Una ricerca sugli
elementi essenziali nella contrapposizione in atto tra le democrazie
“tradizionali” e le spinte sovraniste e populiste, in Europa e nel mondo,
attraverso l’analisi di alcuni testi e lo sviluppo di considerazioni personali.
Sommario
Premessa
Parte prima: lo scontro
tra democrazia e populismo nei testi in esame
-
la democrazia sfigurata
secondo Nadia Urbinati
-
Diamanti e Lazar: la
metamorfosi delle democrazie in “popolocrazie”
-
il duello tra democrazia
(liberale) e populismo per Yascha Mounk
Parte seconda: mie
considerazioni, a partire dalle carenze dei testi esaminati
-
la rimozione del ruolo
polarizzante del movimento operaio
-
la concezione statica e
conservatrice dei regimi liberal-democratici
-
la mancanza di una
utopia democratica e sociale
PREMESSA
La
crescita, in gran parte dell’Occidente, di movimenti populisti e sovranisti,
richiama l’attenzione sul concetto di “democrazia”: a maggior ragione dopo la
Brexit, l’elezione di Trump negli USA e la formazione del governo Lega-5Stelle
in Italia.
In
particolare l’affermazione esplicita da parte del leader ungherese Orbàn dei
valori di una “democrazia illiberale” (per altro già enunciata da Karl Schmitt
agli albori del nazismo) contrapposta ai principi condivisi nella Unione
Europea (Carta dei diritti fondamentali dell'Unione) e le convergenti tendenze
di fatto ad una sorta di plebiscitarismo in paesi come la Polonia (ed altri
membri orientali della UE), la Turchia e la Russia, sollecitano a riflettere su
quali siano gli aspetti discriminanti rispetto ad una diversa “democrazia” (a
cui ci pare di essere affezionati).
Poiché
l’origine greca della parola rimanda ad esperienze molto diverse da quelle
sperimentate negli ultimi secoli in Occidente e poiché – sommariamente – nelle
città-stato dell’antica Grecia la “democrazia” si distingueva dalla “tirannia”
e dalla “aristocrazia”, ma comprendeva al suo interno fenomeni di demagogia
assembleare e di dittatura delle maggioranze (come l’ostracismo verso i
dissidenti), si rende di fatto necessario aggiungere qualche aggettivo per
riconoscere una moderna democrazia.
Cioè
una democrazia inclusiva dei diritti civili e sociali, dei singoli e delle
minoranze, quale quella delineata dalla Costituzione italiana (e da altre coeve
costituzioni di stati europei), nonché dalla suddetta Carta della UE.
Cosicché
dicendo “democrazia costituzionale” fino ad oggi si intende in Italia qualcosa
di abbastanza preciso, ma non generalizzabile come definizione, perché in una
costituzione si potrebbero anche negare alcuni fondamentali diritti (come si
sta iniziando a fare ad esempio in Polonia). NOTA A,
“Democrazia
liberale”
(come propone Yascha Mounk in “Popolo vs. democrazia, dalla cittadinanza alla
dittatura elettorale” 1), pur
con il pregio di contraddire frontalmente Orbàn, mi sembra riduttivo (come
indicherò più avanti), ma può essere storicamente significativo, perché il
liberalismo si è affermato prima della moderna democrazia, come temperamento
del potere assoluto delle monarchie, acquisendo - attraverso lotte,
guerre e rivoluzioni - posizioni giuridiche a tutela di alcune categorie di
sudditi, e poi tendenzialmente di tutti i cittadini.
“Democrazia
rappresentativa”
(come specifica Nadia Urbinati in “Democrazia sfigurata. Il popolo tra opinione
e verità” 2), mi pare troppo legato all’istituto della delega,
contrapposto ad una ipotetica democrazia diretta (quale quella vagheggiata dal
MoVimento 5Stelle e soprattutto da Casaleggio Associati); delega sostanzialmente necessaria nelle
dimensioni demografiche degli attuali stati nazionali.
Più
utile forse la narrazione di un processo, da “Democrazia dei Parlamenti” a
“Democrazia dei Partiti e dei Parlamenti”3, per poi divenire “Democrazia
del Pubblico” ed infine “Popolocrazia”, come descritto da Ilvo Diamanti e
Marc Lazar in “Popolocrazia. La metamorfosi delle nostre democrazie”.
Considerando
che non è questione di nomi, ma di sostanza, mi appoggerò (soprattutto) alla
lettura critica dei tre testi sopra citati (che ho scelto tra la vasta
pubblicistica recente su questo tema di attualità NOTA B) per
approfondire, nella prima parte dell’articolo la problematica dello scontro in
atto – schematizzando – tra democrazia e populismo in questo inizio di secolo;
cercando poi di sviluppare nella seconda parte alcune mie personali
considerazioni.
PARTE PRIMA: LO SCONTRO
TRA DEMOCRAZIA E POPULISMO NEI TESTI IN ESAME
Trattandosi di testi
abbastanza poderosi, non procederò ad una recensione analitica ed esaustiva di
ciascuno di essi, ma solo a coglierne gli elementi essenziali, consigliandone –
per chi ne abbia il tempo – una lettura integrale, perché a mio avviso assai
interessanti.
Urbinati,
allieva di Norberto Bobbio e cattedratica alla Columbia University di New York,
affronta il tema nell’ambito della scienza politica e della filosofia del
diritto, con ricchezza di fonti lungo tutto il percorso del pensiero da Platone
(e soprattutto dall’amatissimo Aristotele) ad oggi (più precisamente al 2014,
quindi prima degli scossoni elettorali più recenti); anche con rimandi puntuali
alla storia, ma solo funzionali alla
verifica di singole ipotesi e non immergendo le attuali contraddizioni nel
flusso concreto delle vicende degli ultimi secoli e decenni.
Il che rischia di far
apparire come un modello astratto e senza tempo la sua proposizione
della democrazia NOTA C, che è necessariamente quella rappresentativa
(pur senza una estesa critica della democrazia diretta, stigmatizzata come dominio
della demagogia), e che consiste nella “diarchia” e nell’equilibrio tra “volontà”
(ovvero il momento formale in cui gli elettori si esprimono con il voto) e
“opinione” (ovvero la continua influenza della società civile sulle decisioni
dei governanti).
Modello
ideale che nel trattato di Nadia Urbinati risulta insidiato oggi da tre
tendenze degenerative:
-
la “epistocrazia”, cioè la reazione tecnocratica che – spaventata
dalle decisioni emotive del popolo e timorosa che comportino scelte non
efficienti - tende a sottrarre sovranità ai cittadini, conferendo poteri poco
controllabili alle élites specialistiche (magistratura, scienziati, alti
burocrati, ecc.); moderne forme di “epistocrazia”, ad esempio, muovono dalla
critica alla faziosità (e crescente scarsa credibilità) del mondo politico per proporre
un ruolo centrale ai forum tematici di esperti (Pierre Rosanvallon), oppure –
quasi all’opposto - a comitati di cittadini sorteggiati come rappresentativi,
ma non eletti (Philip Pettit);
-
il populismo, che - forzando i movimenti di opinione in una presunta
convergenza unitaria del popolo - tende a subordinare le decisioni alle
passioni del momento, insofferente rispetto alle regole procedurali;
caratteristiche comuni alle diverse manifestazioni storiche del populismo sono
l’esaltazione della purezza del popolo contro i compromessi del potere, la
polarizzazione ideologica contro “i nemici”, la discriminazione di minoranze e
dissidenti, la verticalizzazione dei rapporti tra gli elettori ed un “capo”,
l’insofferenza verso le rappresentanze ed i corpi sociali intermedi, l’uso
spregiudicato di “miti, simboli e retorica”;
-
il plebiscitarismo, che – esaltando il rapporto mediatico tra
leader ed elettori, ridotti a spettatori – cerca di ridurre la dialettica
politica al solo momento della delega elettorale; recuperando nella sacralità del leader
elementi ideologici della monarchia e privilegiando le forme di governo
presidenzialiste, sulla scia del tardo Max Weber e di Karl Schmitt, il moderno
plebiscitarismo tende a valorizzare la comunicazione mediatica uni-direzionale
(e soprattutto il mezzo televisivo, “videocrazia”); e assegna, per esempio in
Edward Green, al cittadino-spettatore un (presunto) ruolo di controllo
permanente sull’immagine del leader (costretto però a rinunciare alla propria
riservatezza): trascurando viceversa quanto l’emittenza televisiva può
manipolare i messaggi.
