venerdì 5 aprile 2019

UTOPIA21 - MARZO 2019: LA “STORIA ECONOMICA DELLA FELICITÀ” (O QUANTO MENO DEL BENESSERE) DI EMANUELE FELICE




Un saggio ambizioso e discutibile, e perciò utile, che da un lato riassume in breve, ma non affrettatamente, la storia economica e sociale dell’umanità, dal paleolitico ad oggi, e dall’altro cerca di impostare la questione del benessere e della felicità nel mondo contemporaneo.

Riassunto:
-       quando eravamo cacciatori e raccoglitori
-       i risvolti amari della rivoluzione agricola: gerarchie, fatica carestie, guerre, epidemie
-       la complessa maturazione verso la svolta della rivoluzione industriale e la possibilità teorica di soddisfare i bisogni materiali di tutta l’umanità
-       le promesse non mantenute dalla liberaldemocrazia e dal socialismo reale (e ancor meno dal nazifascismo), riguardo all’uguaglianza e alla felicità
-       le problematiche attuali, tra edonismo consumista e speranze di una “rivoluzione etica”
(in corsivo i commenti più personali del recensore)

Emanuele Felice (docente di Economia a Pescara e commentatore di “Repubblica”) affronta in questo testo1 la problematica della “felicità” (a partire dal benessere materiale) nella lunga storia dell’Homo sapiens, a partire dalla “rivoluzione cognitiva” che lo distingue dagli altri primati, fino alla dialettica dei nostri giorni, “tra etica e piacere”.

La rassegna storica si fonda principalmente su un’ampia bibliografia e su ricerche altrui, soprattutto di Diamond2,3 (già da me recensito) 4,5 e Hararì6 (i cui scritti sul futuro sono già stati considerati da Fulvio Fagiani7), e – come schematicamente riepilogato dallo stesso Felice sia nell’introduzione che nelle conclusioni – contempla essenzialmente tre fasi:
-       il paleolitico dei cacciatori e raccoglitori, che sembra apparire, anche per le tracce di mitizzazione che ha lasciato nelle narrazioni delle successive epoche storiche, un periodo di relativo equilibrio tra popolamento e risorse, anche grazie al prevalente o possibile nomadismo, e quindi un periodo di vite umane (o poco più che animalesche) sì brevi, precarie ed avventurose, ma con bassa natalità ed in qualche misura “felici” nel loro rapporto diretto con un ambiente ostile (l’archeologia conferma, attraverso i resti dei corpi umani, le tracce di una condizione di salute migliore di quella media dei successivi popoli neolitici, le cui carenze e malattie derivano dal diverso ciclo vitale ed anche dalla frequentazione diretta delle specie animali addomesticate) ;
-       la “trappola del neolitico” (secondo l’interpretazione di Hararì), che incontrando nell’allevamento e nell’agricoltura  sia la possibilità che la necessità di un progressivo incremento demografico – pur mitigato da carestie, guerre ed epidemie – spinge le tribù umane  a costituire strutture sociali sempre più complesse, fondate sulla distribuzione diseguale delle immani fatiche del lavoro, assegnato per lo più agli schiavi, e della riproduzione, caricata sulle donne in ruolo subordinato, mentre al vertice  della società si insediano maschi guerrieri, sacerdoti ed anche – più tardi – letterati e pensatori: da questi vengono le prime riflessioni sulla felicità, che viene collocata per lo più nell’aldilà (oltre-tomba che nelle religioni monoteiste del Mediterraneo diviene un organico sistema di premio o punizione, Paradiso/Inferno, con i cristiani perfezionamenti del Limbo e del Purgatorio) oppure nella fuga individuale verso la meditazione senza passioni (buddismo e altre religioni e filosofie orientali, ma anche le correnti epicuree del mondo greco e romano);
-       la rivoluzione industriale, con le sue premesse e connessioni da un lato con l’evoluzione del pensiero moderno occidentale (dall’Umanesimo all’Illuminismo, attraverso la Riforma protestante e il progresso scientifico) e dall’altro con la dominazione coloniale e capitalista dell’Europa (e poi degli U.S.A.) sul resto del mondo: malgrado dosi massicce, anche qui, di guerre ed epidemie, si instaura per la prima volta nella storia della specie umana la possibilità concreta di evitare le carestie e di disporre delle risorse per soddisfare i bisogni materiali, senza però assicurarne una equa distribuzione, anzi accentuando le disuguaglianze, sia all’interno di gran parte degli Stati, sia nella gerarchia tra Stati ricchi e Stati poveri (disparità quest’ultima in parte ridotta, o meglio modificata, dalla recente globalizzazione, con l’emersione di nuove potenze economiche, soprattutto in Asia orientale).

