Riflessioni a partire
dal riassunto e dalla confutazione della tesi, esposta su “la Repubblica” dal filosofo
Maurizio Ferraris, in merito alla sostanziale novità del capitalismo delle
piattaforme, che manipola i dati personali, prodotti dagli utenti della rete (e
sull’apparenza di un comunismo realizzato, con il populismo suo profeta).
Sommario:
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premessa
-
la tesi di Ferraris sul
capitale documediale
-
confutazione della tesi
-
corollari sul comunismo
e sul populismo
PREMESSA
Ho
avuto modo in passato di leggere Maurizio Ferraris come filosofo comprensibile
(e questo è già molto), ottimo divulgatore dei pensatori classici e deciso
avversario del “pensiero debole” in nome della concretezza del “nuovo realismo”
(e qui lo apprezzo solo in parte, perché - rimuovendo giustamente gli eccessi
“post-moderni”, secondo i quali c’è solo interpretazione e nulla sappiamo del
mondo reale - si rischia però di rinunciare al dubbio critico nei confronti
delle informazioni che ci pervengono).
Mi
ha dunque incuriosito ed interessato il lungo saggio pubblicato in quattro
puntate su Repubblica tra dicembre e febbraio, con cui ha messo in discussione
capitalismo e comunismo e soprattutto i concetti stessi di merce e di
sfruttamento: saggio che pare non aver suscitato nessun dibattito, né su “la
Repubblica” né altrove.
Mentre
nello stesso periodo è risultato assai ampio il dibattito su “la Repubblica” in
merito ad élites e populismo, innescato da un altrettanto lungo testo di
Alessandro Baricco (pubblicato però in una sola puntata, con po’ di gran cassa
pubblicitaria sul contestuale romanzo “The Game”), dibattito tutto sommato
fiacco, perché alcuni tra
i migliori contributi (ad esempio Mazzucato, Urbinati, Lazar) non erano che la
conferma di validi ragionamenti già espressi in precedenza, mentre altri hanno
fatto da eco alla semplicistica contrapposizione tra casta e popolo, accettandola
come valida rappresentazione della società di oggi.
LA TESI DI FERRARIS SUL
CAPITALE DOCUMEDIALE
Il
nucleo della tesi di Ferraris1 è che – mentre al secolo XIX
corrispondeva il “capitalismo delle merci” ed al secolo XX il “capitalismo
finanziario” – al secolo XXI corrisponde il ”capitalismo documediale” (un
capitalismo che – anzi – come vedremo più avanti, assomiglia molto ad un
“comunismo realizzato”).
Le
informazioni, e più propriamente i dati che gli stessi utenti rilasciano
utilizzando gli smartphones ed ogni altro terminale delle reti web, e che
vengono capitalizzati dalle grandi centrali monopolistiche tipo
FaceBook&C., sono i nuovi elementi costitutivi del “valore”.
Mentre
il lavoro tende a divenire marginale, perché sempre più le merci vengono
prodotte da macchine automatiche e/o stampanti 3D (azionate da banali tastiere,
o touch-screen, per cui cade ogni distinzione tra lavoratori manuali ed
intellettuali; agli operatori non è più richiesta forza né intelligenza, ma
solo disponibilità a consumare), la massa dei lavoratori/consumatori è
mobilitata attraverso i cellulari (che i consumatori stessi si affannano ad
acquistare), e così in continuazione produce dati, arricchendo i padroni delle
piattaforme, senza accorgersi di essere sfruttata, e rivolgendo altrove il suo
residuo disagio.
Le
merci sono offerte gratis, se in cambio si cedono le preziose informazioni, che
valgono più del denaro, perché più ricche qualitativamente (si possono
conoscere tutte le propensioni dei singoli o gruppi di utenti e non solo il
dato quantitativo della loro capacità di spesa).
In
questo quadro risulta fondamentale la sperequazione tra le informazioni che le
piattaforme multimediali diffondono agli utenti, che sono di tipo generale e
non consentono arricchimenti differenziati, e le informazioni che le
piattaforme carpiscono agli utenti stessi (coinvolti dalla interattività della
rete, diversamente dai precedenti mass-media unidirezionali) che invece sono
individualizzate, gestibili per aggregare target pubblicitari e per pilotare
flussi di consenso.
