Un testo ambizioso, un
po’ deludente ma stimolante, sulla complessità dei fenomeni urbani, dalla
rivoluzione industriale ai giorni nostri.
Sommario:
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LE SCIENZE DEL
TERRITORIO E LA COMPLESSITA’
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L’INTERSEZIONE CON LE
ALTRE SCIENZE UMANE
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CONFRONTI CON L’ECONOMIA
E LA POLITOLOGIA
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LA TRASFORMAZIONE DELLA
CITTA’, DALLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
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GLI APPROFONDIMENTI
STORICI SU ROMA…
-
… E SU TORINO
-
CONCLUSIONE SULLA “COMPLESSITA’ ”
(in corsivo le annotazioni più personali)
per le immagini vedere il sito universauser/utopia21
LA COMPLESSITA’
Il
bel titolo, alcune recensioni favorevoli2,3 e la firma congiunta di
un urbanista e di un fisico mi hanno spinto ad affrontare la lettura di questo
ambizioso e corposo volume, che (anche nella prefazione di Gianfranco
Dioguardi, nell’introduzione e nel risvolto di copertina) promette di
rivisitare le scienze urbane sotto l’ottica della “complessità”, intesa come
nuova metodologia, trasversale a diverse
discipline che studiano fenomeni complessi.
In
tal senso gli Autori avevano già pubblicato congiuntamente altri testi metodologici
4,5 , mentre qui mostrano l’ambizione di attraversare nel merito,
con questa impostazione, i campi disciplinari specifici relativi, in senso
lato, alla città ed al territorio.
E su questo fronte mi
sembra di poter dire che il risultato non è raggiunto (come più avanti cercherò
di argomentare analiticamente), mentre il testo mi sembra comunque valido come
grande raccolta interdisciplinare di contributi utili, come sollecitazione o
come ripasso (per i più noti tra i temi e gli autori citati) alla comprensione
storica del “fenomeno urbano”.
Che l’urbanistica si
collochi all’intersezione di tanti saperi diversi, d’altronde, si sapeva da
tempo, e lo aveva ben evidenziato lo stesso Le Corbusier (che negli ultimi
decenni è stato anche giustamente criticato, come gran parte del “movimento
moderno” – il che avviene anche nel testo in esame - per la parzialità del suo
approccio alla progettazione), affermando che “l’urbanistica è una chiave”,
come da schema in copertina dell’omonimo volume6.
FIGURA 1 – Copertina del testo di Le Corbusier, 1955-1966
Gli
Autori si smarcano da ogni pretesa di modellizzazione matematica dei fenomeni
sociali e territoriali, ed in particolare dai tentativi americani degli anni
’60 di ricondurre l’insieme dei processi socio-territoriali ad un'unica matrice
computazionale complessiva (Ira Lowry su Pittsburgh nel 1964), che ebbero un
certo seguito anche negli ambienti accademici italiani in quel periodo, ed
assumono invece uno stile narrativo, che applicano sostanzialmente a 3 filoni,
pur in parte intrecciati nel testo:
-
una
ampia rassegna sulle scienze umane connesse: filosofia, antropologia,
sociologia, economia, diritto e politologia, semiotica, paesaggistica…
-
una
storia della città e dell’urbanistica a partire dalla rivoluzione industriale,
-
due
approfondimenti storici e “didascalici” su Roma e su Torino, dall’Ottocento ad
oggi.
Anzi
a quasi-oggi, perché non vi è alcun cenno alla ascesa delle sindache a 5Stelle
Raggi ed Appendino, se non nelle post-fazioni (su Roma e su Torino,
rispettivamente) di Vezio De Lucia e Guido Bodrato, che arricchiscono il testo
assieme a quelle del filosofo Enrico Giannetto, dell’economista Salvatore Rossi
(Banca d’Italia, ora TIM) e di Edoardo Salzano (qui come redattore del Piano
Paesaggistico Regionale della Sardegna del 2006).
