Di solito quando leggo un editoriale di Luca Ricolfi su “La Stampa”, mi
aspetto che dica “io sono di sinistra, ma la sinistra sbaglia, perché ecc.”; di
solito il “perché ecc.” è di destra, e io mi rafforzo tranquillamente nelle
opposte opinioni: in breve, per me Ricolfi è un “sedicente di sinistra”
tranquillizzante, tanto che spesso faccio a meno di leggerlo.
Il recente articolo “Cinque
Stelle, l’illusione iperdemocratica” mi è invece stranamente sembrato
interessante (anche se solo in parte originale), anche perché per una volta si
è dimenticato di criticare le radici marxiste della sinistra, limitandosi a
parlar male del ’68 (su un aspetto su cui
mi sento disponibile ad una specifica autocritica: l’assemblearismo
autoreferenziale).
Tema su cui Ricolfi arriva dopo
aver (a mio avviso correttamente) negato caratteri fascisti o stalinisti al
M5S, attribuendogli invece patente di non-violento ed iper-democratico.
Sulla patente di “non-violento”
non concordo fino in fondo: non perché sopravvaluti “qualche spintone in
Parlamento” (come dice Ricolfi), ma perché a mio avviso l’atteggiamento
ideologico totalitario del M5S, e cioè la pretesa di rappresentare “tutti i
cittadini” e la speranza di conquistare perciò il “100%” del Parlamento,
distruggendo ogni altro partito implicano in sé una dose di presunzione
concettuale oggettivamente “violenta”, che per ora fortunatamente si esprime
solo a livello verbale (“voi siete gnente”, come dice l’on. Taverna): la
non-violenza, mi pare ci abbiano insegnato Gandhi e Mandela, comporta invece la
comprensione degli altri e dei loro interessi e punti di vista, che pura si
intende strenuamente combattere.
La questione
dell’iper-democratismo, per Ricolfi, si fonda storicamente:
- sull’assemblearismo del ’68,
che coinvolgeva consistenti minoranze di studenti, presenti e militanti, ma
ignorava e/o disprezzava le restanti ”maggioranze silenziose”, privilegiando
l’impegno dei militanti (non è l’unico difetto
del ’68 e non ne cancella i pregi: mi pare di ricordare tuttavia che parte del
movimento ne fosse consapevole e abbia cercato, forse invano di colmare le
distanze: ad esempio nel 71, nelle lotte contro il primo crack dello “stato
sociale”, che si palesò nella limitazione del numero delle borse di studio –
ovvero “pre-salario”- , a prescindere dalla crescita dei bisogni);
- sull’apertura dei media al
protagonismo del pubblico (simbolizzato secondo Ricolfi dalle telefonate a
“Chiamate Roma 3131”), che avrebbe
portato – uso parole mie - ad un progressivo prevalere delle emozioni dell’uomo
della strada sulle competenze degli esperti (compresi, secondo Ricolfi, i
necessari “politici di professione”).
Fin qui concordo in parte (vedi diversi
precedenti “post”).
Ricolfi conclude quindi con una
lunga sparata contro ogni forma di democrazia diretta e sulla irreversibilità
della opzione verso la democrazia rappresentativa, anche in nome del “diritto”
del cittadino comune a delegare e a non partecipare personalmente alla gestione
della cosa pubblica.
Io invece mi permetto di
coltivare qualche dubbio in proposito: la scorciatoia totalizzante del M5S verso
la “democrazia diretta in rete” si sta rivelando una pericolosa pagliacciata,
che rischia non solo di far male alle vigenti istituzioni, ma anche di
sputtanare per qualche decennio anche il nocciolo buono delle proposte di
trasparenza e partecipazione; ma la crisi della democrazia rappresentativa è
troppo ampia, profonda e duratura (e non provocata solo dagli eccessi della
nuova opposizione “iper-democratica) per non riflettere a fondo da un lato alle sue probabili evoluzioni ed
involuzioni e dall’altro alla cauta introduzione di possibili correttivi anche
radicali.
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