Invece
la retta via – secondo Urbinati - è quella del “proceduralismo”, il
quale non garantisce la bontà delle decisioni (che per altro nessuno può
definire dall’alto od a-priori), bensì solo la (fondamentale) reversibilità e
correggibilità nel tempo di ogni decisione, a condizione che sia sempre
tutelato il pluralismo delle opinioni e la libertà di pensiero e di parola del
singolo cittadino: libertà non solo “negativa”, contro la censura, ma anche in
positivo, quale elemento basilare per influenzare e controllare il potere.
Pertanto
il vero regime democratico, rappresentativo/costituzionale, è quello che tutela
le minoranze e limita il potere delle maggioranze.
Questione
centrale per Urbinati è quella della “par condicio” nell’accesso ai mezzi di
comunicazione (benché Urbinati non condanni pienamente la radice liberale della
sentenza della Corte Suprema U.S.A. “Citizen United“, che nel 2010 ha rimosso i
precedenti limiti ai finanziamenti
privati nelle campagne elettorali in nome della libertà di parola delle
imprese, facendo alzare alle stelle i costi delle stesse campagne).
Riguardo
“ai media”, il testo si occupa in realtà soprattutto della televisione, a
partire dal caso paradigmatico di Berlusconi, senza indagare a fondo sulle specificità di Internet e dei “social
media”.
Viceversa
l’Autrice – a mio avviso sbagliando -
non conferisce una importanza decisiva alle disuguaglianze socio-economiche,
ritenendo che il loro “contenimento” sia sufficiente per consentire un equo
funzionamento delle istituzioni democratiche, sia sul versante delle decisioni
elettorali, sia su quello delle influenze d’opinione, pur avvertendo i rischi
di prevaricazioni da parte dei ceti più abbienti e di disaffezione la
partecipazione politica da parte dei meno abbienti.
Cammin
facendo Urbinati rende conto delle più disparate critiche alla “democrazia
reale” (e soprattutto alla partitocrazia, che
tuttavia la stessa Urbinati, malgrado la conoscenza delle vicende italiane, non
contempla come significativa tendenza degenerativa della democrazia, da porre
alla pari delle altre 3 degenerazioni da lei codificate):
-
da quelle di Platone e Cicerone (e di più recenti epigoni) contro la
“demagogia” oppure in suo favore (LeBon),
-
a quelle di Pareto, Mitchell, Schumpeter NOTA D che variamente
riducono i regimi democratici ad una competizione tra élites concorrenti,
-
fino alla più aggiornata narrazione di Bernard Manin, che evidenzia nella
“democrazia del pubblico” il declino dei partiti e l’emergere degli esperti
della comunicazione.
Ma
per Urbinati tali critiche non intaccano il nocciolo buono della democrazia
rappresentativa, a condizione che si tuteli il fondamentale equilibrio tra
decisione ed opinione (“epistème” e “doxa”).
Merito
del “proceduralismo” è anche, secondo Urbinati, di non coltivare utopie, ed
anzi di essere potenzialmente la tomba di tutte le utopie: la democrazia
rappresentativa come secolarizzazione permanente delle ideologie politiche.
Anche
se – ammette l’Autrice nelle conclusioni - “Il valore del processo democratico fa sì che
il compito politico di conservarlo sia obiettivo tutt’altro che vile o
secondario. Si può persino affermare che si tratta di un compito a sua volta
utopistico in quanto …. i cittadini devono apprezzare il valore delle regole e
delle norme democratiche nonostante le loro performances scadenti …., ma anche
la possibilità di porvi rimedio”.
In sostanza quindi
Urbinati propone come utopia la conservazione del sistema regolativo della
democrazia rappresentativa.
Yascha
Mounk, nato in Germania da famiglia ebraica cosmopolita (suo malgrado),
laureato in Inghilterra e cattedratico ad Harvard, frequentatore e conoscitore
anche del nostro paese, politologo di taglio storico-sociologico, ha editato
nel maggio 2018 l’edizione italiana del suo saggio, e si è confrontato pertanto
(rispetto ad Urbinati) con una maggior dose di populismi vincenti, seppur alla
vigilia della formazione del governo italiano Lega/5Stelle.
Il
testo, scorrevole e ben documentato (salvo
alcuni svarioni – NOTA E) , sullo sfondo di una storia
bicentenaria del populismo (di cui però trascura il filone della Russia
ottocentesca), affronta a tutto campo il rischio di un tramonto della
democrazia liberale, appena dopo il suo apparente trionfo con la caduta
dell’antagonistico modello sovietico sul finire del Novecento.
Caduta
del “socialismo reale” che aveva condotto teorici come Francis Fukuyama a
teorizzare la “fine della storia” in una diffusa democrazia capitalista, ma più
in generale aveva portato la pubblica opinione a ritenere irreversibile il
modello politico liberal-democratico, quanto meno dove era consolidato nel
mondo occidentale.
Mounk
descrive come la fine della democrazia liberale, fine già ritenuta
“impossibile”, stia iniziando invece a divenire possibilità, o addirittura
realtà: non solo negli stati di recente affrancamento da precedenti regimi
totalitari, come l’Ungheria e la Polonia (dove si esperimenta una “democrazia
senza diritti” a danno della stampa e istituzioni indipendenti, delle minoranze
etniche e politiche e dei diritti individuali, a partire dalla libertà di
espressione), ma anche nel cuore dell’Occidente, dove avanzano nuove forze
politiche sovraniste che riecheggiano quel modello, a partire dalle forme della
propaganda polarizzante contro le élites e contro gli immigrati (emblematica la
vittoria del referendum svizzero contro i minareti), e nel contempo si misura
quanto le strutture politiche si siano spesso atrofizzate in livelli
tecnocratici e burocratici (vedi Commissione Europea e varie Autority),
assecondando il calo della partecipazione dei cittadini (cui sono comunque
garantiti i diritti civili individuali: “diritti senza democrazia”).