Per contenere questa
recensione in una lunghezza ragionevole, non ritengo opportuno riassumere
l’intero contenuto del testo bensì
soffermarmi sugli elementi di forza e su quelli – a mio avviso - di debolezza.
L’INTERSEZIONE CON LE
ALTRE SCIENZE UMANE
La
poderosa panoramica sui fronti della sociologia, antropologia e filosofia mi
sembra esauriente (con poche assenze
significative, ad esempio Maffesoli e le sue moderne tribù elettive, più o meno
nomadi ),
sia dove riporta le teorie descrittive della realtà sociale e percettiva (es.
Simmel e la scuola di Chicago, Weber, Wirth, Foucault, Soja, Augé, Bauman, Lynch,
Norberg-Schulz, Certau, ecc.), perché la città è costituita innanzitutto dalle
persone che la abitano e la usano, sia dove include il soggetto della
conoscenza nel campo della “complessità”, sottolineando quanto sia pertanto
complessa la visione di fenomeni complessi da parte di soggetti complessi (Husserl,
Merlau-Ponty).
Estrapolo
da questi percorsi Lefebre ed Heidegger:
-
Henry
Lefebre (ed Harvey suo profeta7) perché mi pare molto apprezzato
dagli Autori (che ne riprendono alcuni assunti in altre parti del testo), più di quanto a mio avviso meriti (pur
riconoscendogli l’invenzione del “diritto alla città”), sia quando teorizza,
come antagonismo alla città capitalistica la “festa quotidiana”, ovvero una
creatività anarcoide (e un poco edonista?) senza critica e rifondazione del
lavoro (ovvero senza autocoscienza dei lavoratori sfruttati e senza
consapevolezza del lavoro necessario), sia quando esalta, come contro-altare
alla città capitalistica segregata, subordinata al valore di scambio, una
mitica “città-opera” dell’ancient régime: dove si consumavano sistematici
soprusi classisti ai danni dei ceti subalterni (relegati magari nelle soffitte,
invece che in periferia) e dei ceti rurali esclusi, per tacere dello status
incerto e spesso disperato dei vagabondi (o hobos) di allora, che dalle
campagne cercavano rifugio presso la città del “valore d’uso” (secondo
Lefevre).
-
Martin
Heidegger, perché la sua visione del
Costruire-Abitare-Pensare è ripresa ed ampliata nel saggio in
post-fazione di Giannetto, la cui indubbia solidità concettuale mi lascia però
qualche dubbio storico-sociale: secondo Giannetto, la svolta del neo-litico,
che porta la specie umana ad
assoggettare stabilmente le altre specie, ed in particolare ad allevare animali
per sfruttarne il lavoro e per cibarsi delle loro carni, innesca sensi di colpa
che vengono esorcizzati tramite i riti sacrificali nel tempio; il tempio e la
città attorno ad esso (ed infine senza di esso, ma passando attraverso il
cristianesimo che sublima il sacrificio nella figura di Gesù, sacrificato per
altro dal potere fariseo proprio perché si opponeva ai sacrifici di animali nel
tempio) divengono strumenti di
rimozione della colpa, fino alla moderna città totalmente artificiale, che ha
dimenticato l’origine naturale di cibi e carni.
Heidegger si confronta
con questo ‘Abitare nell’artificio’, indicando nell’Arte e nella Poesia i soli
modi perché l’uomo moderno possa tornare a conoscere la natura.
I miei dubbi su questa
ricostruzione antropologica riguardano soprattutto i confini tra ciò che
è città e ciò che non lo è, perché fino a pochissimi decenni addietro gli
animali da lavoro e da carne erano ben presenti nei cortili di gran parte delle
realtà urbane europee, tolte forse solo le grandi città, e quindi la
maggioranza degli abitanti (oltre alla popolazione più specificamente rurale)
si trovava priva di questo scudo artificioso per rimuovere i sensi di colpa
carnivori (e facilitata a conoscere la natura, anche senza ricorrere all’arte
ed alla poesia).
