sabato 31 agosto 2013

IMU E PASTROCCHI

In attesa di convincerci che l’abolizione dell’IMU era proprio quello che voleva anche il PD, è ancora presto per capire come davvero si svilupperà, sotto il profilo tecnico, l’intera partita della fiscalità immobiliare e locale “a regime”, cioè dal 2014.

Sul piano politico e finanziario è invece abbastanza chiaro che il PdL  ha stravinto sul punto specifico, e che in vari modi (IVA? Tagli? Accise? Spread?) il paese pagherà ai proprietari delle case più ricche una specie di “una tantum 2013”, una sorta di tassa per tenere in piedi il governo: il che servirà anche a rimanere nell’Euro oppure rischieremo di uscirne?  Servirà ad agganciare la “ripresina” oppure a perderne l’occasione? Servirà almeno a togliere alibi a Berlusconi per il suo ricatto sul “salvacondotto” oppure servirà a Forza Italia per impostare a breve una nuova campagna elettorale?

INGLEHART E LA POST-MODERNITA’

Stimolato dai riferimenti bibliografici di Marco Revelli in “Finale di partito”, sono risalito ad una delle sue fonti di riflessione, “La società postmoderna” di Ronald Inglehart (Editori Riuniti – 1998 – pagg. 478), sociologo del Michigan e coordinatore a livello internazionale delle campagne di indagini demoscopiche “World Values Surveys”, svolte ripetutamente con domande identiche (o quasi) in 43 paesi.

In particolare il testo descrive ed analizza gli esiti dei rilevamenti del 1981 e del 1990, affiancandoli ad alcuni risultati – per il solo campo dell’Europa comunitaria – del cosiddetto “Eurobarometro” e ad altre ricerche più puntuali.

Anche se le valutazioni di Inglehart e collaboratori sono intrecciate con la lettura di altri dati statistici “oggettivi” (ad esempio la crescita del PIL, la demografia, i rivolgimenti politico-istituzionali), la materia prima dello studio è costituita dalle “opinioni” della popolazione, rilevate tramite questionari a campione, ed in particolare dai valori medi a livello nazionale (e talora a livello locale) delle diverse risposte, confrontate con quelle delle altre nazioni e nel divenire temporale, in parte anche prima del 1981 e dopo il 1990 (ma purtroppo non dopo il 1996, data della ricerca, la quale pertanto ha potuto misurarsi solo con alcune recessioni cicliche del secondo ‘900 in singole aree geografiche, ma non con il tema della grande recessione successiva al 2007).

La fede di Inglehart e degli altri ricercatori nelle opinioni  e nelle “medie” risulta priva di qualsivoglia forma di dubbio, riserva o “istruzione per l’uso”: per esempio tra gli indicatori assunti figura la risposta a quesiti circa l’adesione degli intervistati ad organismi di volontariato, senza che vi sia alcun riscontro sul dato oggettivo delle iscrizioni effettive a tali  associazioni; in generale non si da peso alla preoccupazione circa l’attendibilità delle riposte e circa le distorsioni tipiche che alcuni sondaggi comportano; le medie nazionali – ammette Inglehart - rischiano di rafforzare stereotipi e luoghi comuni, ma il rischio viene accettato senza specifici rimedi (quali ad esempio la rilevazione dell’ampiezza degli scostamenti rispetto alle stesse medie): pare che la raffinatezza degli algoritmi di calcolo appaghi i ricercatori riguardo alla scientificità del loro lavoro, come spesso accade negli ambiti specialistici.

(Accettando il criterio delle medie nazionali, appare alquanto affascinante la ricomposizione della costellazione dei risultati nelle illustrazioni tabellari, ovvero nello spazio cartesiano delle matrici dei dati: le nazioni formano nuove arcipelaghi ed i continenti sperimentano nuove derive nei quadranti delle opinioni). 

