In particolare il
testo descrive ed analizza gli esiti dei rilevamenti del 1981 e del 1990,
affiancandoli ad alcuni risultati – per il solo campo dell’Europa comunitaria –
del cosiddetto “Eurobarometro” e ad altre ricerche più puntuali.
Anche se le
valutazioni di Inglehart e collaboratori sono intrecciate con la lettura di altri
dati statistici “oggettivi” (ad esempio la crescita del PIL, la demografia, i
rivolgimenti politico-istituzionali), la materia prima dello studio è costituita
dalle “opinioni” della popolazione, rilevate tramite questionari a campione, ed
in particolare dai valori medi a livello nazionale (e talora a livello locale) delle
diverse risposte, confrontate con quelle delle altre nazioni e nel divenire
temporale, in parte anche prima del 1981 e dopo il 1990 (ma purtroppo non dopo
il 1996, data della ricerca, la quale pertanto ha potuto misurarsi solo con
alcune recessioni cicliche del secondo ‘900 in singole aree geografiche, ma non
con il tema della grande recessione successiva al 2007).
La fede di Inglehart e
degli altri ricercatori nelle opinioni e
nelle “medie” risulta priva di qualsivoglia forma di dubbio, riserva o
“istruzione per l’uso”: per esempio tra gli indicatori assunti figura la
risposta a quesiti circa l’adesione degli intervistati ad organismi di
volontariato, senza che vi sia alcun riscontro sul dato oggettivo delle iscrizioni
effettive a tali associazioni; in
generale non si da peso alla preoccupazione circa l’attendibilità delle riposte
e circa le distorsioni tipiche che alcuni sondaggi comportano; le medie
nazionali – ammette Inglehart - rischiano di rafforzare stereotipi e luoghi
comuni, ma il rischio viene accettato senza specifici rimedi (quali ad esempio
la rilevazione dell’ampiezza degli scostamenti rispetto alle stesse medie):
pare che la raffinatezza degli algoritmi di calcolo appaghi i ricercatori
riguardo alla scientificità del loro lavoro, come spesso accade negli ambiti
specialistici.
(Accettando il
criterio delle medie nazionali, appare alquanto affascinante la ricomposizione
della costellazione dei risultati nelle illustrazioni tabellari, ovvero nello
spazio cartesiano delle matrici dei dati: le nazioni formano nuove arcipelaghi
ed i continenti sperimentano nuove derive nei quadranti delle opinioni).
L’assunto di fondo
della ricerca consiste nella individuazione di un percorso “tipico” (e quindi
addirittura prevedibile, per il futuro delle nazioni ancora sotto-sviluppate) nel
processo di sviluppo economico delle singole nazioni, evidenziando che – salvo
eccezioni, spiegate soprattutto con l’incertezza determinata da rivolgimenti
politico-istituzionali (ad esempio Sud Africa ed Est Europa) - :
-
nel passaggio dall’economia di sopravvivenza
al decollo industriale si rilevano mutamenti nel sistema di pensiero, correlati
al venir meno della preoccupazione basilare per la sussistenza, con l’abbandono
delle ideologie tradizionali (in materia di religione, famiglia, autorità) e
l’istaurazione di criteri “legal-razionali”, ma molto legati agli aspetti
materiali dell’esistenza e con una prevalenza di componenti autoritario-burocratici;
-
con il successivo raggiungimento di livelli
diffusi di benessere materiale e quindi con il calare della “utilità marginale”
della maggior ricchezza, insorgono invece valori cosiddetti “post-materialisti”
o postmoderni, come l’attenzione alla libertà individuale (propria e altrui),
all’ambiente ed alla qualità della vita, e l’insofferenza verso lo statalismo e
l’eccesso di burocrazia (ed anche verso i partiti di massa): tra questi valori si
afferma una qualche rivalutazione della
famiglia e della religione, ma non in
termini di riproposizione della cultura tradizionale (altra cosa è la rinascita
dei fondamentalismi religiosi, che Inglehart vede come reazioni marginali alla
progressiva secolarizzazione, forti solo in contesti ancora privi di una
effettiva modernizzazione: tesi discutibile, ed in effetti contrastata da altri
e diversissimi autori, da Samuel P. Huntington a Ulrich Beck));
-
i mutamenti nel sistema di opinioni
non sono lineari, ma subentrano con i ricambi generazionali, perché l’assetto
ideologico delle persone si “cristallizza” per lo più all’età della formazione
e poi tende a conservarsi con limitati aggiornamenti.