CONFRONTI CON
L’ECONOMIA E LA POLITOLOGIA
Meno
soddisfacenti mi sembrano invece le incursioni sul campo dell’economia e della
politologia:
-
riguardo
all’economia:
o
malgrado il dialogo con Salvatore Rossi, che
nella sua post-fazione, a conclusione di una analisi economica sulle città
post-industriali in quanto produttrici di “servizi ad alta intensità di
conoscenza”, ne legge i rischi “marginalizzanti” perché il capitalismo
post-industriale (non “più predatorio di quello fordista”) “è stato finora
ancor meno regolato” (anche per “la sua natura sovranazionale”), ma le ritiene
“più vivibili, più pulite e più sicure di quelle del capitalismo fordista” e
non ne esclude un possibile controllo, gli Autori invece nel capitolo 5.5
mostrano di recepire senza riserve l’ipotesi più catastrofista di Saskia
Sassen, che assimila nel concetto di “città globali”, polarizzate tra ceti
super-ricchi e ceti subalterni marginali (dopo l’espulsione dei ceti medi),
tutte le principali metropoli, senza considerare le differenze che le residue,
ma non debellate, politiche socialdemocratiche di difesa del welfare
determinano nelle metropoli continentali europee, da Parigi a Berlino, da
Vienna a Stoccolma (ed in parte direi anche a Milano);
o
la
corretta considerazione sul peso crescente della “finanziarizzazione” del ciclo
edilizio e della speculazione immobiliare nelle operazioni di riqualificazione
delle aree metropolitane più appetibili, porta gli Autori, nel capitolo 5.2, a
teorizzare l’esistenza, a fianco della “rendita fondiaria assoluta” (cioè il
divario tra prezzo del suolo agricolo e prezzo del suolo urbano) e della
“rendita fondiaria differenziale” (in funzione della localizzazione delle aree
edificabili), di una nuova “rendita pura” (connessa pare alla diversità delle
destinazioni d’uso, nonché alla gestione finanziaria delle operazioni di
trasformazione), che invece è di fatto
solo una nuova forma della “rendita differenziale”, la quale sempre ha lucrato anche sulle destinazioni
d’uso degli immobili .
-
riguardo
alla politologia, il testo si appoggia soprattutto su Junger Habermas e sulla
sua proposta di una democrazia deliberativa in cui il confronto si fa beneducato
ed asettico, dimenticando le radici
materiali e antropologiche dei conflitti politici, e su Isaiah Berlin, che
discetta di libertà negative e libertà positive in termini sostanzialmente
liberali, per approdare poi ad un auspicio di superamento dei limiti della
democrazia rappresentativa e del funzionalismo modernista, in nome della comprensione
della complessità: malgrado interessanti riflessioni sulle esperienze di “progettazione
partecipata” di Giancarlo De Carlo nei lontani anni ’60 e poi di altri (tra cui
Marianella Sclavi: ma gli esempi
potrebbero essere anche più numerosi) e sulla maturazione dei concetti di
bene pubblico e di bene comune nella prassi urbanistica e nella evoluzione del
paesaggismo, mancano mi pare molti
tasselli per costruire una critica alla democrazia liberale, che valorizzi i
conflitti sociali senza abbandonare i valori “costituzionali”, lungo i percorsi
tracciati ad esempio, con il dubbio ma senza perdere il rigore dei principi, da
Norberto Bobbio o da Stefano Rodotà (oppure anche da Danilo Dolci e da Aldo
Capitini); e manca ogni cenno alla degenerazione populista e sovranista che
caratterizza invece negli ultimi anni l’esercizio della democrazia in vaste
parti del mondo.