La vicenda nel suo insieme è abbastanza nota, soprattutto ai nostri lettori (vedi anche recensioni su Deaton8, Mokir9, P.Prodi10, Graeber11, Acemoglu&Robinson12, Arrighi13), meritano di alcuni rilievi, a mio avviso, i seguenti elementi:
-       la ricerca del benessere collettivo (e finanche di quello privato) e della felicità su questa terra è in generale esclusa dall’Autore per quasi tutto il corso della “rivoluzione agricola”: anche il pensiero di Agostino da Ippona sulla “Città di Dio” è relegato da Felice nell’aldilà, senza cogliere la dimensione comunitaria della speranza nella vita terrena dei cristiani. Il testo non fa alcun cenno ai tentativi di regimi agro-egualitari in Cina e in India ai tempi del nostro Medio Evo (di cui parla invece Graeber,11,15). Per Felice è rilevante l’eccezione, al solo livello del pensiero, di Aristotele e seguaci e poi dello stoicismo (con il merito degli stoici di essere anche più cosmopoliti). Felice sottolinea, a differenza del successivo ciclo del pensiero umanistico/illuminista, l’impossibilità nel mondo antico di un raccordo con il progresso pratico e tecnologico, che non era nelle attenzioni della classe dirigente greco-romana. A mio avviso l’Autore sottovaluta però un po’ troppo le valenze sociali della realtà materiale di quel mondo, riconoscendo qualche merito solo per “gli acquedotti”: mentre io ritengo che l’insieme delle opere civili “di urbanizzazione” nella evoluzione della città antica (non solo acquedotti, ma fognature, strade&ponti, fori, terme, teatri ed anfiteatri, ecc., servizi che verranno in gran parte a mancare nella città medievale), e la stessa ricerca della bellezza nella città, rappresentino la ricerca di un progresso orientato al bene pubblico ed un insieme di servizi fruibili – pur in una società classista e schiavista – non da parte della sola aristocrazia (come nelle precedenti civiltà “palaziali”), bensì dalla stessa “plebe”; parimenti la complessità degli impianti produttivi e commerciali, riscontrabili ad esempio in scavi come quelli di Ostia oppure di Baelo Claudia (tra Gibilterra e Cadice), testimonia di una economia dinamica, molto più di quanto non dicano le testimonianze letterarie dell’epoca (per il noto disprezzo delle élites classiche verso le attività materiali, disprezzo che però non escludeva la loro preferenza per ville lussuose e confortevoli, e  che non può cancellare ai nostri occhi i concreti avanzamenti tecnologici del mondo antico);
-       il cauto ed incipiente sdoganamento nel secondo Medio Evo cristiano dell’interesse per l’economia e per “l’economia dell’interesse” (inteso come tasso di remunerazione dei prestiti, pur ancora in odore di eresia), ben prima della Riforma protestante e del Calvinismo, è ben focalizzato da Felice con riferimento alla “accumulazione primaria” dei monasteri cistercensi16 (per effetto del ritorno ad un rigore benedettino sul lavoro manuale degli stessi monaci, senza delega ai servi, e quindi dell’impiego diretto di un elevato “capitale umano”; e contestualmente per l’afflusso delle donazioni, attirate dalla incisività della stessa riforma religiosa) ed alla originalità dei nuovi ordini mendicanti, derivanti dalle figure parallele di Valdo e di Francesco, ambedue figli apostati di famiglie mercantili  (il primo però estromesso e perseguitato dalla Chiesa ufficiale, il secondo invece accolto seppure un po’ imbrigliato); i conventi francescani, operanti in ambito urbano, finiscono per doversi confrontare con il problema della accumulazione ed impiego del denaro, per le loro finalità filantropiche, sia nella gestione in proprio delle donazioni, sia nella guida delle anime dei nuovi “benestanti” e benefattori (e qui ci si ricollega alla ricerca di Paolo Prodi10,17 – richiamato anche da Felice sulla evoluzione dei manuali dei confessori e sul ruolo specifico del francescano Bernardino da Siena sulla questione dell’usura: Prodi conferisce però più importanza all’autonomia sociale dei mercanti che non all’intraprendenza degli stessi Conventi).