L’assunto di fondo della ricerca consiste nella individuazione di un percorso “tipico” (e quindi addirittura prevedibile, per il futuro delle nazioni ancora sotto-sviluppate) nel processo di sviluppo economico delle singole nazioni, evidenziando che – salvo eccezioni, spiegate soprattutto con l’incertezza determinata da rivolgimenti politico-istituzionali (ad esempio Sud Africa ed Est Europa) - :

-          nel passaggio dall’economia di sopravvivenza al decollo industriale si rilevano mutamenti nel sistema di pensiero, correlati al venir meno della preoccupazione basilare per la sussistenza, con l’abbandono delle ideologie tradizionali (in materia di religione, famiglia, autorità) e l’istaurazione di criteri “legal-razionali”, ma molto legati agli aspetti materiali dell’esistenza e con una prevalenza di componenti autoritario-burocratici;

-          con il successivo raggiungimento di livelli diffusi di benessere materiale e quindi con il calare della “utilità marginale” della maggior ricchezza, insorgono invece valori cosiddetti “post-materialisti” o postmoderni, come l’attenzione alla libertà individuale (propria e altrui), all’ambiente ed alla qualità della vita, e l’insofferenza verso lo statalismo e l’eccesso di burocrazia (ed anche verso i partiti di massa): tra questi valori si afferma una qualche  rivalutazione della famiglia e della religione, ma  non in termini di riproposizione della cultura tradizionale (altra cosa è la rinascita dei fondamentalismi religiosi, che Inglehart vede come reazioni marginali alla progressiva secolarizzazione, forti solo in contesti ancora privi di una effettiva modernizzazione: tesi discutibile, ed in effetti contrastata da altri e diversissimi autori, da Samuel P. Huntington a Ulrich Beck));

-          i mutamenti nel sistema di opinioni non sono lineari, ma subentrano con i ricambi generazionali, perché l’assetto ideologico delle persone si “cristallizza” per lo più all’età della formazione e poi tende a conservarsi con limitati aggiornamenti.

Altro aspetto ampiamente indagato è la natura delle correlazioni tra cultura e sviluppo, con una interpretazione che tende a superare la contrapposizione tra Marx (la struttura determina la sovrastruttura) e Weber (lo sviluppo capitalistico come prodotto dell’etica calvinista), rilevando invece le reciproche interferenze tra progresso materiale ed evoluzione culturale, soprattutto in termini di attenzione alle propensioni culturali, quali ad esempio la motivazione individuale al successo (contrastata spesso dalle culture religiose tradizionali) come premessa rilevante per lo sviluppo socio-economico.

Anche i rapporti tra le istituzioni democratiche ed il necessario substrato culturale di lungo periodo (ad esempio gli indicatori della fiducia nel prossimo e della partecipazioni ad associazioni), in relazione  con lo sviluppo economico, sono studiati come interrelazioni aperte e non univoche (ad esempio risulta difficile la democrazia senza benessere, mentre è possibile il progresso economico senza democrazia).

Mi sono sembrati molto interessanti (anche in relazione al testo di Revelli), ma non del tutto convincenti, gli sviluppi della ricerca sui valori post-materialisti in campo politico, con le seguenti affermazioni principali:

-          l’apprezzamento per la democrazia sarebbe comunque in crescita, pur in presenza di disaffezione al voto ed alla vita dei grandi partiti, perché nel frattempo aumenta l’attivismo e la partecipazione ad iniziative di tipo diretto

-          l’ecologismo (con agli antipodi i localismi xenofobi di reazione alla modernità) si porrebbe come un nuovo asse discriminante, “ortogonale” alla tradizionale polarizzazione destra/sinistra.

L’analisi, riferita soprattutto all’Europa Occidentale (perché negli USA il bipartitismo formalmente tiene di più, anche per il sistema elettorale iper-maggioritario), coglie abbastanza bene la problematica specifica delle leadership dei partiti di sinistra, costretti a non correre troppo avanti, verso i giovani ed i nuovi ceti medi “post-materialisti” (problematiche di genere, ambientalismo, democrazia diretta), per il rischio di perdere i contatti con l’elettorato tradizionale dei lavoratori manuali più anziani, attratto anche dai populismi xenofobi.