Nel
quadro internazionale che contraddistingue l’inizio del secolo, caratterizzato
dalla globalizzazione, dai conflitti etnico-religiosi e dai flussi migratori,
Mounk individua specificamente le cause del successo dei populismi nei seguenti
fattori:
-
aumento delle disuguaglianze socio-economiche, con l’esaurimento
delle modalità redistributive in precedenza instaurate, e compressione delle
speranze di miglioramento per i ceti subalterni (anche prima e dopo la fase più
acuta della crisi finanziaria del 2008); particolarmente interessante è l’analisi
sociologica sull’elettorato di Trump, che non risulta mediamente più povero rispetto a
quello di Hillary Clinton (risulta sì però meno istruito), ma soprattutto si
trova insediato in contesti a rischio di impoverimento (de-industrializzazione
ecc.), tali da incrementarne la vulnerabilità soggettiva;
-
acutizzazione delle sensibilità identitarie a fronte dei flussi
migratori e degli episodi terroristici, in realtà nazionali che erano in
precedenza, per lo più, monoetniche; alcuni sociologi statunitensi (come sempre
orientati alle ricerche quantitative) propongono in merito anche alcune ipotesi di correlazioni
statistiche tra % di presenza di stranieri e percezione del disagio interetnico,
con esiti NON proporzionali (allarmi elevati con soglie iniziali e intermedie,
e loro superamento – ad esempio – in California a fronte di una immigrazione
che sfiora il 25% della popolazione); NOTA F
-
irruzione dei social media nelle modalità di
comunicazione politica, con enorme abbattimento dei costi per il lancio di
campagne di propaganda da parte di movimenti nuovi o outsider, e con
incomprimibile effetto di rilancio sui media tradizionali anche per le fake
news più infondate (se una notizia, anche falsa, riesce ad emergere nella rete,
televisioni e giornali non possono ignorarla, e così loro malgrado funzionano
da cassa di risonanza).
Ed
è su questi 3 fronti che Mounk ritiene necessaria e possibile una articolata
risposta da parte delle “democrazie liberali” (iniziando comunque da una
coraggiosa opposizione politica contro le effrazioni delle regole e contro le
propagande strumentali e falsificatorie; e segnala il caso della Corea del Sud
come esempio positivo di possibile rifiuto di un deriva populista, con il
rovesciamento della presidenza di Park Geun-hie nel 2017):
-
sul
terreno socio-economico l’Autore suggerisce un insieme di politiche finalizzate
ad una profonda rifondazione dello “stato sociale”, in materia di fisco,
abitazioni, lavoro e assistenza, adeguata alle attuali caratteristiche della
produzione e della finanza (una sorta di
riformismo sociale che diviene obbligatorio per salvare le democrazie
liberali);
-
sul
fronte dei conflitti etnico-migratori, Mounk (partendo dalla sua esperienza di
cosmopolita che però i nazionalismi li ha incontrati e conosciuti), vorrebbe
sottrarre il nazionalismo ai sovranisti, rilanciando un “patriottismo
inclusivo” (alla Obama), in cui prospetta un complesso e difficile equilibrio
tra saldezza dei principi relativi alle libertà individuali (e quindi contro
ogni discriminazione, ma anche contro i condizionamenti etnico-religiosi) e la
comprensione delle diversità culturali,
tra l’accoglienza verso chi già è immigrato ed il controllo dei confini
e dei flussi;
-
riguardo
alla qualità della comunicazione ed alla credibilità dei messaggi, Mounk
propone di arginare gli eccessi delle fake-news attraverso una regolamentazione
(e ancor meglio auto-regolamentazione) dei social-media, con repressione dei
meccanismi automatici di rilancio (i falsi account detti “bot”) ; ma
soprattutto sollecita un profondo miglioramento dell’istruzione e dell’educazione
civica (evidenziando la decadenza del ‘patriottismo costituzionale’ che vigeva
storicamente negli USA ed anche la pericolosa autoreferenzialità del mondo
accademico, anche di eccellenza, nelle facoltà socio-politiche americane, tutto
concentrato sulle graduatorie delle ‘pubblicazioni’ anziché sulla realtà
sociale) ed auspica una radicale auto-riforma del sistema politico, contro la
corruzione, i conflitti di interesse e
le collusioni con le lobbies (nonché limitando l’influenza della ricchezza
privata nel controllo dei media).
Nel farsi propositivo e
politico, mi sembra che Mounk si dimentichi di essere politologo, e non
sorregga le sue vigorose perorazioni (pur largamente condivisibili) con
adeguata individuazione delle forze in campo per sorreggerne l’attuazione. Su
quali gambe oggi cammina la “democrazia liberale”? Chi può riuscire a
convincere banchieri, politici e social-media ad auto-riformarsi?
DIAMANTI E LAZAR: LA METAMORFOSI DELLE DEMOCRAZIE IN "POPOLOCRAZIE"
Il
politologo e sondaggista Ilvo Diamanti ed il collega francese (ma studioso
dell’Italia) Marc Lazar hanno pubblicato il loro testo “POPOLOCRAZIA. LA
METAMORFOSI DELLE NOSTRE DEMOCRAZIE” 3 nel marzo 2018, concludendolo
alla vigilia delle elezioni parlamentari in Italia (di cui già misuravano le
tendenze nei sondaggi), ed è quindi più aggiornato degli altri due libri che ho
preso in esame.
La
precisa attenzione all’attualità e gli approfondimenti sui fenomeni in atto in
Italia e Francia si accompagnano comunque ad una sintetica ma esauriente panoramica storica, estesa alla Russia
ottocentesca ed agli Stati Uniti d’America (sia nell’Ottocento che nel
Novecento), - con pochi cenni però
all’America Latina -, ed assai approfondita ancora su
-
Francia
(il Boulangismo e la Lega Anti-semita a fine Ottocento, la destra nazionale e
sociale degli anni Trenta, il Poujadismo nella Quarta Repubblica – anti-fisco e
pro colonialismo in Algeria - ed infine il Front National, da Le Pen padre a Le
Pen figlia ma anche la France Insoumise di Mélenchon, erede di un populismo di
sinistra presente nella propaganda del PCF ed in certi atteggiamenti del
Partito Socialista di Mitterrand, nonché nella fiammata maoista del ‘68)
-
e
Italia (dalle origini opposte del giacobinismo e del sanfedismo, tra Settecento
e Ottocento, al populismo come componente del Fascismo, e poi come quintessenza
del Qualunquismo e del Laurismo, nonché come tentazione della sinistra -
da Nenni a Craxi, passando anche per
Pannella NOTA G - per finire a Bossi ed a Berlusconi, poi ai giorni nostri, dopo la meteora di Di Pietro,
con la Lega di Salvini ed i 5Stelle).
Il
populismo è definito – in modo necessariamente complesso – come movimento
contrapposto alle élites, dicotomico (polarizzazione amico/nemico),
semplificatore e immediatista (sia nel senso del rifiuto delle mediazioni e
delle rappresentanze, sia nel senso temporale del “presentismo”), passionale e
spesso imperniato sulla figura di un leader carismatico.
Gli
Autori però evidenziano le differenti concezioni del “popolo unitario” espresse
dai vari populismi, talora su base etnica e tradizionalista (con le varianti
del localismo oppure del nazionalismo), tal altra invece modernizzante e “futurista”
come nel mito Pentastellato dei “cittadini in rete”; e le prevalenti
distinzioni tra il populismo di destra – nazionalista e talora razzista – e
quello di sinistra – di origine classista -
per lo più contrastato dalle organizzazioni tradizionali del movimento
operaio, per motivi ideologico-culturali oppure “tattici” (e poi strategici: l’accettazione
della democrazia rappresentativa come fase intermedia in attesa di una
rivoluzione poi rinviata sine die).