Più scontati invece mi sono sembrati i racconti sui passaggi e rimbalzi nelle nuove scoperte nei lunghi Medio-Evi di Occidente ed Oriente attraverso la civiltà mussulmana, sui diversi influssi delle grandi pestilenze (soprattutto nel Trecento) tra Europa Occidentale ed Orientale (a Ovest il calo demografico rafforza le posizioni contrattuali dei ceti subalterni e  dissolve la servitù della gleba; l’opposto avviene ad Est), sui rapporti tra Riforma e Controriforma ed il nascente capitalismo (soprattutto nella triangolazione teologica tra Lutero, Zwingli e Calvino), sulla Rivoluzione Scientifica del Seicento e la “Società delle Lettere” del Settecento (con interpretazione molto vicina a quella di Mokyr9,17), su esplorazioni, malattie, colonie e schiavismo (con il culmine del Congo di proprietà personale di re Leopoldo del Belgio, a fine ‘800, la cui organizzazione impone ritmi intensi alla raccolta del lattice per gomma, passando per le armi gli indigeni poco produttivi, e razionando le munizioni alle truppe di colore a ciò preposte: per garantire di non averle sprecate o dirottate per la caccia, gli esecutori devono consegnare per ogni proiettile sparato la mano mozzata della vittima…).

Arrivando verso l’età contemporanea l’Autore evidenzia soprattutto l’incapacità delle società moderne di assicurare il benessere per tutti, che ora sarebbe tecnicamente possibile in termini teorici (vedi ad esempio Bregman18), e quindi il divario tra la dimensione etica od ideologica e l’esercizio effettivo del potere, politico ed economico, che va in direzione opposta, in una misura che la potenziale disponibilità delle risorse rende scandalosa.  

Di questo divario il testo si occupa con riferimento alla storia del Novecento, non solo smentendo le promesse implicite nelle ideologie liberali e democratiche, ma anche esaminando le parabole contrapposte e parallele della Rivoluzione Sovietica (dall’utopia del comunismo – di chiara derivazione illuminista e giacobina, aggiornata con lo storicismo determinista di Marx - alla distopia del “socialismo reale”) e del Nazismo, cui l’Autore (a mio avviso correttamente) riconosce un profilo teorico (per quanto aberrante), derivante anch’esso dal pensiero moderno in termini di evoluzionismo e selezione eugenetica (la supremazia razzista dei migliori; Darwin in salsa Nietzsche, con un tocco di romanticismo degenerato sugli eroi e la “bella morte”): dimenticando però a mio avviso di catalogare il contiguo Fascismo (cioè un nazionalismo militarista e autoritario di massa, non sempre né necessariamente razzista) come tentazione ricorrente e specifica di reazione ‘moderna’ alla crisi delle liberal-democrazie.

Dopo di che l’Autore enuncia - ma a mio avviso non approfondisce adeguatamente  - sia il nesso tra rivoluzione industriale e saccheggio delle risorse fossili del pianeta (saccheggio che ha reso possibile “la grande fuga” – vedi Deaton, citato anche da Felice dalla miseria delle società agricole, ma di cui da ora ci si presenta da pagare l’intero conto complessivo, divisibile in pochissime rate) sia il problema insoluto delle diseguaglianze, pur temperato, come sopra si accennava dalla fuoriuscita di Cina ed altri paesi dal sotto-sviluppo, ma acuito dal volano delle migrazioni, che la stessa crescita delle disuguaglianze alimenta (come il testo d’altronde ben illustra).

Felice si rende ben conto che tra i motori ideologici e pratici dello sviluppo un ruolo centrale è svolto dalla spinta all’arricchimento individuale, che da religione austera dell’imprenditore virtuoso, secondo le ipotesi di Adam Smith, alimenta ai vertici la continua accumulazione del capitalismo finanziario e dilaga tra le masse (non solo dei paesi ricchi) sotto la forma di diffuso edonismo consumista (anche nella specie del consumo di sostanze gratificanti, legali come il Prozac, od illegali come la maggior parte delle droghe); il tutto arginato sempre di meno dalle religioni tradizionali (almeno in Occidente).

A queste tendenze individualiste ed edoniste, Felice contrappone la convinzione sua e di altri intellettuali (che si rifanno in parte alla tradizione della “economia civile” di Genovesi, Muratori e Filangeri; talora innervata su postulati religiosi, come per Luigino Bruni), che – dato un decente benessere materiale –  la felicità vada cercata non nel possesso delle cose, ma nel sapere e nella “ricchezza delle relazioni umane”.