Tuttavia mi sembra che la lettura di Inglehart sulla storia della sinistra europea sia troppo schematica, per esempio per l’accento da lui posto sulla tematica della “proprietà pubblica di mezzi di produzione”, che in realtà si è estinta abbastanza presto, nei primi decenni post-bellici, e per la difficoltà a spiegare come comunque il “quadrante”  tra sinistra e nuovo polo “post-materialista” sia assai più fecondamente frequentato (vedi quanto meno in Germania e Francia) del contiguo quadrante tra destra e nuovo polo (forse l’asse non è così “ortogonale”?).

Peculiare l’errore storico, a pag.118, circa i post-comunisti italiani: Inglehart attribuisce il passaggio dalla sconfitta del 1994 al successo del 1996 ad un mutamento programmatico del PdS, mentre a mio avviso – a parità di evoluzione programmatica - vi fu soprattutto la formazione di un sistema di alleanze (in verità assai fragile) più consono alla legge elettorale maggioritaria, in una fase di temporaneo indebolimento dei legami Lega/Berlusconi sul fronte di destra.

Di specifico interesse mi è parsa, inoltre, la digressione iniziale sulla compresenza e divergenza tra il fenomeno effettivo della “post-modernità” (vedi quanto sopra riassunto come “post-materialismo”) e le ideologie dei pensatori post-moderni – Lyotard, Derrida -  che Inglehart  espone nel cap. I, mostrando di non ritenerli effettivamente rappresentativi della realtà in esame.

venerdì 23 agosto 2013

GALLINO E BISMARCK


Ho apprezzato molto “Finanz-capitalismo” (vedi mio blog “relativamente, sì”) ma non mi sento di seguire Luciano Gallino nel proclama anti-Merkel  su “La Repubblica del 22 agosto 2013.

Va bene contestare l’erronea linea dell’austerity che non fa uscire dalla crisi dopo i trilioni  impiegati per salvare le banche (che la crisi l’hanno creata), va benissimo segnalare i misconosciuti vantaggi della Germania di oggi nel cambio favorevole Euro/altre monete e sul differenziale dei tassi di interesse: ma non condivido di rinfacciare ai tedeschi, nel 2013, il mancato saldo dei “debiti di guerra” imposti dalla Francia nel 1919 in misura esorbitante (laddove la Germania aveva solo il torto di aver perso la 1^ guerra mondiale).

E’ vero che per spiegare il trattato di Versailles dovremmo risalire all’iniquità di Bismark al termine della guerra franco-prussiana del 1870, ma chi si ferma più? (Napoleone… Giulio Cesare …?).

L’Europa dovrebbe essere fatta per superare e dimenticare queste brutte storie, non per rinvangarle.

Aldo Vecchi

venerdì 16 agosto 2013

SENTENZA POLITICA

L’impressione prevalente è che non se ne può più di parlare di Berlusconi e di quel che farà, e tanto meno di ascoltare i suoi seguaci, sia falchi che colombe, a piangere sui complotti giudiziari subiti e a sollecitare clemenza per un leader così tanto amato e votato, ed una riforma della giustizia in favore di Barabba.

Ed anche che tutto sia già stato detto.

Anche il Presidente Napolitano ha voluto trattare l’argomento in lungo e in largo, dicendo per lo più cose sagge, e che dovrebbero anche essere scontate (ma in Italia così non è), del tipo che vige la separazione dei poteri, e le sentenze vanno rispettate.

Mi sento di condividere quasi tutte le affermazioni del Presidente, tranne la sua eccessiva affezione per l’attuale governo, affezione che va oltre il ruolo arbitrale affidato al Quirinale dalla Costituzione vigente, ma che è intimamente connotata allo specifico e anomalo mandato parlamentare di rielezione di Napolitano; e d’altronde obiettivamente di alternative al momento non se ne vedono (anche Civati ha esplorato a vuoto gli scranni dei parlamentari del M5S).