LA TRASFORMAZIONE DELLA
CITTA’, DALLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
La
parte più propriamente storica del testo mi ha lasciato in più punti perplesso,
-
sia
negli aspetti di metodo, per l’andamento un po’ ‘elicoidale’ della narrazione
delle vicende (ad esempio inseguendo il
filone utopico e poi le città giardino fino alle “new towns” del secondo
Novecento, per poi risalire alle trasformazioni urbane connesse alla prima
rivoluzione industriale, e poi da lì ridiscendere) e per una certa
sovrapposizione tra storia delle idee (e critica delle idee) e storia della
realtà (e critica della realtà); ad esempio, a Vienna tra le 2 Guerre mondiali,
la socialdemocrazia riuscì a realizzare abitazioni popolari per 200.000 persone
su 2 milioni di abitanti residenti nella metropoli, ed è certo importante
analizzarne le teorie e la qualità dei progetti: ma questo enorme sforzo costruttivo è sufficiente per sorreggere la
definizione di “Vienna Rossa”, trascurando una valutazione complessiva sulla
evoluzione urbana in quel periodo?
-
sia
per diversi aspetti di contenuto (connessi anche a quanto sopra detto sul
metodo, riguardo alla generalizzazione delle categorie di giudizio): ad esempio
la successione tra “città fordista”, fondata sulla grande industria, ed una
successiva “città keynesiana”, fondata sui consumi (e sulla piccola industria?),
mentre, almeno in Italia, si è realizzata
una compiuta struttura fordista delle fabbriche (ed in parte delle realtà
urbane) solo dalla metà del Novecento, in tutt’uno con la crescita “keynesiana”
dei consumi di massa (senza i quali, per altro, anche nei decenni precedenti e
nei paesi con più precoce sviluppo industriale, una produzione di massa con
metodi fordisti si era resa possibile in parte per altrettanto precoci consumi
di massa, e per l’altra parte per le produzioni belliche connesse – compresi
gli ingenti ‘preparativi’ alla prima ed alla seconda guerra mondiale; un altro
esempio riguarda le piccole fabbriche, che
almeno in Italia , hanno ampiamente
convissuto con le grandi aziende in tutte le fasi dello sviluppo industriale,
ed hanno anche spesso generato accumulazioni di capitali rapidamente investiti
nell’edilizia, senza aspettare il neo-liberismo degli anni ’80, diversamente da
quanto raccontato dagli Autori.
GLI APPROFONDIMENTI
STORICI SU ROMA…
La
storia urbanistica di Roma è ripercorsa (nel capitolo 5.4), appoggiandosi
largamente sul lavoro di Italo Insolera 9, a partire dagli
ampliamenti ottocenteschi, anche precedenti alla conquista piemontese (senza
trascurare però un interessante flash-back su Sisto V, che già nella Roma barocca
intrecciava assi scenografici con raffinate speculazioni edilizie) evidenziando
il prevalere delle logiche incrementali, che hanno continuato ad aggravare la
congestione delle aree centrali, anche per il rapido snaturamento del primo Piano Regolatore innovativo del
1909 (Sindaco Nathan, cui si deve una notevole estensione della rete
tranviaria, in un quadro giolittiano di forti aziende municipalizzate: rete
tranviaria successivamente amputata in favore dell’automobile), e per il
fallimento dell’alternativa del “Sistema Direzionale Orientale” previsto (ma – rammenterei - con mobilità solo su
gomma) dal piano faticosamente approvato nel 1965, anch’esso deformato dalle
prevalenti logiche speculative.
Constatando
quindi che l’unica infrastruttura moderna significativa a scala territoriale, a
correzione dello schema radiocentrico delle antiche strade consolari, è l’anello
(infernale) del Grande Raccordo Anulare, che connette (con le autostrade
afferenti) tutte le recenti espansioni urbane – in parte troppo dense ed in
parte troppo rade –, in un territorio metropolitano che invece su ferro rimane poco
servito, con 2 linee metropolitane e mezza (la linea C, tuttora in stallo),
oltre alle linee ferroviarie storiche (e anch’esse radiali).