Compito
odierno della filosofia, in tutte le sue branchie, è disvelare la realtà della
“rivoluzione documediale” e del nuovo plusvalore occultato nei dati: c’è anche
un appello ad un “noi” – non so se filosofi o lavoratori/consumatori/utenti –
per costruire un nuovo progetto contro i veri poteri forti, che non sono le
banche, ma le piattaforme (FaceBook&C, Google, Apple, Microsoft, Amazon e
gli omologhi cinesi, nonché le semi-sconosciute aziende che ne curano le
capacità di estrazione e gestione dei dati, quali Acsion, Criteo, ecc. ).
CONFUTAZIONE DELLA TESI
Nella
narrazione di Ferraris c’è molto di vero e di valido, riguardo alla
pericolosità della “profilazione” degli utenti da parte delle piattaforme. Ferraris (preceduto su questa strada da altri
tra cui ad esempio Evgenij Morozov2 e Lelio Demichelis3,4,
ma anche Fulvio Fagiani5) denuncia la accumulazione dei “dati” da
parte delle “internet company” e la configurazione di queste come “poteri
forti” (anche perché quasi sempre e necessariamente monopoliste, come
dimostrato da Fulvio Fagiani5); peggio ancora se la “profilazione”
entra nel gioco politico, vuoi in regimi direttamente autoritari, vuoi nel
gioco sporco delle influenze elettorali e delle “fake-news”.
E
concordo sulla denuncia del posizionamento strategico delle imprese
sovranazionali che controllano i flussi dei dati documediali, nell’immediato
per marketing e pubblicità e in prospettiva per alimentare la svolta del
sistema produttivo verso l’Intelligenza Artificiale.
Ma
l’impianto specifico del ragionamento di Ferraris non mi convince:
1
-
perché (salvo i casi non infrequenti di spionaggio politico e manipolazione
elettorale, vedi caso Cambridge Analytica/elezioni di Trump e Brexit) il valore
commerciale dei dati carpiti agli utenti non è un valore in sé, vendibile sul
mercato, bensì un insieme di informazioni utili in prima evidenza per vendere merci o servizi, da parte di
altre aziende capitalistiche (o delle medesime piattaforme, come nel caso di
Amazon), e solo indirettamente, con ulteriori elaborazioni, tali dati valgono e
varranno anche come materiale utile per formulare nuovi prodotti e servizi;
2
-
perché non è vero in generale che “le merci sono offerte gratis”, tranne per
l’appunto alcuni servizi immateriali (che veicolano pubblicità e/o succhiano
dati), come le Televisioni Commerciali, i Motori di Ricerca e i Social Media;
ma tutte le altre merci (compresi i telefonini, che lo stesso Ferraris indica
come “mezzi di produzione”, ma che gli utenti stessi sono costretti a
comprarsi) e gli altri servizi, con cui la maggioranza dell’umanità continua a
campare ed in cui investe le sue risorse monetarie, sono a pagamento, dal cibo
all’energia, dall’abitazione alla mobilità (oppure pagati con le tasse,
riguardo a istruzione, sanità, sicurezza); ed è solo da questi pagamenti che si
genera il valore che compensa il capitale, tuttora dedito a tali produzioni (che
poi in qualche consumo a pagamento, come gli acquisti al supermercato oppure le
bollette di luce e gas od ancora le TV a pagamento, si annidino ulteriori
occasioni perché le aziende fornitrici estraggano dati utili dai clienti, pur
continuando a farsi pagare merci e servizi, mi pare un elemento interessante,
ma alquanto marginale);
3
-
perchè il plusvalore che genera il profitto su tali produzioni, materiali od
immateriali, si fonda tuttora sullo sfruttamento del lavoro altrui, anche se
non si tratta sempre del classico lavoratore salariato, ma di una complessa
gamma di figura, dai nuovi schiavi degli abissi del “terzo mondo” (ma anche di
talune periferie metropolitane, come le italiche coltivazioni di agrumi e di