E
percorrono giustamente gli elementi di populismo riscontrabili in diversi
periodi anche all’interno dei principali filoni politici di Destra e di
Sinistra, da Sarkozy a Macron, da Pertini a Matteo Renzi (con qualche indulgenza forse sul versante centrista, dove viene
censurato Bayrou, ma salvato de Gaulle).
Però
le considerazioni fondamentali (e quasi conclusive) di Diamanti e Lazar,
riferite alla svolta di questo inizio di secolo, e particolareggiate riguardo a
Francia e Italia (ometto di riferire la narrazione degli
Autori su Le Pen e Mélenchon, NOTA H Salvini e Di Maio, perché fenomeni
comunque assai presenti ai nostri occhi di contemporanei), consistono nella
presa d’atto di una complessiva tendenza alla metamorfosi delle tradizionali
democrazie occidentali in “popolocrazie”, perché l’influenza dei movimenti
populisti, favoriti dalla crisi economica, dai flussi migratori e dalla
facilità delle comunicazioni social-mediatiche, oltre a pesare direttamente
nella vita politica, comportano una crescente assimilazione dei partiti
antagonisti alle logiche da loro imposte, in termini di:
-
personalizzazione dell’offerta politica (ma anche degli
organismi istituzionali ed aziendali, sempre più identificati con le figure dei
rispettivi Presidenti); determinando “partiti senza società …. leader senza
partiti”;
-
immediatizzazione della comunicazione (come già sopra
richiamato, immediatezza nei tempi e nella soppressione di ogni mediazione,
prevalenza dei ri-sentimenti sulla ragione), sia di tipo “verticale”, come la
televisione e le ”dirette su Face-book”, tra leader e pubblico, sia di tipo
orizzontale, come internet ed i suoi social-media, apparentemente egualitari
(mentre in realtà escludono larghe fasce di popolazione, a partire dagli
anziani, e nascondono il predominio di chi controlla le piattaforme e gli
algoritmi);
-
rincorsa ai linguaggi “anti-politici” ed ai temi determinati
dalla spinta populista, vedi soprattutto i cedimenti sul fronte migratorio od
anti-islamico, da parte di soggetti centristi (come ad esempio i popolari
austriaci od i conservatori olandesi) e le retoriche della “riscossa delle
periferie”.
Anche
se nel frattempo i movimenti populisti subiscono inevitabili processi di
normalizzazione avvicinandosi al potere.
A
fronte di disuguali e discontinui segnali di successo dei partiti populisti in
Europa (ma in Italia ed in Francia hanno comunque conseguito una centralità,
diretta o indiretta) gli Autori lasciano aperta la previsione sulla definitiva
affermazione della “popolocrazia”.
Ed
in alcune battute finali pongono l’interrogativo se sia possibile rispondere
positivamente al risentimento ed alla frustrazione di chi si sente “escluso”; e
se sia possibile farlo senza scimmiottare ed introiettare il populismo stesso (come invece sostanzialmente propone, per
salvare l’Europa unita, il politologo bulgaro Ivan Krastev, in nome della
specificità della storia dell’Est Europa e del rifiuto di una importazione
coloniale della liberal-democrazia - vedi nota B).
Lasciando
qualche speranza ai “partigiani della democrazia – liberale e rappresentativa
–“ a condizione che (rilevo, in stretta
analogia alle più articolate proposte di Yascha Mounk):
- “riescano ad analizzare e comprendere i cambiamenti” [in atto]…
- “riescano ad analizzare e comprendere i cambiamenti” [in atto]…
-
rifondino “il patto sociale …”
-
ripensino “i modelli di integrazione degli immigrati”…
-
restituiscano “senso – e passione – alla politica” e ricostruiscano “un clima di fiducia tra i cittadini
e i loro rappresentanti”…
-
rilancino infine “il progetto europeo”.
(Anche
Diamanti&Lazar non si preoccupano di verificare se l’ipotetica resistenza
anti-populista abbia una base sociale su cui appoggiarsi).
PARTE SECONDA: MIE
CONSIDERAZIONI, A PARTIRE DALLE CARENZE DEI TESTI ESAMINATI
Mi permetto di seguito
di sviluppare alcune considerazioni personali sul tema delle sorti della
democrazia occidentale, partendo dalle lacune che mi sembra di aver
individuato, pur con differenze, in tutti e tre i testi esaminati.
LA RIMOZIONE DEL RUOLO
POLARIZZANTE DEL MOVIMENTO OPERAIO
L’affermazione delle
forme di democrazia liberale nei principali paesi dell’Occidente, soprattutto
europeo, ha dovuto presto confrontarsi con la nascita e la crescita del movimento
operaio, e con lo “spettro del comunismo”.
Pur con oggettivi
intrecci con il populismo (che aveva caratterizzato le rivolte dei ceti
subalterni nei secoli precedenti, ad esempio con i Ciompi, Cola Di Rienzo e
Masaniello), i diversi filoni del movimento operaio, ottocentesco e
novecentesco (anarchici, comunisti, socialdemocratici), evolvendosi dalle
origini filantropiche e caritative, si sono caratterizzati soprattutto per la
pratica (e per il mito) della emancipazione degli stessi proletari attraverso
le lotte sindacali e l’auto-organizzazione, nonché attraverso l’acculturazione,
in parte rivendicata davanti allo Stato (istruzione pubblica) ed in parte
autogestita (spesso con un ruolo ambiguo ma indispensabile di militanti
intellettuali di origine piccolo-borghese).
Il che, almeno
idealmente ovvero “ideologicamente”, è abbastanza agli antipodi del populismo,
perché, anche quando le correnti estremiste e rivoluzionarie disdegnano la
democrazia liberale, presuppone un ruolo attivo e organizzato delle masse e dei
loro “delegati”, e non una delega passiva al demagogo di turno.
Da queste esperienze
sono nati i modelli organizzativi dei sindacati (assai diversi dalle antiche
corporazioni, da cui pure in parte sono figliati, perché rispecchianti in modo
antitetico la nuova organizzazione produttiva delle fabbriche) e dei partiti di
massa.
Organizzazioni ben
presto passibili di forme degenerative in senso burocratico e/o settario e/o
leaderistico, e ben presto imitati, in termini concorrenziali oppure
antagonistici, su altre basi aggregative: vedi i sindacati e partiti cattolici
(intrecciati con quelli contadini) e più tardi gli stessi movimenti fascisti e
nazional-socialisti, che hanno egemonizzato le masse (compresa parte dei
lavoratori dipendenti) su un versante di destra, dal quale i vecchi partiti
borghesi e liberali non riuscivano a contrapporsi validamente al pericolo della
rivoluzione proletaria.