Gli
Autori elogiano le prime Giunte di Sinistra degli anni 70, da Argan a
Petroselli, sia per innovazioni quali le “Estati romane” dell’assessore
Nicolini, sia per l’attenzione alle periferie
e alle borgate disseminate nell’Agro Romano, comprese quelle di origine
abusiva: ma quella stagione politica non
produsse comunque un nuovo Piano né un diverso assetto degli insediamenti né
dei trasporti.
Anche
se Bertuglia&Vaio attribuiscono invece molta importanza al progetto del
Parco dei Fori e della via Appia, avviato in quegli anni ed elaborato da
Benevolo ed altri (tra cui Gregotti), con la significativa collaborazione del
Sovrintendente LaRegina, progetto che prevedeva l’unificazione in un solo parco
urbano di pregiate aree archeologiche oggi suddivise: in particolare il Foro
Romano separato dai Fori Imperiali per l’ingombrante presenza della colata di
cemento ed asfalto della “via dei Fori Imperiali”, lo stradone celebrativo
improvvisato ed imposto da Mussolini per collegare il Colosseo con piazza
Venezia e svolgervi le parate politiche e militari del regime fascista.
Il
successivo ridimensionamento del progetto, a partire da un dietro-front della
Sovrintendenza, che ha ritenuto di vincolare anche lo stradone mussoliniano
come testimonianza storica, ed il suo sostanziale affossamento da parte delle
successive amministrazioni (tornate al centro-sinistra di Rutelli e poi di
Veltroni dagli anni 90 al 2008) è visto dagli Autori come un grave arretramento
culturale , senza una autonoma valutazione sulla concreta fattibilità di quel
progetto: non mi riferisco all’ipotesi di rivolgere il piccone demolitore
contro lo stradone dello stesso Duce picconatore,
ma a quella di aprire tutte le aree archeologiche centrali di Roma, senza
recinzioni, alla fruizione pubblica permanente e non sorvegliata, a mio avviso
incompatibile con la specifica delicatezza dei luoghi (ed a fronte di una
opinione pubblica che, per ragioni di sicurezza in parte fondate, spesso
pretende la recinzione anche per il più modesto parco di quartiere).
Figura 2 – Roma, Via dei Fori imperiali, pedonalizzata
L’approfondimento
su Roma si conclude con un severo giudizio degli Autori a carico del nuovo
Piano Regolatore elaborato in questo secolo sotto le Giunte di Rutelli e
Veltroni, ma gestito dai sindaci successivi, Piano redatto da Oliva ed altri e
da Campos Venuti, che poi si dissociò da alcune scelte procedurali in fase di
approvazione.
Trascurando
ogni altro aspetto, gli Autori censurano soprattutto la scelta di non
cancellare le consistenti sacche di edificabilità insite nel pre-vigente Piano,
ma di concentrarle nelle “nuove centralità”, esterne al Grande Raccordo
Anulare, di fatto caratterizzate da insediamenti residenziali e centri
commerciali, senza il nuovo terziario direzionale auspicato dal Piano e senza
una diversa politica dei trasporti.
Le mie riserve su tale
valutazione, probabilmente meritata dal Piano o quanto meno dalla sua
attuazione, riguardano specificamente la questione dei trasporti, perché
rammento le insistenti sottolineature dello stesso Campos Venuti sulla contestuale
“cura del ferro” 10 che avrebbe dovuto accompagnare le nuove
centralità del PRG di Roma, ponendo a carico degli operatori edilizi le opere
necessarie per estendere e raccordare la rete ferroviaria e metro-tranviaria,
ma non trovo nel testo di Bertuglia&Vaio su questo tema (pure da loro
trattato per i tempi di Nathan e di Mussolini) alcun cenno che riferisca ai
lettori la narrazione di Campos e che spieghi se era pura retorica, oppure
qualcosa non ha funzionato (e perché) nella attuazione del Piano finora accumulata.
(Purtroppo sono recentemente
mancati sia Federico Oliva che il suo maestro Giuseppe Campos Venuti: spero che
qualcun altro dei protagonisti della formazione di quel PRG intervenga nel
dibattito).