L’accenno ad una possibile grazia può preoccupare (anche considerando i precedenti di Sallusti e del capo del manipolo della CIA che rapì Abu Omar, tra le 23 – e cioè poche - grazie concesse da questo Presidente): ma non pare imminente e difficilmente potrebbe salvare – oltre alla persona di un Berlusconi “contrito” – il suo attuale ruolo politico. 

Quello che il comunicato di Napolitano non dice, e che invece mi piacerebbe sentire dalle supreme istituzioni, è quell’altra cosa, ovvia, ma a mio avviso fondamentale e cioè il carattere “politico” non solo della sentenza (per i suoi effetti, e grazie all’immarcescibile sostegno a Berlusconi da parte dei suoi adepti), ma soprattutto del reato contestato: frodare l’agenzia delle Entrate (oltre che gli azionisti Mediaset) per costituire riserve di capitali illecite ed oscure nei “paradisi fiscali” è un comportamento che colpisce i cittadini italiani ed i loro diritti politici in modo molteplice:

-          perché i soldi sottratti al fisco sono sottratti ai contribuenti onesti

-          perché i capitali “off shore” condizionano pesantemente gli andamenti finanziari e influiscono negativamente sull’economia reale, dallo “spread” ai livelli di occupazione e di retribuzione

-          perché i fondi neri possono rientrare illegalmente in Italia non solo per un “utilizzo finale” della prostituzione (che comunque lede la dignità della donna e dell’uomo) ma anche – ad esempio – per comprare senatori o influenzare occultamente in altri modi il leale gioco politico.

Non mi interessa più di tanto (se non per l’equità rispetto agli altri condannati) che il condannato Berlusconi sconti la sua pena in carcere, in villa o in servizi più o meno sociali, ma che finisca questa sconcia alterazione dello scontro politico, dalla predominanza sui mezzi di comunicazione all’utilizzo di fondi occulti.

Penso che interessi anche alle supreme istituzioni.

Mi auguro (invano?) che possa interessare anche ad una maggioranza tra gli elettori.

 