Però sia i successi che
i fallimenti della eroica e tragica epopea del movimento operaio hanno generato
mostri, spesso di natura populista, dentro o contro di esso:
-
i successi, perché la
forza crescente del proletariato organizzato ha suscitato poderose reazioni,
tra cui la contrapposta organizzazione di strati sociali piccolo-borghesi
reazionari (e qui figurano bene tutti i populismi di destra censiti da
Diamanti&Lazar tra fine Ottocento e tre quarti del Novecento);
-
i fallimenti, perché il
velleitarismo anarchico, l’ingloriosa resa della Seconda Internazionale alla
chiamata alle armi delle contrapposte nazioni nel 14-18, le rivoluzioni mancate
(come il biennio rosso 1919-21 in Italia e similmente in Germania), il
massimalismo parolaio dei Socialisti ed il settarismo dei Comunisti nel
1921-22, hanno sempre sistematicamente prodotto delusione e risentimento,
lasciando i singoli proletari in preda ad alternative sirene demagogiche,
fascismi compresi:
-
i grandi successi che
racchiudono (già in nuce) grandiosi fallimenti, come la Rivoluzione d’Ottobre
in Russia e la conseguente cruciale esperienza del cosiddetto Socialismo Reale (culto
della personalità dei leaders, da Lenin a Stalin giù giù fino a Breznev), ancor
di più: sia in corso d’opera, con le progressive rivelazioni sulle degenerazioni
del sistema, sia al tracollo definitivo attorno al 1989, NOTA I che
ha indirettamente delegittimato anche le formazioni moderate euro-comuniste e
socialdemocratiche (queste pur spesso dichiaratamene anti-comuniste), perché ha
spianato universalmente le menti al concetto che non vi siano alternative
possibili al capitalismo (più o meno liberal-democratico).
A mio avviso, in
particolare, le ondate più recenti dei populismi, a partire in Italia dalla
Lega Nord di Bossi e dal Berlusconismo, si sono ampliamente alimentate, nel
loro consistente successo all’interno dei ceti subalterni (compresi talora i
quadri del movimento operaio), di quel complesso insieme di ri-sentimenti,
delusione e frustrazione derivanti dal tramonto del mito comunista.
Molto banalmente, se
non “adda venì” più nessun “Baffone”, le speranze di riscatto sociale si
atomizzano e tornano a passare dai canali clientelari oppure da altri miti
proposti dal bar, dallo stadio, e soprattutto dalla televisione.
Gli effetti delle globalizzazione
e poi la crisi economica e la novità (in Italia) dei flussi migratori hanno
accentuato e rilanciato tali processi in un nuovo ciclo, ora sorretto anche dai
social media (e annesse fake news), di cui il MoVimento 5Stelle e la
Lega-di-Salvini sono gli attuali catalizzatori.
NOTA
J
LA CONCEZIONE STATICA E
CONSERVATRICE DEI REGIMI LIBERAL-DEMOCRATICI
Se lanciamo uno sguardo
lungo ai processi di trasformazione degli Stati occidentali nell’età moderna,
il liberalismo e la democrazia appaiono come una lenta e contrastata conquista,
a partire da istituzioni per lo più monarchiche ed autocratiche (le poche
situazioni di carattere repubblicano, in prevalenza aristocratiche, affondano
le radici nel Medioevo e risultano declinanti o sconfitte dalle monarchie – vedi Genova e Venezia ed i
Paesi Bassi - con l’eccezione della Svizzera, di San Marino ed in generale dei
poteri locali comunitari dei capi-famiglia, confinati nelle regioni alpine, poteri
patriarcali che con molta fatica sono
poi evoluti in forme più modernamente democratiche).
Le classi borghesi che
si fanno strada rovesciando – a colpi di violente rivoluzioni, prima in
Inghilterra, poi nelle colonie Americane ed infine in Francia e poi nel 1848 europeo
– l’assetto delle Monarchie Assolute (o
quasi assolute, nel caso inglese), ne ereditano la forma statuale centralizzata
e ne temperano la verticalità garantendo alcuni diritti: ma restano a lungo ben
lontane dall’affermare un modello democratico, pur evocato nei proclami
rivoluzionari ed echeggiato – talora - nella Costituzioni repubblicane (oppure
concesse dai Monarchi, come ad esempio lo Statuto Albertino).
Basti osservare come i
nuovi regimi liberali e parlamentari convivono, per tutto l’Ottocento, e spesso
ben dentro al Novecento, con pesantissime limitazioni all’esercizio dei diritti
politici ed alla eguaglianza effettiva dei cittadini:
-
schiavismo e razzismo (in America anche dopo la guerra di Secessione e comunque
contro i nativi “pellerossa”; per Francia e Inghilterra fin dopo la seconda
guerra mondiale nei confronti dei “sudditi coloniali”);
-
esclusione dal diritto
di voto per le donne, i poveri
e gli analfabeti;
-
repressione sistematica del movimento operaio e delle libertà sindacali (per non
parlare dei soggetti “devianti”, quali gli omosessuali oppure i malati mentali).
Se questo assetto
coinvolge i principali modelli della democrazia liberale (USA, Gran Bretagna,
Francia), a maggior ragione si riverbera sulle nazioni arrivate più tardi al
costituzionalismo e ombreggiate da pesanti tradizioni autoritarie e
paternaliste, come gli imperi asburgico e germanico (e dintorni) oppure la
penisola iberica: con qualche felice e parziale eccezione forse ai margini
dell’Occidente, come nel Benelux e in Scandinavia oppure nelle ex colonie
inglesi Canada e Australia, e con una larga evoluzione positiva più generale
solo dopo il 1945 anche in Germania Ovest, Italia, Austria, e tre decenni dopo
in Spagna Grecia e Portogallo.
In particolare in Italia
il suffragio universale maschile fu concesso solo nel 1921 (e di fatto
sequestrato dal Fascismo subito dopo) ed esteso alle donne solo nel 1946.
La bellissima
Costituzione Italiana correttamente
afferma una concezione dinamica della espansione dei diritti al suo articolo 3:
“E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e
sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione
di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del
Paese.”
Ma è a mio avviso
largamente inattuata, riguardo allo stesso art. 3 e ad una serie di diritti
fondamentali in cui si concretizzerebbe “l’uguaglianza dei cittadini” e la ”partecipazione
dei lavoratori”: da una istruzione estesa davvero a tutti all’accesso al
lavoro, dalla disponibilità di una casa alla libertà dai condizionamenti
mafiosi e clientelari.
Per non parlare degli
antichi e moderni condizionamenti derivanti dal controllo dall’alto oppure di
pochi sui mezzi di comunicazioni di massa, dai giornali alla radio poi alla TV
ed a Internet (chi manovra gli “algoritmi”?).
Non esistono inoltre
sistematiche leggi di attuazione dei principi di democraticità relativi ai
partiti ed ai sindacati.
Che democrazia è quella
che consente che una parte consistente del “demos” giovanile non lavori né
studi, né abbia conseguito una formazione adeguata?
E che tollera in larga
parte del ”demos” di ogni età una capacità scarsa di comprendere un testo
complesso ed una scarsa conoscenza dei fondamentali meccanismi in cui si
articola lo stesso potere “democratico”? NOTA K
(Ma nel contempo frena
la concessione della cittadinanza ai figli degli immigrati, che –
scolarizzandosi – spesso invece hanno ben maturato tali conoscenze e
capacità…).
E che subisce il
predominio di cosche mafiose in significative zone del suo territorio?
Sia chiaro che con
questi miei giudizi, consapevolmente pesanti perché – mi pare - ben motivati, non intendo disprezzare la
lunga catena
-
di conquiste del
liberalismo, dall’Habeas Corpus all’indipendenza della Magistratura (ed anche
delle Banche Centrali, volendo), e
-
di conquiste della
democrazia, dal diritto di sciopero al diritto di voto,
che rendono gli stati
occidentali (Italia compresa) mediamente più equi e vivibili delle autocrazie
vastamente diffuse nel mondo (tra cui Cina e Iran, molti paesi arabi, ed in
parte Russia e Turchia).