… E SU TORINO
Dopo
un bel racconto sulla (voluta) trasformazione di Torino da ex-capitale sabauda
a città industriale negli ultimi decenni dell’Ottocento ed i conseguenti
sviluppi della ‘città della FIAT’ nel primo Novecento, la storia urbanistica
della città è così schematizzata dagli Autori nel capitolo 5.6 (mentre è dettagliatamente
spiegata, con più dialettica e più sfumature, nella post-fazione di Guido
Bodrato):
-
il
Piano Regolatore degli anni ’50 asseconda le spinte insediative industriali
e residenziali lungo le direttrici
consolidate,
-
i
conflitti sociali innescati dallo sfruttamento della forza lavoro e dalle
condizioni abitative dei lavoratori immigrati, soprattutto dal Sud Italia, e le
prime avvisaglie delle crisi produttive portano nel 1975 alla svolta delle
Giunte di sinistra, in Comune Provincia e Regione,
-
la
Giunta Novelli, con l’Assessore Radicioni, elabora un nuovo Piano Regolatore,
in accordo con la pianificazione regionale e comprensoriale, che prevede un
diffuso riequilibrio delle funzioni produttive, residenziali e di servizio,
nell’area metropolitana, difendendo la vocazione industriale e controllando la
rendita immobiliare,
-
come
contraccolpo delle prime inchieste su Tangentopoli (che a Torino arriva già
nel1983, con l’affare Zampini, e che in prevalenza riguardano il Partito
Socialista), si apre una spaccatura nel Partito Comunista, specificamente sul
nuovo PRG, che viene pertanto affossato, mentre il Comune passa al
“pentapartito”,
-
il
nuovo Piano Regolatore, elaborato da Cagnardi e Gregotti , varato nell’ambito del
Pentapartito e poi gestito (con una miriade di varianti) dalle maggioranze “uliviste” Castellani,
Chiamparino e Fassino, dal 1993 al 2016 (il cui emblema sono le Olimpiadi
Invernali del 2006), capovolge in direzione neo-liberista e della competizione
tra città, “marketing urbano”, l’assetto del Piano Radicioni, cavalca la
rendita fondiaria derivante dalla riconversione delle aree industriali dismesse
(trascurandone il valore archeo-industriale, ad eccezione del Lingotto, su cui
però il Comune subisce l’iniziativa della FIAT, e delle Officine Grandi
Riparazioni ferroviarie), concentra insediamenti ad alta densità in aree
semi-centrali, quali l’asse della Spina (nuovo asse stradale sopra la linea
ferroviaria interrata), con esiti negativi sia riguardo alla qualità
architettonica (riconosciuti poi dallo stesso Cagnardi) che al mix funzionale
(come nelle nuove centralità di Roma, solo residenza, con eccedenze
speculative, e centri commerciali), con poco verde e servizi (tranne il Parco
Dora, i cui meriti vanno però anche ai locali Comitati) e senza conseguire un
ribaltamento degli affacci degli isolati che davano di spalle alla ferrovia, il che rende la Spina più
simile ad una autostrada che non ad un boulevard.
Figura 3 – Torino, un’immagine della “Spina”
Non ho competenza ed
esperienza sufficiente per contestare questa valutazione, ampliamente negativa,
sulla Torino modificata dal Piano del 1995, anche se come turista devo
confessare di aver apprezzato sia il nuovo Lingotto (a parte i parcheggi a raso
anziché interrati), la Spina tra nuovo Politecnico e Officine Grandi
Riparazioni (elegantemente restaurate) e più in generale la faccia vivace della
Torino “Olimpica” rispetto alla tristezza della Torino degli anni ’70.
