con domande identiche (o quasi) in 43 paesi; un
classico della sociologia politica che torna di attualità di fronte
all’espansione dei populismi (vedi mio articolo in questo numero di
“Utopia21”).
In
particolare il testo descrive ed analizza gli esiti dei rilevamenti del 1981 e
del 1990, affiancandoli ad alcuni risultati – per il solo campo dell’Europa
comunitaria – del cosiddetto “Eurobarometro” e ad altre ricerche più puntuali.
Anche
se le valutazioni di Inglehart e collaboratori sono intrecciate con la lettura
di altri dati statistici “oggettivi” (ad esempio la crescita del PIL, la
demografia, i rivolgimenti politico-istituzionali), la materia prima dello
studio è costituita dalle “opinioni” della popolazione, rilevate tramite
questionari a campione, ed in particolare dai valori medi a livello nazionale
(e talora a livello locale) delle diverse risposte, confrontate con quelle
delle altre nazioni e nel divenire temporale, in parte anche prima del 1981 e
dopo il 1990.
Ma
non dopo il 1996, data della ricerca, la quale pertanto ha potuto misurarsi
solo con alcune recessioni cicliche del secondo ‘900 in singole aree
geografiche, e non con il tema della grande recessione successiva al 2007: a
ciò ha sopperito la recente pubblicazione (per ora in inglese)2 di
un nuovo ciclo operativo della grande ricerca del Wordl Values Survey.
La fede di Inglehart e
degli altri ricercatori nelle opinioni e
nelle “medie” risulta priva di qualsivoglia forma di dubbio, riserva o
“istruzione per l’uso”: per esempio tra gli indicatori assunti figura la
risposta a quesiti circa l’adesione degli intervistati ad organismi di
volontariato, senza che vi sia alcun riscontro sul dato oggettivo delle
iscrizioni effettive a tali associazioni;
in generale non si dà peso alla preoccupazione circa l’attendibilità delle
risposte e circa le distorsioni tipiche che alcuni sondaggi comportano; le
medie nazionali – ammette Inglehart - rischiano di rafforzare stereotipi e
luoghi comuni, ma il rischio viene accettato senza specifici rimedi (quali ad
esempio la rilevazione dell’ampiezza degli scostamenti a ventaglio nel
campionamento dei dati in una nazione, rispetto alla media nazionale risultante):
pare che la raffinatezza degli algoritmi di calcolo appaghi i ricercatori riguardo
alla scientificità del loro lavoro, come spesso accade negli ambiti
specialistici.
(Accettando il criterio
delle medie nazionali, appare alquanto affascinante la ricomposizione della
costellazione dei risultati nelle illustrazioni tabellari, ovvero nello spazio
cartesiano delle matrici dei dati: le nazioni formano nuove arcipelaghi ed i
continenti sperimentano nuove derive nei quadranti delle opinioni).
L’assunto
di fondo della ricerca consiste nella individuazione di un percorso “tipico” (e
quindi addirittura prevedibile, per il futuro delle nazioni ancora
sotto-sviluppate) nel processo di sviluppo economico delle singole nazioni,
evidenziando che – salvo eccezioni, spiegate soprattutto con l’incertezza
determinata da rivolgimenti politico-istituzionali (ad esempio Sud Africa ed
Est Europa) - :
- nel passaggio dall’economia di
sopravvivenza al decollo industriale si rilevano mutamenti nel sistema di
pensiero, correlati al venir meno della preoccupazione basilare per la
sussistenza, con l’abbandono delle ideologie tradizionali (in materia di
religione, famiglia, autorità) e l’instaurazione di criteri “legal-razionali”,
ma molto legati agli aspetti materiali dell’esistenza e con una prevalenza di
componenti autoritario-burocratici;
- con il successivo raggiungimento di
livelli diffusi di benessere materiale e quindi con il calare della “utilità
marginale” della maggior ricchezza, insorgono invece valori cosiddetti
“post-materialisti” o postmoderni, come l’attenzione alla libertà individuale
(propria e altrui), all’ambiente ed alla qualità della vita, e l’insofferenza
verso lo statalismo e l’eccesso di burocrazia (ed anche verso i partiti di
massa): tra questi valori si afferma una qualche rivalutazione della famiglia e della religione,
ma non in termini di riproposizione
della cultura tradizionale; altra cosa è la rinascita dei fondamentalismi
religiosi, che Inglehart vede come reazioni marginali alla progressiva
secolarizzazione, forti solo in contesti ancora privi di una effettiva modernizzazione
(tesi discutibile, ed in effetti contrastata da altri e diversissimi autori, da
Samuel P. Huntington a Ulrich Beck, e rivisitata dallo stesso Inglehart in una
successiva ricerca del 2007, non tradotta in italiano);
- i mutamenti nel sistema di opinioni
non sono lineari, ma subentrano con i ricambi generazionali, perché l’assetto
ideologico delle persone si “cristallizza” per lo più all’età della formazione
e poi tende a conservarsi con limitati aggiornamenti.