Di questa “rivoluzione etica”, che l’Autore ritiene possibile (ma di cui non dimostra che sia necessaria, né come renderla effettivamente vincente), si riscontrerebbero positive conferme in una serie di tendenze di lungo periodo che accompagnano l’età moderna, pur nella turbolenza della storia recente (basti pensare alle rivoluzioni e guerre del “secolo breve”):
-       il movimento femminile e gli altri movimenti di liberazione sessuale,
-       la crescente attenzione  verso le altre specie degli esseri viventi, fino alle espressioni vegetariane, vegane ed “anti-speciste”,
-       le tendenze statistiche di lungo corso (ignorate dalla comunicazione mediatica) ad una continua de-crescita della violenza “privata” (ad esempio gli omicidi annuali ogni centomila abitanti in Europa sono scesi da 30-40 nel Medio Evo a 3,2 nel Settecento fino a soli 1,2 oggi; e calano, da soglie più alte anche negli altri continenti),
-       la stessa democrazia come regime politico formalmente instaurato negli Stati di tutto il mondo, cresciuta da una decina di casi all’inizio del Novecento fino a 125 su 195 nel 2016 (anche se su questo terreno l’Autore riscontra i recenti peggioramenti della democrazia sostanziale in casi come la Turchia e la Russia, cui aggiungerei anche gli U.S.A., non solo per Trump, ma per la sfacciata “plutocrazia” nei meccanismi pubblicitari/elettorali degli ultimi decenni); nonché il (misconosciuto) esperimento dell’unità Europea, come inedita esperienza di pacifica collaborazione.

(Per parte mia prendo atto volentieri di tali tendenze, che in parte ho considerato – ma insieme alle consistenti contro-tendenze -–  nei miei recenti articoli su non-violenza e su democrazia e populismo, ma l’insieme non mi pare dia corpo più di tanto all’auspicabile “rivoluzione etica”: il nocciolo a mio avviso – ed anche secondo altri, tra cui Marc Augé e credo pure Fulvio Fagiani -– starebbe nella presa di coscienza, da parte degli intellettuali prima e poi di consistenti quote delle masse oppresse ed illuse, della ineludibilità di un cambio di passo nell’uso delle risorse per la stessa salvezza del Pianeta Terra; da qui alla consapevolezza del nesso tra il benessere di ciascuno e quello di tutti gli altri esseri, umani e non solo; e da qui alla assunzione consensuale di una discreta austerità nei consumi e del necessario intreccio tra diritti e doveri, non perché una autocrazia lo impone, ma perché democraticamente lo si accetta. E lo si traduce in leggi, tasse, sovra-nazionalità: vasto programma!)

Nelle premesse e nella parte storica il testo risulta alquanto ambiguo sulla differenza tra benessere materiale e felicità: afferma di non voler misurare la felicità soggettiva (quella dei sondaggi di Inglehart, ad esempio16), ma di voler utilizzare parametri oggettivi (che a mio avviso di fatto sono adatti solo per misurare per l’appunto il benessere).
Ma nella parte finale cerca di sciogliere questo nodo (più in termini concettuali che quantitativi), introducendo ad esempio il “paradosso di Easterlin” (sociologo inglese di fine ‘900): “al crescere del reddito inizialmente la felicità aumenta, ma a un certo punto non più ed anzi diminuisce”.

E si confronta quindi – sia nel capitolo sull’Illuminismo, sia nelle conclusioni - con il pensiero filosofico occidentale, soprattutto dei classici della modernità, da Hobbes (secondo cui l’uomo è lupo, che solo lo Stato può domare) a Rousseau (che invece vede l’uomo buono finché la società non lo travia), da Locke (che sta nel mezzo tra queste due posizioni) a Kant (che appende i suoi “imperativi categorici” ad un superiore firmamento laico), con ulteriore attenzione a Leopardi (il cui pessimismo non appare infondato) ed a Bertrand Russel (che della felicità si è occupato in un opera minore): ma non ai filosofi del 900 (vedi ad esempio il mio riassunto da Bodei20), tranne un breve cenno a Nietzche ed a Marcuse, non agli psicanalisti e psicologi e neuro-scienziati.

Il pregio di questi ragionamenti – secondo me –  è che sono semplici e chiari, ed inseriti correttamente in un contesto storico, e quindi utili per ulteriori riflessioni; il difetto, invece, mi sembra che stia nel non contemplare gli ‘abissi dell’animo umano’ cioè la concretezza della psiche e delle sue ordinarie patologie, né le specificità storiche degli ultimi decenni, dal “riflusso” connesso al tramonto dell’utopia socialista, alla svolta tecnologica in atto, con le implicazioni che comporta in termini di destrutturazione del lavoro, alienazione diffusa, etero-direzione dei sentimenti politici delle masse (rimando su questi temi, tra gli altri ai contributi di Lelio Demichelis21,22).