lunedì 5 agosto 2013

ALCUNE PRECISAZIONI SUL 68 E DINTORNI, AD ARCHITETTURA DI MILANO


Caro Giancarlo,
ho ricevuto con piacere ed ho letto con attenzione il Tuo saggio storico, 
Giancarlo Consonni Il ’68 di Milano-Architettura. Tutti i giorni per oltre un decennio in Aa. VV., Le istituzioni universitarie e il Sessantotto, a cura di Alessandro Breccia, Clueb, Bologna 2013, pp. 95-106. 
che mi sembra rappresenti bene l’insieme della vicenda da prima  del 63 al 68.
Mi permetto di segnalarTi (e di estendere ad alcuni altri reduci di quegli anni, con il Tuo testo) qualche appunto sul versante “studenti e politica”:
-          nella nota 13 a pag. 4 , parlando dell’occupazione del 1967, enunci come “rapido” lo svuotamento delle associazioni tradizionali (UGI-AGI-Intesa): in realtà, entrando in facoltà nell’autunno del ’67, le ho ritrovate ancora abbastanza identificate, seppur unitarie, e ne collocherei l’effettivo svuotamento solo a ’68 ben inoltrato;
-          a proposito di ’68, non concordo con la Tua interpretazione delle linee di fratture nel movimento degli studenti secondo criteri generazionali (pag. 6): in quella fase (rammento in proposito un intervento assembleare di Cristoforo Bono sulle 2 “weltanschauung”) c’erano giovani e anziani sia tra i “riformisti” (linea Di Maio), sia tra i “rivoluzionari” (Origoni, Bozzolati, Bonfanti, ecc.)
o   ad esempio, con i moderati stavo allora anch’io, come molte “matricole”, anche perché un po’ frastornati da troppe Weltanschauung (e meno preparati di Cris Bono in materia):
o   tra i “massimalisti” c’era anche Silvano Bassetti – anche se per lo più agiva a Roma, ancora per l’Intesa -  e non era certamente l’unico tra gli iscritti del 4°e 5° anno, ed anche tra gli assistenti od aspiranti tali (i futuri “docenti subalterni”)
la divisione maturava – come anche tu rilevi - nella priorità da assegnare o meno ad un discorso più specifico e disciplinare rispetto ad istanze politiche più generali; e ritengo che la progressiva radicalizzazione del movimento sia derivata soprattutto dalla risposta repressiva delle istituzioni, sia accademiche (linea Finzi/Gui) che politico-poliziesche (da largo Gemelli a Valle Giulia), culminata poi per la nostra facoltà con l’annullamento della sessione di esami “sperimentali” e la destituzione di De Carli;
anche se nella politica studentesca era fisiologico un continuo ricambio per classi di età, non ricordo nessuna spinta alla “rottamazione” (per usare un concetto di oggi), nemmeno verso i professori, salvo che ricadessero variamente nella categoria dei “reazionari”;
-          sempre a pag. 6, Tu introduci il soggetto “Autonomia operaia” appena dopo il ’68, mentre a mio avviso tale forma politica affiora solo dopo il 1972-73, come frazione o scivolamento di alcuni gruppi operaisti in precedenza raccolti in Lotta Continua e Potere Operaio; né è testimonianza anche il nome “Collettivo Autonomo” del gruppuscolo cui aderii nel 1971, la cui autonomia era inizialmente solo “autonomia dal Movimento Studentesco della Statale”;
-          riguardo all’ala “estremista”, che (a pag. 7) Tu leggi come interessata in prevalenza al reclutamento di militanti per finalità esterne all’università, ciò mi sembra vero solo per il periodo autunno 69 – autunno ’70, perché la specifica storia sia del “Movimento Studentesco” (quello, con le maiuscole, della Statale e di Origoni, e quindi di parte dell’ala estremista del 68-69) sia del Collettivo Autonomo (e poi della riorganizzazione di Lotta Continua all’interno degli atenei, a partire dal convegno di Pavia, mi pare nella primavera del 1972 – chiedere a Guido Crainz, che ora è storico di professione -), è una storia di contrapposizioni (forse anche sterili), ma interne al corpo vivo della componente studentesca, ed anche – in qualche misura – al dibattito disciplinare, da cui pure arrivammo a proclamare una “estraneità cosciente” (su questo tema più complesso mi riservo di ritornare quando proseguirò con la mia privata ricostruzione autobiografica, che per ora è arrivata solo all’inizio del Liceo).
Cordialissimi saluti.
Aldo

PETIZIONE "VOGLIONO STRAVOLGERE LA COSTITUZIONE"



Caro Antonio (Padellaro),
Ti rispondo dandoTi del Tu, come tu Fai, tramite change,org, chiamandomi a firmare la petizione contro le modifiche all’art. 138.
Anche se il Tuo appello ha già raccolto forti  umeri e prestigiose adesioni, non sono d'accordo:
- con la critica "nel mucchio" ai parlamentari "nominati" (il PD ha fatto le primarie per buona parte dei seggi, il M5S le parlamentarie, e insieme sono la maggioranza degli eletti)
- con la delegittimazione del Parlamento, pur eletto con il Porcellum: se non è valido questo Parlamento,  nemmeno può correggere, ad esempio,  lo stesso Porcellum
 - con la demonizzazione dell'ultima versione delle modifiche proposte all'art. 138, che anzi ampliano il ricorso al referendum e nulla relegano al segreto: di “strano” prevedono solo una Commissione Bicamerale e intervalli di attesa più brevi: discutibile ma non certo catastrofico
- con l'identificazione tra la procedura avviata e il paventato esito presidenzialista, che è tutto da giocare (semmai schieriamoci lì, se mai ci si arrivasse, visti anche altri scricchiolii per le larghe intese).
Ciao
Aldo (Vecchi)