pomodori) ai “lavoratori autonomi” teleguidati dalle stesse piattaforme (Uber,
Foodora, ecc.), dalle false o vere “partite IVA” (comunque subalterne rispetto
alle grandi aziende), fino ai funzionari e consulenti più interni alle grandi
strutture capitalistiche, ben pagati, ma in ogni caso subordinati agli
interessi e indirizzi dei loro padroni;
4
-
perché l’automazione e i connessi aumenti di produttività, pur incidendo sul
volume e sulla composizione dei lavori, sono ben lungi dal determinare quella
sorta di società immateriale accennata da Ferraris (dove tutti consumano non si
sa cosa, forse solo “dati”, e nessuno più produce case, veicoli, cibo,
energia…: vedi nelle successive figure 1 e 2 quanto cresce tuttora l’economia
delle merci); ciò sia nei paesi sviluppati (dove per altro molti lavoratori
saranno impegnati a progettare e costruire robot, da un lato, e “contenuti
multimediali” dall’altro), sia ancor più nei paesi poveri, dove già oggi stanno
nascoste enormi sacche di fatiche e di sfruttamento, dalle miniere alle discariche,
passando per le famose “fabbriche”, che in Cina e nel Bangladesh, in Vietnam ed
in Etiopia, per esempio, risultano tuttora alquanto affollate, e lo resteranno
probabilmente per molti decenni, finché il costo orario dei robot (ammortamenti
compresi) non sarà sceso sotto ai miseri salari ivi vigenti (anzi, ritengo che
insistere nella tesi della “morte del lavoro” suoni come un insulto alle spalle
di queste imponenti schiere di lavoratori “invisibili” agli occhi nostri)
FIGURA 1: EVOLUZIONE DELLA DOMANDA DI ACCIAIO NEL MONDO DAL
1967
FIGURA 2: EVOLUZIONE DEL TRAFFICO MARITTIMO MERCI MONDIALE
DAL 1970
5
-
perché la collaborazione degli utenti nel consumo di merci e servizi, dal self
service in supermercati e ristoranti al montaggio dei mobili fai-da-te,
dall’home banking all’autolettura dei contatori del gas, in cambio di sconti
(che in certi casi di fatto non si possono rifiutare oppure nel tempo
svaniscono) costituisce una discutibile evoluzione delle offerte commerciali
(pur non sempre sgradita al consumatore, me compreso) e può contribuire ad
aumentare i profitti ed a ridurre i posti di lavoro, ma non per questo
trasforma il consumatore in lavoratore sfruttato, anche e soprattutto perché il
consumatore conserva la libertà di non consumare questo o quel prodotto o tipo
di prodotti, mentre il lavoratore ha necessità del salario; ancor meno
sfruttato, semmai truffato, è il consumatore che cede informazioni;
6
-
perché il denaro non è solo “l’informazione su quanto denaro possiedono gli
utenti”, ma resta l’unica merce convertibile in ogni altra merce, ed il cuore
del potere capitalistico, nel cui ciclo di valorizzazione entrano certo, come
le merci ed il lavoro, ed i servizi privatizzati, anche i dati “documediali”,
strumento inizialmente di marketing per il controllo dei mercati, ma anche
merci essi stessi (così come merce è ogni fase intermedia del ciclo, compreso
il denaro ed il lavoro: resta valido a mio avviso Sraffa con la sua “Produzione
di merci a mezzo di merci”6); semmai è importante rilevare come,
dopo la fine della convertibilità aurea del denaro cartaceo - ufficialmente
datata 1973, ma ratificando una svolta già in precedenza maturata – e con la
crescente smaterializzazione del sistema bancario, il denaro stesso si sta
riducendo a “pura informazione”: resta però un “dato particolare” come resta
“una merce particolare”; “merci” “monete” “informazioni” sono a mio avviso
categorie contigue ed in qualche misura fungibili, ma non si annullano l’una
nell’altra, mi sembra indispensabile capirne la singola peculiarità e non
confonderle in una notte dove tutte le vacche sono nere.