Tuttavia non riesco a
cristallizzare in quei pochi recenti decenni in cui gli stati liberali sono
riusciti a divenire un po’democratici (rimanendo magari abbastanza
imperialisti, come gli USA – vedi Cile, Grenada, Afghanistan, Iraq - e non solo gli USA) un valido “modello
liberaldemocratico” NOTA L da
sbandierare contro gli usurpatori populisti.
Vedo piuttosto la
“democrazia costituzionale” (cioè, in breve, una democrazia che esclude la
dittatura della maggioranza, incanalando le espressioni della volontà popolare
in opportune regole di bilanciamento dei poteri, compresi quelli derivanti da
precedenti elezioni, NOTA M e comprese autorità indipendenti che
siano fondate in forte misura sul merito e sulla competenza, pur con il
trasparente controllo popolare) come un delicato, auspicabile, controverso
processo di trasformazione.
I cui principi vanno sì
preservati, ma al tempo stesso devono evolvere, adeguandosi alle situazioni
sociali e quanto più possibile mirando alla estensione e diffusione del potere
e dei diritti (con i corrispettivi ben delineati doveri, dal fisco al servizio
civile).
Invece una concezione
statica e conservatrice, puramente difensiva, dello stato liberal-democratico,
come storicamente stratificato (con tutti i buchi sopra delineati), mi sembra
un pessimo servizio alla causa della democrazia costituzionale, e forse anzi un
regalo tattico agli avversari.
Analogo ragionamento
vale per le istituzioni dell’Unione Europea.
Ritengo errato
considerarle “burocratiche” perché “non elette”.
A parte il Parlamento
Europeo, che ha pochi poteri, ma viene eletto con suffragio universale diretto,
sia la Commissione che il Consiglio, sono comunque espressione indiretta dei
meccanismi elettorali che vigono nei singoli Stati dell’Unione, e non ritengo
che una elezione di secondo grado sia per questo anti-democratica: si veda la
figura del Presidente della Repubblica, non solo in Italia.
Il problema è che la
Commissione Europea (ed ancor più il Consiglio dove siedono i leader dei
singoli Stati) esprimono spesso una “politica burocratica” perché
corrispondente alla mediazione tra gli interessi dominanti, risultanti dagli
esiti elettorali nell’insieme dei singoli paesi europei: se gli elettorati in
questo inizio di secolo hanno espresso segni moderati/conservatori, non può che
risultarne risulta una euro-politica moderata e conservatrice: ma non per
questo “anti-democratica”. Anzi. Sennò dovremmo scrivere nelle costituzioni che
è democratico solo il voto che premia i miei amici “progressisti” (o populisti
o ecc. ecc.).
(Altro è il
ragionamento storico dell’occasione mancata dalle forze socialdemocratiche a
cavallo della fine del secolo precedente, quando primeggiavano in molti stati europei,
ma non hanno impresso una svolta significativa né al federalismo delle
istituzioni europee né alle politiche sociali comuni; NOTA N lì sta tutta l’evidente debolezza strategica
di quella sinistra moderata, a dire il vero anche all’interno di gran parte delle
singole nazioni).
LA MANCANZA DI UNA
UTOPIA DEMOCRATICA E SOCIALE
Corollario delle mie
considerazioni sulla “democrazia incompiuta” dei nostri attuali ordinamenti ed
assetti sociali liberal-democratici, è quello di assumere invece una
“democrazia compiuta” come orizzonte da conseguire, in un panorama necessariamente
“utopistico”, ma non per questo impossibile da tradurre anche in percorsi
realistici di trasformazione, culturale, sociale, politica, ed infine
istituzionale.
Obiettivo da affiancare
ad altri, intravisti negli ultimi secoli e decenni, ma ben lontani dall’essere
raggiunti, come la pace e la non-violenza, ed una fratellanza universale
nell’affrontare le problematiche del pianeta Terra (come ben delineate ad
esempio nell’editoriale di Fulvio Fagiani in questo numero di UTOPIA21, e su
cui pertanto non mi soffermo).
E’ proprio l’oggettiva
dimensione mondiale di tali problemi, e quindi delle auspicabili correlative
soluzioni – non solo l’afflato fraterno, che spesso fatica ad esistere nella
natura umana - che rende necessario un approccio universalistico alla gestione
della cosa pubblica.
Non nel senso di un
astratto cosmopolitismo (tipo l’elezione diretta del “Presidente dell’ONU” a
suffragio universale mondiale), ma all’opposto facendo evolvere la cultura
della cittadinanza, nelle forme locali e nazionali concretamente presenti, nel
senso dell’esercizio pieno della
democrazia, nel rispetto degli interessi e dei sentimenti di tutti gli
altri, vicini e lontani.
Penso, in concreto ed
in termini applicabili nella realtà italiana, ad un aumento delle dimensioni,
dei poteri e delle risorse per le autonomie locali, cioè a dei “Sindaci
territoriali” che governino e rappresentino entità attorno ad un minimo di
50.000 persone (ferme restando le dimensioni storiche dei piccoli Comuni come
unità basilari di identità locale), e corrispondenti a quartieri o Municipi
nelle grandi città.
Super-sindaci che da
questi ambiti locali di circa 50.000 persone siano controllati e stimolati, con
crescenti forme di democrazia diretta e di partecipazione NOTA O tramite
libere e trasparenti associazioni dal basso.
Però in dimensioni
demografiche che consentano di intrecciare la conoscenza personale e le
relazioni inter-soggettive - sia per le azioni necessarie a migliorare le
condizioni di vita nei territori, sia per concorrere forti di tale
esperienza (e del peso omogeneo di
50.000 abitanti alle spalle di ognuno di essi NOTA P) al governo dei
livelli superiori del potere: provincia (livello che a mio avviso deve essere
rianimato, non solo per le aree metropolitane), regione, nazione, Europa
(livello a cui vanno necessariamente gestiti macro-fenomeni come le migrazioni
oppure la tassazione delle società multinazionali), ed infine l’intero mondo.
Una sorta di
federalismo solidale e virtuoso, che - secondo me - potrebbe avvicinare i
cittadini al potere molto più delle forme di consultazione diretta a scala
nazionale, come i referendum propositivi oppure l’elezione diretta dei vertici
dello Stato.
Strumenti che non
intendo escludere in assoluto, ma vedo come molto più condizionabili dai vari
mezzi di comunicazione, in un rapporto remoto, e ad un tempo emotivo, tra il
singolo elettore ed enormi e costose macchine di propaganda.
Quanto all’uso su larga
scala della “democrazia digitale” ne temo soprattutto i rischi, che sono gli
stessi di cui sopra, con l’aggravante delle difficili modalità di controllo
sugli stessi controllori degli “algoritmi” (vedi le non encomiabili prove della
“piattaforma Rousseau” e l’inaffidabilità – se non peggio - dei social media
tipo Facebook) e perciò suggerirei di sperimentarli prima a lungo ad una scala
“cantonale” (come quella dei “Sindaci del territorio” sopra enunciati). NOTA
Q
Sono dichiaratamente utopie,
ma non mi sembrano più improbabili di una astratta difesa ad oltranza della
“liberal-democrazia reale”, tal quale com’è; liberal-democrazia che non è
fallita quanto il “socialismo reale”, ma neanche mostra di stare molto bene.