Altro
aspetto ampiamente indagato è la natura delle correlazioni tra cultura e
sviluppo, con una interpretazione che tende a superare la contrapposizione tra
Marx (la struttura determina la sovrastruttura) e Weber (lo sviluppo
capitalistico come prodotto dell’etica calvinista (o protestante?)), rilevando
invece le reciproche interferenze tra progresso materiale ed evoluzione
culturale, soprattutto in termini di attenzione alle propensioni culturali,
quali ad esempio la motivazione individuale al successo (contrastata spesso
dalle culture religiose tradizionali) come premessa rilevante per lo sviluppo
socio-economico.
Anche
i rapporti tra le istituzioni democratiche ed il necessario substrato culturale
di lungo periodo (ad esempio gli indicatori della fiducia nel prossimo e della
partecipazione ad associazioni), in relazione con lo sviluppo economico, sono
studiati come interrelazioni aperte e non univoche (ad esempio risulta
difficile la democrazia senza benessere, mentre è possibile il progresso
economico senza democrazia).
Mi sono sembrati molto
interessanti (anche in relazione al testo di Marco Revelli “Finale di partito” 3),
ma non del tutto convincenti, gli sviluppi della ricerca sui valori
post-materialisti in campo politico, con le seguenti affermazioni principali:
- l’apprezzamento per la democrazia
sarebbe comunque in crescita, pur in presenza di disaffezione al voto ed alla
vita dei grandi partiti, perché nel frattempo aumenta l’attivismo e la
partecipazione ad iniziative di tipo diretto
- l’ecologismo (con agli antipodi i
localismi xenofobi di reazione alla modernità) si porrebbe come un nuovo asse
discriminante, “ortogonale” alla tradizionale polarizzazione destra/sinistra.
L’analisi,
riferita soprattutto all’Europa Occidentale (perché negli USA il bipartitismo
formalmente tiene di più, anche per il sistema elettorale iper-maggioritario),
coglie abbastanza bene la problematica specifica delle leadership dei partiti
di sinistra, costretti a non correre troppo avanti, verso i giovani ed i nuovi
ceti medi “post-materialisti” (problematiche di genere, ambientalismo,
democrazia diretta), per il rischio di perdere i contatti con l’elettorato
tradizionale dei lavoratori manuali più anziani, attratto anche dai populismi
xenofobi.
Tuttavia mi sembra che
la lettura di Inglehart sulla storia della sinistra europea sia troppo
schematica, per esempio per l’accento da lui posto sulla tematica della
“proprietà pubblica di mezzi di produzione”, che in realtà si è estinta
abbastanza presto nelle sinistre europee, durante
i primi decenni post-bellici, e per la difficoltà a spiegare come comunque il
“quadrante” tra sinistra e nuovo polo “post-materialista” sia assai più
fecondamente frequentato (vedi quanto meno in Germania e Francia) del contiguo
quadrante tra destra e nuovo polo (forse l’asse non è così “ortogonale”?).
Peculiare l’errore
storico, a pag.118, circa i post-comunisti italiani: Inglehart attribuisce il
passaggio dalla sconfitta del 1994 al successo del 1996 ad un mutamento
programmatico del PdS, mentre a mio avviso – a parità di evoluzione
programmatica - vi fu soprattutto la formazione di un sistema di alleanze (in
verità assai fragile) più consono alla legge elettorale maggioritaria, in una
fase di temporaneo indebolimento dei legami Lega/Berlusconi sul fronte di
destra.