Per
tutti questi motivi, ritengo fuorviante indicare le “piattaforme” come i soli
“poteri forti”, la controparte degli utenti/consumatori (anche sul piano pratico,
“consumatori di tutto il mondo unitevi” non mi sembra più conseguibile che non
“lavoratori ecc. unitevi”), tanto meno con la rivendicazione, avanzata da
qualcuno “facciamoci pagare da FaceBook per i dati che ci ruba”, viceversa
correttissima quella di De Michelis “divieto di profilazione” o quella di
Morozov sul controllo pubblico e democratico dei dati; semmai rivendichiamo di
poter pagare servizi informatici tipo FaceBook e Google, purché senza
profilazione (e Televisioni senza pubblicità), così come paghiamo acqua ed
energia, cibo e servizi.
Fondamentale
mi sembra invece comprendere la nuova configurazione del capitalismo, di cui il
dominio sui meta-dati è un passaggio importante e peculiare, che si innesta
però sul preesistente e persistente capitalismo finanziario (FaceBook, Amazon,
Google ecc. sono anche non a caso tra i maggiori protagonisti
dell’accumulazione di capitale, dentro e fuori dalle borse, ma soprattutto
fuori dai “confini nazionali” e dentro le aree oscure dei paradisi fiscali,
quanto meno quelli legalizzati dentro l’Unione Europea, come Irlanda, Lussemburgo,
ecc.).
La
questione del controllo sui dati ha una sua specificità, ma non può e non deve
soppiantare le altre vertenze sociali ancora possibili tra capitale e lavoro,
tra sfruttati e sfruttatori: nelle aziende, nei territori, nei bilanci degli
stati, nelle contese internazionali su commercio, fisco, monopoli (in cui a mio
avviso solo una scala europea può consentire qualche argine alla prepotenza
delle aziende multinazionali, che siano o meno di natura “documediale”).
COROLLARI SUL COMUNISMO
E SUL POPULISMO
Non
so se solo per amore del paradosso, o perché proprio ci crede, Maurizio
Ferraris affianca il suo disvelamento della verità documediale con una serie di
affermazioni –per altro solo accennate - che nell’insieme dipingono lo stato
delle cose presenti come molto simile al “comunismo realizzato”:
il
controllo dal basso sui mezzi di produzione: gli utenti produttori di dati
documediali posseggono il loro smartphone;
la
fine dell’alienazione: grazie alla connessione permanente tutto sappiamo e non
c’è distinzione tra tempo di lavoro e tempo libero;
la
fine della divisione del lavoro: tendenzialmente tutto digitale;
la
fine delle classi: permarrebbero solo differenze di reddito, seppur crescenti;
la
fine dello stato: molte prerogative sono passate ad altri soggetti (per lo più
privati), vedi censimenti, poste, moneta e talora anche la forza;
l’internazionalizzazione:
sostituita dalla globalizzazione;
la
dittatura del proletariato: costituita dal populismo.
A
me sembra tutta una rappresentazione caricaturale, che non aiuta a comprendere
l’effettiva assimilazione di elementi socialisti da parte del capitalismo nella
sua lunga evoluzione attraverso il Novecento, per superare le proprie crisi e
per contrapporsi al “socialismo reale”, sia tramite coscienti mediazioni con il
sindacalismo socialdemocratico, sia come esito di ristrutturazioni maturate
oggettivamente nella competizione “schumpeteriana” tra aziende e tra stati.
Proprio
in ossequio al criterio hegel-marxiano “tesi-antitesi-sintesi” il capitalismo
di oggi è assai diverso da quello ottocentesco ed ha assorbito qualcosa dai
suoi storici antagonisti: il processo ed i suoi esiti son ben indagati, tra
l’altro da Boltanski e Chiapello7,8, come anche da Piketty9,10;
ma il vincitore è chiaramente il capitalismo e non il suo opposto.
Ed
i risvolti in termini di alienazione, ad esempio, oppure di divisione in
classi, sono forse un po’ diversi dalle battute di Ferraris: vedi per
l’alienazione Demichelis, e per le classi ancora Piketty.
Non
mi dilungo pertanto oltre nelle confutazioni alle singole affermazioni di
Ferraris, se non per l’argomento del populismo, che trova uno sviluppo più
argomentato nel saggio in esame.