La democrazia costituzionale
può essere difesa dagli assalti dei sovranisti e dalle deviazioni dei populisti
solo se la si assume come obiettivo ancora da conquistare (ad esempio con più
democrazia diretta in ambito locale, ma anche in qualche misura a livello
europeo), e al suo fianco si perseguono (non strumentalmente, per salvare il
liberalismo, ma in quanto validi in sè) obiettivi di effettiva uguaglianza
sociale, nell’istruzione, nell’informazione, nel lavoro, nella ricchezza.
Obiettivi che sono di
contenuto sociale, ma anche di “metodo democratico”, perché le astratte regole
di uguaglianza dei diritti – dal voto alla giustizia – non possono funzionare se
non sono sostanziate in una concreta parità socio-economica.
Non dimenticando la
scala mondiale dei problemi ambientali (e sociali), senza la cui soluzione non
va in crisi solo la liberal-democrazia, ma lo stesso insediamento umano su
questo Pianeta.
Tutti obiettivi
tracciabili in un campo concettuale di pura razionalità; e però potenzialmente
abbastanza avvincenti per essere sviluppati anche in una narrazione
moderatamente retorica, costruendo gli opportuni “miti” e “simboli”, su un
terreno comunicativo che non può essere abbandonato né in favore dei sovranisti
né in favore dei populisti.
Non credo che queste
mie riflessioni siano sufficienti per trovare una base sociale in favore della
“democrazia costituzionale e sociale”, ma penso che siano utili almeno per
cercarla, tra gli ultimi e tra i penultimi, tornando tra i delusi dal comunismo
e andando anche tra i delusi dal populismo, che presto inizieremo a incontrare,
soprattutto in Italia.
NOTA
A - “Democrazie popolari” fu l’aggettivazione applicata dopo la 2^ guerra
mondiale al di là della “Cortina di Ferro”
per distinguere i regimi del socialismo reale, nei paesi satelliti
dell’Unione Sovietica, dalle “democrazie borghesi” dell’Occidente.
NOTA
B – Alessandro Barbano “TROPPI DIRITTI” – Mondadori, Milano 2018
-
Luciano
Canfora “LA SCOPA DI DON ABBONDIO” – Laterza, Bari 2018
-
Sabino
Cassese “LA DEMOCRAZIA E I SUOI LIMITI” - Mondadori, Milano 2018 (recensito da
Massimiliano Panarari su “La Repubblica/Affari e Finanza” settembre 2018)
-
Ivan
Krastev “IL DIALOGO IMPOSSIBILE. NEL RECUPERO DELL’EST LA SALVEZZA DELL’EUROPA”
su “La Repubblica” del 20-10-18
- Ezio
Mauro “L’UOMO BIANCO” - Milano, Feltrinelli, Milano 2018 (recensito su “La
Repubblica” da Massimo Recalcati il 11-10-2018)
-
Maurizio
Molinari “PERCHE’ E’ SUCCESSO QUI” – La Nave di Teseo, Milano 2018 (recensito
da Stefano Folli su “La Repubblica” del 26-10-18)
- Giovanni
Orsina “LA DEMOCRAZIA DEL NARCISISMO” – Marsilio, Padova 2018 (recensito da
Marco Bracconi su “La Repubblica/Robinson” del 22-04-18
- David
Van Reybrouck “CONTRO LE ELEZIONI. PERCHE’ VOTARE NON E’ PIU’ DEMOCRATICO” –
Feltrinelli, Milano 2013 (recensito da Antonello Guerrera su “La Repubblica”
del 27-08-18 – la tesi del “sorteggio” dei rappresentanti del popolo è
echeggiata da Beppe Grillo e nobilitata da Michele Ainis su “L’Espresso” n° 44 del 26-08-18
-
Jan
Zielonka “CONTRORIVOLUZIONE” - Laterza, Bari 2018 (recensito su “La Repubblica”
da Ezio Mauro il 3-10-2018)
-
Luigi
Zoja “BENVENUTI NELL’EPOCA DEL RISENTIMENTO” su “L’Espresso” n° 76 del 7-10-18
NOTA
C – questo atteggiamento di olimpico distacco di Nadia Urbinati nel testo in
esame appare superato invece in recenti articoli della stessa Autrice su
“Repubblica”, dove la visione sulla democrazia appare assai più dinamica e
calata nella storia: 16-10-18 “Quei diritti da difendere”; 02-11-18 “La
sinistra senza partito”
NOTA
D – Vedi anche Marco Revelli “FINALE DI PARTITO” 4 da me recensito
sul blog “relativamente, sì” www.aldomarcovecchi.blogspot.it
NOTA
E – Mi sembrano imprecisi i giudizi di Yascha Mounk a proposito di:
-
il ventennio Berlusconiano come effettivo dominio di
Berlusconi
che invece (e per fortuna, direi) pur
avendo “dettato l’agenda” ha governato solo dal 94 al 96, dal 2001 al 2006 e
dal 2008 al 2011, per un totale di circa 10 anni; gli altri 10 anni invece si sono
succeduti governi gestiti dal contrapposto schieramento di centro-sinistra,
oppure dai “tecnici” Dini e Monti;
-
il debito greco come prodotto della “grande recessione”, dimenticando che cavalcando
le Olimpiadi di Atene del 2004 la classe dirigente di centro-destra aveva
dapprima grandemente indebitato il paese e poi truccato i conti per entrare
comunque nell’Euro, mancandone invece i presupposti economici e finanziari;
-
il ruolo della stampa nella diffusione dell’eresia luterana
e nelle dimensioni delle conseguenti rivolte e guerre di religione in mezza
Europa:
senza nulla togliere a Gutenberg, mi pare di rammentare che anche le eresie
medioevali, come quella dei Catari – pur avvalendosi di comunicazioni solo
verbali e manoscritte – avessero raggiunto
ampie proporzioni e innescato (e soprattutto subìto) devoti ammazzamenti
su vasta scala, tanto che si parla della Crociata contro gli Albigesi
addirittura come “genocidio”.
NOTA
F – Il riacutizzarsi delle disuguaglianze sociali e i conflitti identitari vanno
a minare anche il quadro di certezze sociologiche intessute con metodo da
studiosi americani come Ronald Inglehart (vedi
mia recensione di “Società post-moderna“, del 1998, in questo stesso numero di
UTOPIA21), secondo cui al crescere del benessere corrisponde un passaggio
da interessi primari e valori tradizionali a nuove soggettività più
individualiste e libertarie, ma anche
ambientaliste e tolleranti; sulle recenti controtendenze si è pronunciato con
aggiornata ricerca lo stesso Inglehart nel 2018, come do atto nella suddetta recensione.
NOTA
G – nel testo di Diamanti&Lazar risulta invece trascurato il filone dei
maoisti nostrani, tra cui “Servire-Il-Popolo”, e certe pieghe di movimenti come
Lotta Continua, soprattutto nelle regioni meridionali
NOTA
H - la rappresentazione del populismo di
sinistra di Mèlenchon svolta da Lazar, che ne mette in risalto, a mio avviso correttamente, le ambigue
derive nazionalistiche, anti-europee e personaliste, rischia di proiettare
questi giudizi sulle altre forze politiche nuove e parzialmente populiste, ma
chiaramente di sinistra, presenti solo nel Sud Europa, come Podemos, Syriza e
la sinistra portoghese, che nelle loro
alterne vicende mi sembrano comunque meno esposte a questi difetti.