Di
specifico interesse mi è parsa, inoltre, la digressione iniziale sulla
compresenza e divergenza tra il fenomeno effettivo della “post-modernità” (vedi
quanto sopra riassunto come “post-materialismo”) e le ideologie dei pensatori
post-moderni – Lyotard, Derrida - che
Inglehart espone nel cap. I, mostrando di non ritenerli effettivamente
rappresentativi della realtà in esame.
Riguardo
alle riflessioni cui è giunto Inglehart attraverso il nuovo ciclo di interviste
ed a fronte delle recenti svolte politiche, improntate al “populismo”, penso
che sia utile riprodurre di seguito alcune risposte dello stesso Inglehart ad
una recente intervista curata da Giancarlo Bosetti 4:
«Il sentimento che la
sopravvivenza propria e della propria prole sia diventata insicura conduce a
rafforzare la solidarietà etnocentrica contro gli outsider e la solidarietà
interna a sostegno di leader autoritari. Per la maggior parte della propria
esistenza le condizioni di scarsità estrema hanno spinto a serrare i ranghi
nella battaglia per sopravvivere. L’evoluzione ha sviluppato un "riflesso
autoritario" per il quale la insicurezza innesca il sostegno a leader
forti, rifiuto degli altri, rigido conformismo. E all’opposto alti livelli di
sicurezza aprono spazi alla libera scelta individuale e a maggiore apertura
verso outsider e nuove idee».
«Oggi è in corso
un’autentica sfida per la democrazia, che si è finora diffusa a un gran numero
di paesi. Le condizioni di insicurezza portano la gente a desiderare l’uomo
forte al potere che la protegga da stranieri pericolosi, ma questa tendenza
xenofobico-autoritaria non è un trend globale, riguarda le società industriali
avanzate, l’Europa e il Nordamerica. È qui dove è più forte. Non riguarda la
Cina, che non conosce una grande ondata di xenofobia, e neppure l’India, che ha
seri problemi ma diversi».
«È vero che non abbiamo
la Grande Depressione, ma la cosa determinante non è il tasso di crescita, ma
il fatto che esso stia raggiungendo un punto in cui non è più vero che ciascuno
possa assumere la sopravvivenza come un dato garantito, mentre la crescente
prosperità è quel che sta plasmando Cina e India. Paesi come l’Italia, la
Svezia, la Germania e gli Stati Uniti hanno bisogno di una soluzione politica
del loro problema, di qualcosa paragonabile alla drastica svolta degli anni
Trenta quando grandi risorse sono state riallocate per creare posti di lavoro
sicuri».
«L’ineguaglianza geografica è il maggiore
problema di lungo termine. Paesi ricchi e paesi poveri vicini e con
comunicazioni molto più facili di un tempo. Il risultato è che abbiamo livelli
di emigrazione senza precedenti. Gli Stati Uniti hanno ora più gente che parla
spagnolo della stessa Spagna.
Qualcosa che cambia la faccia degli Stati
Uniti. Nessuna società è capace di reggere una immigrazione illimitata. La
Svezia, per esempio, che ha una lunga e solida tradizione liberale e
tollerante, ora con il 18% di immigrati etnicamente diversi ha dato luogo a un
movimento xenofobo. Così in Danimarca, Norvegia e Olanda. Il punto è che
abbiamo una capacità limitata di assorbire immigrazione prima di scatenare una
reazione xenofoba che può essere molto dannosa e distruttiva».
Fonti:
1.
Ronald
Inglehart “LA SOCIETÀ POSTMODERNA -
MUTAMENTO, IDEOLOGIE E VALORI IN 43 PAESI” - Roma, Editori Riuniti 1998
2. Ronald Inglehart “CULTURAL EVOLUTION. PEOPLE’S MOTIVATIONS
ARE CHANGING AND RESHAPING THE WORLD” - Cambridge University Press 2018
3.
Marco Revelli “FINALE DI PARTITO” – Einaudi, Torino 2013 da
me recensito sul blog “relativamente, sì” www.aldomarcovecchi.blogspot.it
4.
Giancarlo
Bosetti “RONALD INGLEHART - LA TEORIA DARWINIANA DI OGNI POPULISMO" su “La
Repubblica” 08-11-2018 e su www.reset.it
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