Secondo
Ferraris le formazioni populiste sono sostanzialmente in balia delle preferenze
degli elettori, espresse dai sondaggi e dai social media (“oclocrazia” ovvero
governo della plebe: questa sarebbe la moderna “dittatura del proletariato”), e
sempre meglio conosciute grazie allo spionaggio documediale, fino a divenire
governi parcellizzati ed irresponsabili.
Viceversa
secondo Ferraris il fascismo è un regime autoritario “con progettualità immensa
e catastrofica e incurante delle idee dei governati”.
Credo
che in queste valutazioni vi siano gravi errori storici (e purtroppo anche di
prospettiva):
-
sul
Novecento, perché fascismo e nazismo seppero ben convogliare il consenso delle
masse, conoscendole (pur in una fase di forte crisi sociali e di polarizzazioni
ideologiche), sia per conquistare il potere (anche attraverso elezioni,
inizialmente non meno libere rispetto alla media del tempo), sia per
conservarlo, attraverso la propaganda, ma non solo (vedi ad esempio la
conversione del fascismo alla opportunità del Concordato con la Chiesa
Cattolica); consenso che avrebbero a lungo conservato se la guerra, invece di
perderla, l’avessero vinta;
-
su
questo inizio di secolo, perché fenomeni elettorali quali il Berlusconismo, il
Trumpismo, la Brexit, Bolsonaro in Brasile, ed in misura minore anche i nuovi
populismi italiani ed europei, sono avvenuti tramite dosi massicce di
propaganda multimediale di tipo vecchio (TV) e nuovo (web), vellicando sì i
sentimenti di larghe fasce di elettori, ma non certo in mero inseguimento dei
loro “profili”, bensì anche per cercare di realizzare “progettualità immense”
(speriamo non altrettanto catastrofiche): non mi viene di identificare con la
“plebe” né Casaleggio (padre e figlio), né Grilllo, né Salvini (anche se gli
ultimi due sanno valorizzare i propri lati plebei).
Fonti
1.
Maurizio
Ferraris ARTICOLI SU “LA REPUBBLICA” in data 28dic2018, 8gen19, 29gen19,
01feb19
2.
Evgeny
Morozov “L' INGENUITÀ DELLA RETE. IL LATO OSCURO DELLA LIBERTÀ DI INTERNET”
- Codice, Torino 2018
3.
Lelio
Demichelis “LA GRANDE ALIENAZIONE” - Jaca Book, Milano 2018
4.
Fulvio
Fagiani “CONVERSAZIONE/INTERVISTA A LELIO DEMICHELIS SULL’ALIENAZIONE” su
UTOPIA21, gennaio 2019 https://drive.google.com/file/d/1YDHb0asJXGgCNsWV2p5EmwASOmYTvFfg/view
5.
Fulvio
Fagiani “LE PIATTAFORME COME MODELLO DI IMPRESA” su UTOPIA21, luglio 2018 https://drive.google.com/file/d/18kw3-ZL6MTur94O6AsRiwJpWij5kw-88/view
6.
Pietro
Sraffa “PRODUZIONE DI MERCI A MEZZO DI MERCI” – Einaudi, Torino 1960 - 1999
7.
Luc
Boltanski e Eve Chiapello “IL NUOVO SPIRITO DEL CAPITALISMO” – Mimesis,
Milano/Udine 2014
8.
Aldo
Vecchi “IL TERZO SPIRITO DEL CAPITALISMO, INDAGATO DA BOLTANSKI E CHIAPELLO” su
UTOPIA21, gennaio 2018 https://drive.google.com/file/d/18rOwVEv0Uv-uYPjmBw7OdeXY4aKczbyg/view
9.
Thomas
Piketty “IL CAPITALE NEL XXI SECOLO” – Bompiani, Milano 2014
10. Aldo Vecchi “PIKETTY:
IL CAPITALE NEL XXI SECOLO (E PRECEDENTI)” su UTOPIA21, novembre 2017 https://drive.google.com/file/d/1N-8cYVuTAiCes4_S2UV9pBxm0f20SbMH/view
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