Fonti:
1. Emanuele Felice “STORIA ECONOMICA DELLA FELICITA’” – Il Mulino, Bologna 2018
2. Jared Diamond “IL TERZO SCIMPANZÉ - Ascesa e caduta del primate homo sapiens” - Bollati Boringhieri, Torino 1994 e 2006
3. Aldo Vecchi “L’UOMO COME TERZO SCIMPANZE’ SECONDO JARED DIAMOND” su UTOPIA21, maggio 2017 https://drive.google.com/file/d/0BzaFw8WEAEgYNVNiUnI2S0JUVUk/view
4. Jared Diamond “ARMI, ACCIAIO E MALATTIE - Breve storia degli ultimi tredicimila anni” – Einaudi, Torino 1997
5. Aldo Vecchi “ARMI, ACCIAIO E MALATTIE, NELLA STORIA MONDIALE DI JARED DIAMOND” su UTOPIA21, maggio 2017 https://drive.google.com/file/d/0BzaFw8WEAEgYWjV1dkNlVVlOM0k/view
6. Harari “DA ANIMALI A DEI. BREVE STORIA DELL’UMANITA’” – Bompiani, Milano 2016
7. Fulvio Fagiani “IDEE E PROSPETTIVE PER LA TRANSIZIONE” su UTOPIA21, settembre 2018 https://drive.google.com/file/d/12V6iBTJQkOfM69VDbgvpbeqPzsiIphdo/view
8. Aldo Vecchi ”LA GRANDE FUGA” DI ANGUS DEATON” su UTOPIA 21, novembre 2016 http://www.universauser.it/images/LA%20GRANDE%20FUGA%20DI%20ANGUS%20DEATON.pdf
9. Fulvio Fagiani “LE ORIGINI DELL’ECONOMIA MODERNA SECONDO JOEL MOKYR” su UTOPIA21, gennaio 2019 https://drive.google.com/file/d/1WXSC4qPcPvGjjpw5S4ukBYjqCq8cym1b/view
10. Aldo Vecchi “PAOLO PRODI: 7° NON RUBARE” su UTOPIA21, settembre 2018
11. Aldo Vecchi “DEBITO E DEMOCRAZIA SECONDO DAVID GRAEBER” su UTOPIA21, luglio 2018 https://drive.google.com/file/d/1KNHwvYRdA-OgatgudIQMBtJt5Q3shSWl/view
12. Aldo Vecchi  “PERCHE’ LE NAZIONI FALLISCONO, SECONDO ACEMOGLU E ROBINSON” su UTOPIA21, gennaio 2019
13. Aldo Vecchi “IL LUNGO XX SECOLO DI GIOVANNI ARRIGHI” su UTOPIA21, no
14. David Graeber “DEBITO - I PRIMI 5000 ANNI” – Il Saggiatore, Milano 2012
15. Anna Maria Vailati e Aldo Vecchi “CONVERSAZIONE-INTERVISTA CON MASSIMO FOLADOR SULLE IMPRESE RESPONSABILI E LA REGOLA
16. Paolo Prodi “SETTIMO NON RUBARE. FURTO E MERCATO NELLA STORIA
DE
LL’OCCIDENTE” – Il Mulino, Bologna 2009
17. Joel Mokyr “ UNA CULTURA DELLA CRESCITA” - Il Mulino, Bologna 2018
18. Fulvio Fagiani “UTOPIA PER REALISTI DI RUTGER BREGMAN” su UT
19. Aldo Vecchi “INGLEHART E LA POST-MODERNITA’” su UTOPIA 21, novembre 2018 https://drive.google.com/file/d/1e23dr6OMPGRzhpDWegKWdhrz6h4DAcIt/view
20. Aldo Vecchi “INSEGUENDO L’UTOPIA, ATTRAVERSO “LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO (E OLTRE)” DI REMO BODEI” su UTOPIA21, novembre 2017 https://drive.google.com/file/d/1TXk2scrSIH8krSyIXTBFFuWpTJXHdQbQ/view
21. Lelio Demichelis “LA GRANDE ALIENAZIONE” - Jaca Book, Milano 2018
22. Fulvio Fagiani “CONVERSAZIONE/INTERVISTA A LELIO DEMICHELIS SULL’ALIENAZIONE” su UTOPIA21, gennaio 2019 https://drive.google.com/file/d/1YDHb0asJXGgCNsWV2p5EmwASOmYTvFfg/view


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