Però mi chiedo:
-
si possono confrontare
due filosofie di piano (Radicioni e Cagnardi-Gregotti) senza dedicare
attenzione al sistema dei trasporti (ignorato dagli Autori), che nel primo caso
è stato sperimentato con insuccesso, trasformando il tradizionale (e attuale)
sistema radiale di tram e autobus con un sistema “reticolare a scacchiera” (che
forse funzionerebbe con le moderne “app” sugli smartphone degli utenti, fatto
salvo il “digital divide” a danno di anziani, disabili, neo-immigrati, ecc.), e
nel secondo caso ha tentato di intrecciare il passante ferroviario (ed i
connessi servizi per i passeggeri locali, ma anche l’Alta Velocità con Milano e
di lì fino a Salerno) con la nuova linea metropolitana (e un domani con la
linea 2);
-
si può ipotizzare
quanto il Piano Radicioni sarebbe stato attuabile a fronte della spinta
oggettiva verso la de-industrializzazione (che – nel quadro politico ed
economico nazionale ed internazionale – non è solo soggettivo capriccio
padronale)? Ovvero: è possibile il socialismo in un solo PRG? Con ciò non
intendo proporre l’abdicazione dei pubblici poteri al cospetto della rendita,
ma suggerire che questa vada domata ed “estratta” in favor del pubblico dove
può formarsi e non demonizzata con proclami anti-storici: cercare di rendere
‘relativa’ la rendita che mira a divenire ‘assoluta’ .
CONCLUSIONE SULLA “COMPLESSITA’ ”
I giudizi degli Autori
su Roma e Torino mi sembrano fondati e più che legittimi, soprattutto dove sono
specificamente motivati (ancorché da me in parte non condivisi).
Mi chiedo però cosa
c’entri la “complessità”?
Radicioni è forse meglio
di Cagnardi perché comprende meglio la “complessità” antropologica e sociologica?
(a me viene addirittura il dubbio del contrario, anche alla luce degli esiti
elettorali, non solo del 1985, ma anche del 1993, Novelli perdente contro
Castellani ).
Il progetto del Parco
Archeologico di Benevolo è più apprezzabile sotto il profilo della
“complessità” rispetto al vincolo della Sovrintendenza del 2001, che introduce
le opere (ed i misfatti) del regime fascista tra gli elementi da valutare e/o
conservare? (Anche qui ne dubito).
Non dubito invece che
il testo di Bertuglia e Vaio, pur parlando ampiamente della complessità,
rinunci poi ad utilizzare tale categoria per motivare le proprie valutazioni
pro o contro determinati indirizzi progettuali, valutazioni che a mio avviso
nascono invece da altri pur nobili e comprensibili (ed anche condivisibili)
pre-giudizi degli Autori (ad esempio contro la rendita fondiaria e contro il
neo-liberismo).
Fonti:
1.
Cristoforo
Sergio Bertuglia e Franco Vaio – IL FENOMENO URBANO E LA COMPLESSITA’ – Bollati
Boringhieri, Milano 2018
2.
Francesco
Erbani - LA FORMULA CHE FA NASCERE UNA CITTÀ – su “La Repubblica del 11-04-2019
4.
Cristoforo
Sergio Bertuglia e Franco Vaio - NON LINEARITÀ, CAOS, COMPLESSITÀ - Bollati
Boringhieri, Milano 2007
5.
Cristoforo
Sergio Bertuglia e Franco Vaio - COMPLESSITÀ E MODELLI - Bollati Boringhieri,
Milano 2011
6.
Le
Corbusier - L'URBANISME EST UNE CLEF - Éditions Forces vives, Paris 1966
7.
Aldo
Vecchi - LE CITTÀ RIBELLI RAPPRESENTATE DA DAVID HARVEY – su UTOPIA21, luglio
2017
8.
Aldo
Capitini – SEVERITA’ RELIGIOSA PER IL CONCILIO – De Donato, Bari 1966
9.
Italo
Insolera - ROMA MODERNA. UN SECOLO DI STORIA URBANISTICA – Einaudi, Torino 1972
10.
Giuseppe
Campos Venuti – IL TRASPORTO SU FERRO PER TRASFORMARE LA CITTA’: ROMA
ACONFRONTO CON LE METROPOLI EUROPEE – su “Urbanistica” n° 112 del 1999