NOTA
I – Sul crollo del socialismo reale si sono intrecciati diversi fattori,
strutturali ed intrinseci al sistema di produzione (stressato anche dalla corsa
agli armamenti in contrapposizione a USA e NATO), e sovrastrutturali, a partire
dalla stessa sottovalutazione sistematica degli aspetti antropologici, finendo
sconfitto da un lato dalla concorrenza del consumismo occidentale e dall’altro
da un sindacato organizzato in Polonia proprio su basi confessionali
cattoliche.
NOTA
J - Sull’intreccio tra caduta del socialismo reale e globalizzazione, nel
passaggio tra il Novecento e questo secolo, ritengo opportuno richiamare le
recenti riflessioni di Stefano Levi della Torre http://www.razzismobruttastoria.net/2018/07/26/qualche-considerazione-sulla-storia-corso-stefano-levi-della-torre-giugnoluglio-2018/
NOTA
K – Mi rendo conto che l’argomento è usato al contrario anche da
neo-aristocratici neo-platonici (od “epistocrati”, come direbbe Nadia Urbinati),
per proporre di restringere il suffragio elettorale ai soli “sapienti”, invece
di estendere istruzione e formazione a chi non le ha conseguite a sufficienza.
NOTA
L – in particolare, per quanto riguarda l’asettica visione di Nadia Urbinati,
la varietà delle soluzioni che i diversi stati occidentali hanno dato a
specifici problemi, ad esempio l’indipendenza della magistratura, offusca
l’immagine di un “valido modello”: sono gli USA troppo populisti perché
prevedono l’elettività di taluni magistrati (gli inquirenti)? oppure sono poco
democratici gli stati europei perché non la prevedono?
NOTA
M – ha recentemente ben rammentato Sabino Cassese (vedi nota B) – la cui
concezione del processo democratico è molto dinamica – l’importanza dei
contropoteri, parte dei quali (ad esempio la Presidenza della Repubblica,
oppure i poteri locali) sono espressione di una diversa scelta elettorale democratica,
ma espressa in una fase precedente.
NOTA
N – in particolare durante la presidenza di Romano Prodi alla Commissione
Europea, si è accelerata l’adesione alla Unione Europea dei paesi orientali,
già satelliti dell’URSS: scelta giusta in termini storici e geo-politici, ma
negativa sotto il profilo dell’efficienza del processo federativo, perché non
preceduta da un rafforzamento dei meccanismi comunitari, in termini di
struttura costituzionale, di decisioni a maggioranza, di efficacia delle
procedure sanzionatorie, di estensione delle competenze dell’Unione in materia
sociale (e migratoria).
NOTA
O – diffido però da certe forme di partecipazione organizzata, senza reali
poteri, come l’esperienza delle rappresentanze delle famiglie nelle scuole,
oppure certe cerimonie di consultazione sugli strumenti urbanistici comunali,
limitate di fatto agli addetti ai lavori; fondamentale è invece a mio avviso
che la legislazione si occupi di assicurare trasparenza non solo agli organismi
statali e amministrativi, ma anche a tutte le associazioni partitiche e
sindacali, locali e nazionali.
NOTA
P – il che avrebbe un riflesso egualitario, e perciò democratico, anche
sull’influenza esercitata da ognuno dei cittadini che contribuiscono ad eleggerli; oggi invece, pur essendo
astrattamente omogenea la rappresentanza dei cittadini attraverso i parlamentari,
indirettamente nel “mercato della politica” pesano molto di più – attraverso
Sindaci, parlamentari di primo piano, lobbies organizzate - le realtà urbane
maggiori che non le “campagne” dove il reticolo degli enti locali si disperde
in entità di poche migliaia o centinaia di abitanti ciascuna e gli interessi
locali faticano oggettivamente a coagularsi.
NOTA
Q – se già la stessa “democrazia costituzionale e sociale” è un’utopia, a
maggior ragione lo è la “democrazia diretta”, come anche le forme di “democrazia
inclusiva” proposte ad esempio da Graeber 5 (vedi mia recensione su
UTOPIA21 di Luglio 2018 https://drive.google.com/file/d/1KNHwvYRdA-gatgudIQMBtJt5Q3shSWl/view?usp=sharing).
A
mio avviso tali utopie più estremiste non sono da bandire od esorcizzare
a-priori, bensì da sperimentare cautamente sul campo, evitando che però siano
usate in maniera strumentale e sostanzialmente reazionaria contro le “utopie
possibili”.
Ad
esempio, se nella democrazia del voto si possono insediare forme di dittatura
della maggioranza, le teorie della democrazia inclusiva, tendenzialmente
unanimista (che sostituisce al voto l’iterazione di tentativi di inclusione dei
diversi punti di vista), può variamente nascondere tentazioni totalitarie, a
cura dei Grandi Fratelli che spesso in tali situazioni sono “più uguali degli
altri”, come nella “Fattoria degli Animali” di George Orwell.6
Sull’argomento
si era autorevolmente pronunciato anche il compianto Stefano Rodotà7 comparando
Internet all’uso della TV e dei sondaggi, e mettendo in guardia da ogni
fenomeno plebiscitario, in cui i cittadini, singolarmente isolati (ed in un
contesto storico di logoramento dei vecchi tessuti sociali, a partire dalle
fabbriche), non possono partecipare né alla formulazione delle domande né al
controllo sulle risposte.
Pur
aprendo alla sperimentazione di nuovi modelli di trasparenza e condivisione del
potere, Rodotà metteva in evidenza
- come alla frantumazione sociale del
cittadino-sovrano corrisponda una rincorsa settoriale da parte dei politici,
con i metodi del marketing e della pubblicità, che mira ad una raccolta
spregiudicata dei vari segmenti del consenso, mentre viene meno ogni coscienza
dell’interesse generale,
- che l’affiancamento dei continui
sondaggi alle normali cadenze elettorali finisce con il far prevalere questi su
quelle, sia per l’influenza che i sondaggi stessi esercitano sull’elettorato,
sia per l’artificiosa suddivisione del corpo elettorale in “sommatoria di
campioni statistici”, e come in tal modo gli interessi e le emozioni a breve
termine sormontino ogni capacità di programmazione e decisione strategica sui
tempi lunghi (analogamente a quanto accade nel mondo finanziario e spesso anche
aziendale).
Fonti:
1.
Yascha
Mounk “POPOLO VS. DEMOCRAZIA, DALLA CITTADINANZA ALLA DITTATURA ELETTORALE” –
Feltrinelli, Milano 2018
2.
Nadia
Urbinati “DEMOCRAZIA SFIGURATA. IL
POPOLO TRA OPINIONE E VERITÀ” – Egea, UBE Paperback, Milano 2014
3.
Ilvo
Diamanti e Marc Lazar in “POPOLOCRAZIA. LA METAMORFOSI DELLE NOSTRE DEMOCRAZIE”
- Laterza, Bari 2018
4.
Marco
Revelli “FINALE DI PARTITO” – Einaudi, Torino 2013
5. David
Graeber “CRITICA DELLA DEMOCRAZIA OCCIDENTALE. NUOVI MOVIMENTI, CRISI DELLO
STATO, DEMOCRAZIA DIRETTA” – Eleuthera, Milano
2012
6.
George
Orwell. “LA FATTORIA DEGLI ANIMALI” – Mondadori, Verona-Milano 1947
7.
Stefano
Rodotà “IPERDEMOCRAZIA – COME CAMBIA LA SOVRANITÀ DEMOCRATICA CON IL WEB” -
e-book gratuito dell’editore Laterza, Bari 2014
Nessun commento:
Posta un commento