Di
David Graeber, antropologo americano del dissenso e teorico movimento “Occupy
Wall Street”, ho dedicato impegno a
leggere e recensire “Critica della democrazia occidentale” e “Debito – i primi
5.000 anni”, che ho ritenuto molto stimolanti (a fronte della dominante
rimozione dei conflitti sociali oppure di una stanca riproposizione del marxismo
classico ed economicista, ed anche per curiosità verso “Occupy Wall Street”), pur non
condividendo diverse valutazioni e conclusioni.
Tantomeno
ho apprezzato la prefazione di Stefano Boni a “Critica della democrazia
occidentale“, cui ho attribuito una interpretazione forzata di Graeber come
maestro dello scontro “antagonista” al centro della scena mediatica, lontana da quelle che mi erano sembrate le
proposte, velleitarie, ma “decentrate”, dello stesso Graeber nelle parti in
qualche modo propositive dei 2 testi: una democrazia diretta in comunità locali
“zapatiste” nel primo ed una rivoluzione diffusa dei debitori “a partire
dall’Irak” nel secondo.
Il
brano da un nuovo saggio di Graeber, pubblicato su “l’Unità” del 27 novembre
scorso, mi fa invece ricredere in favore di Stefano Boni (come giusto
interprete) e contro Boni (per la mia distanza dai contenuti proposti), perché
Graeber si diletta ad approfondire la dialettica dello scontro di piazza tra il
monopolio statale della violenza (polizia) e la fantasia creatrice della
ribellione anarchica, il cui punto di forza è essenzialmente la
de-mistificazione dell’ideologia repressiva del potere (il re è nudo).
Anche
se la narrazione di Graeber è brillante, non mi pare che aggiunga (almeno in
quel brano, che però non mi attira a leggere il testo intero) un gran ché a
quello che già abbiamo imparato su potere e contro-potere, monumenti e pupazzi,
uomini e caporali, e sui valori teatrali
ed evocativi delle manifestazioni e degli scontri di piazza (da Marx a Manzoni,
da Brecht a Canetti, da Totò a Dario Fo, da Foucault a Debord, ecc. ecc., fino
ad Adriano Sofri ed al Movimento Studentesco di Capanna e Toscano).In questi giorni stiamo vedendo in diretta nuovi esempi di lotta fisica per il potere tramite accerchiamento e invasione dei palazzi di regime, in Ucraina ed in Thailandia (emblematica la foto di elmi e scudi abbandonati dai poliziotti), e pochi anni orsono così è crollato Milosevic a Belgrado (diversi i movimenti di piazza delle “primavere arabe” e della caduta del blocco sovietico culminata nel 1989): in tali contesti le riflessioni di Greaber possono venire utili, e l’aspetto militare del potere e del contro-potere è una imprescindibile chiave di lettura della storia, e purtroppo può tornare in auge anche in un nostro futuro, se la crisi socio-economica continua a procedere indisturbata.
Tuttavia non capisco quanto sia produttivo, a fronte della complessità delle società occidentali (complessità economica e sociale, politica ed antropologica), focalizzare l’attenzione sullo scontro di piazza: si pensa di acquisire l’egemonia sulle masse attraverso la teatralità (e la ricaduta mediatica) degli scontri delle avanguardie? Oppure ancora più banalmente di conquistare il potere con la canna del fucile (come se il potere stesse lì buono buono – od anche cattivo - ad abitare nei palazzi, di inverno o meno, e non fosse invece maledettamente articolato e diffuso, anche “in seno al popolo”)?
Se Occupy Wall Street intende rappresentare il 99% della popolazione, ma riesce a raccogliere nelle aiuole delle metropoli meno dello 0,1%, non è il caso di pensare ad altre forme, più decentrate ed efficaci, di accumulazione di “contro-potere” (disdegnando o meno i vecchi corpi intermedi, tipo sindacati e partiti), valorizzando la presenza potenzialmente capillare delle avanguardie nella rete informativa, tra i cittadini, tra i consumatori, tra i produttori?
Una
credibile opposizione, radicale e di massa, e tranquillamente non-violenta,
potrebbe fare molta più paura a Wall Street, a mio avviso, orientando comportamenti alternativi nell’uso
della ”rete”, negli acquisti, nei depositi bancari, nei contratti per
luce/gas/telefonia, in nuove forme di sciopero in difesa – ovunque possibile
–della dignità dei lavoratori.
Una
anarchia (ed una antropologia…) che mirano ad “abbattere lo stato” attraverso
la “propaganda armata” delle avanguardie, piuttosto che a diffondere nuove
forme di lotta e di consapevolezza alla base della società, assumono di fatto
toni tardo-leninisti (vicini anche al filone Potere Operaio/Brigate Rosse).Mi sembra più utile rileggere Gramsci, meglio se con l’ausilio di Luciano Gallino e di Manuel Castells, e di altri studiosi del capitalismo post-moderno e della “società in rete”; e anche di antropologia, a partire da Zygmunt Bauman.
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