Altro aspetto
ampiamente indagato è la natura delle correlazioni tra cultura e sviluppo, con
una interpretazione che tende a superare la contrapposizione tra Marx (la
struttura determina la sovrastruttura) e Weber (lo sviluppo capitalistico come
prodotto dell’etica calvinista), rilevando invece le reciproche interferenze
tra progresso materiale ed evoluzione culturale, soprattutto in termini di
attenzione alle propensioni culturali, quali ad esempio la motivazione
individuale al successo (contrastata spesso dalle culture religiose tradizionali)
come premessa rilevante per lo sviluppo socio-economico.
Anche i rapporti tra
le istituzioni democratiche ed il necessario substrato culturale di lungo
periodo (ad esempio gli indicatori della fiducia nel prossimo e della
partecipazioni ad associazioni), in relazione
con lo sviluppo economico, sono studiati come interrelazioni aperte e
non univoche (ad esempio risulta difficile la democrazia senza benessere,
mentre è possibile il progresso economico senza democrazia).
Mi sono sembrati
molto interessanti (anche in relazione al testo di Revelli), ma non del tutto
convincenti, gli sviluppi della ricerca sui valori post-materialisti in campo
politico, con le seguenti affermazioni principali:
-
l’apprezzamento per la democrazia
sarebbe comunque in crescita, pur in presenza di disaffezione al voto ed alla
vita dei grandi partiti, perché nel frattempo aumenta l’attivismo e la
partecipazione ad iniziative di tipo diretto
-
l’ecologismo (con agli antipodi i
localismi xenofobi di reazione alla modernità) si porrebbe come un nuovo asse
discriminante, “ortogonale” alla tradizionale polarizzazione destra/sinistra.
L’analisi, riferita
soprattutto all’Europa Occidentale (perché negli USA il bipartitismo
formalmente tiene di più, anche per il sistema elettorale iper-maggioritario),
coglie abbastanza bene la problematica specifica delle leadership dei partiti
di sinistra, costretti a non correre troppo avanti, verso i giovani ed i nuovi
ceti medi “post-materialisti” (problematiche di genere, ambientalismo,
democrazia diretta), per il rischio di perdere i contatti con l’elettorato
tradizionale dei lavoratori manuali più anziani, attratto anche dai populismi
xenofobi.
Tuttavia mi sembra
che la lettura di Inglehart sulla storia della sinistra europea sia troppo
schematica, per esempio per l’accento da lui posto sulla tematica della
“proprietà pubblica di mezzi di produzione”, che in realtà si è estinta
abbastanza presto, nei primi decenni post-bellici, e per la difficoltà a
spiegare come comunque il “quadrante”
tra sinistra e nuovo polo “post-materialista” sia assai più fecondamente
frequentato (vedi quanto meno in Germania e Francia) del contiguo quadrante tra
destra e nuovo polo (forse l’asse non è così “ortogonale”?).
Peculiare l’errore
storico, a pag.118, circa i post-comunisti italiani: Inglehart attribuisce il
passaggio dalla sconfitta del 1994 al successo del 1996 ad un mutamento
programmatico del PdS, mentre a mio avviso – a parità di evoluzione
programmatica - vi fu soprattutto la formazione di un sistema di alleanze (in
verità assai fragile) più consono alla legge elettorale maggioritaria, in una
fase di temporaneo indebolimento dei legami Lega/Berlusconi sul fronte di
destra.
Di specifico
interesse mi è parsa, inoltre, la digressione iniziale sulla compresenza e
divergenza tra il fenomeno effettivo della “post-modernità” (vedi quanto sopra
riassunto come “post-materialismo”) e le ideologie dei pensatori post-moderni –
Lyotard, Derrida - che Inglehart espone nel cap. I, mostrando di non ritenerli effettivamente
rappresentativi della realtà in esame.
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