giovedì 27 marzo 2014

7° NON RUBARE DI PAOLO PRODI

“Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente” di Paolo Prodi – Il Mulino, 2009, € 29,00, pagg. 396 – costituisce un poderoso affresco sulle trasformazioni dell’Europa e sulle contrapposizioni dialettiche tra potere civile, potere religioso e potere economico dalla dissoluzione dell’Impero Romano ai giorni nostri.

L’assunto del testo (ampio e ben leggibile anche se ricco di richiami ad una vastissima bibliografia e di citazioni, comprese quelle non tradotte dal latino ed altre lingue) è ben spiegato dallo stesso Autore all’inizio dell’ultimo capitolo: “Il processo di separazione tra il potere sacro e quello politico che ha caratterizzato dopo la fine del primo millennio la civiltà europea ---- ha permesso anche la nascita di un potere economico distinto dal potere politico in quanto legato a un capitale mobile non coincidente con il dominio o il controllo della terra --- elemento essenziale di partenza per permettere la fondazione del sistema democratico e liberale ----“.

Paolo Prodi cerca di superare le barriere specialistiche tra i diversi filoni di studi storici, orientati rispettivamente al diritto o all’economia, ai ‘fatti’ oppure alle ‘idee’, e di evidenziare i mutevoli rapporti tra le forze in campo nell’ultimo millennio, privilegiando come tema di verifica dei cambiamenti sociali il tema della trasgressione ai precetti e alle norme in materia economica e delle relative sanzioni: pertanto la nozione e la percezione del “furto” (non solo in quanto ‘sottrazione di cose altrui’, ma anche come avidità, usura, frode, prevaricazione sul mercato ed infine evasione del fisco), dapprima come “peccato”, poi man mano anche come “colpa” (rispetto all’etica ‘professionale’) e come “reato” (con l’evolversi ed il crescere della legislazione civile).
Pertanto tra le fonti di Prodi rivestono un ruolo centrale, ma con importanza decrescente, i testi ecclesiastici ed in particolare i ‘manuali dei confessori’, riguardo alla classificazione delle infrazioni al 7° comandamento (con la faticosa sublimazione del tasso di interesse fuori dal campo dell’usura), mentre a partire dalla affermazione nel tardo medioevo di una prima “repubblica internazionale del denaro” (con le sue fiere di cambio ed una sua sorta di “lex mercatoria”)  e dalla rottura della cristianità con gli scismi protestanti, ed il contestuale sorgere degli stati ‘moderni’, la materia di studio si allarga ad un insieme assai più complesso di dati e di testi. 
Gli intrecci ed i conflitti tra ‘stati’ e ‘mercati’ sono profondamente indagati dall’Autore, che ne coglie l’alterna oscillazione, portatrice da un lato dei benefici effetti in materia di crescita dei diritti individuali e sociali, necessaria per la nuova legittimazione del potere, e dall’altro di pericolose derive sia in termini di oppressione autoritaria che di strapotere monopolistici:
-          dall’estremo del Guicciardini, che – attorno al 1530 scrive “--- el duca di Ferrara che fa mercatanzia, non solo fa cosa vergognosa, ma è tiranno, faccendo quello che è officio de’ privati e non suo: e pecca tanto verso i populi, quanto peccherebbero e populi verso di lui intromettendosi in quello che è officio solum del principe”, rilevando però che nei fatti già esisteva lo stato mercantile,
-          all’estremo opposto di Fichte, che quasi 3 secoli dopo sostiene (riepilogo in italiano di Prodi): “L’economia e il commercio non possono non coincidere con la nazione-patria, con le sue istituzioni, con i suoi costumi, con la sua Polizei”, considerando “i commercianti alla strega di funzionari statali ---“ .

A margine delle argomentazioni principali, nel testo  si aprono frequenti finestre su temi collaterali, non sviluppati, ma stimolanti, tra cui (i primi due anche in rapporto alla mia precedente lettura del successivo testo del Graeber sul “debito”):   
- la assimilazione del furto e del debito nella colpa e nel reato, la grande espansione e poi il superamento della galera per i debitori;
- l’importanza del colonialismo e dell’imperialismo per il consolidamento dei grandi stati europei (non è affrontato invece specificamente il connesso tema dello schiavismo); 
- l’accenno ad una interpretazione dell’antisemitismo e della stessa shoah come estrema espressione dello statalismo contro la “repubblica internazionale degli affari”, incarnata dall’ebraismo;
- una lettura aperta ed assai problematica della situazione attuale e dei possibili sviluppi: Prodi non vede nella “globalizzazione” una riedizione della “repubblica medievale dei mercanti”, bensì un intreccio confuso tra potere economico e potere politico (vedi ad esempio i “fondi sovrani”) che rischia di negare sia la fisiologia dei mercati sia le libertà democratiche (con l’Italia come utile paradigma degli oscuri intrecci).

Inchinandomi davanti all’autorevolezza del testo e aderendo alle sue dialettiche aperture, mi permetto di avanzare solo una critica marginale, riguardo all’economia nella storia “antica”, che mi sembra sia indagata da Paolo Prodi solo attraverso gli occhi dei teorici del tempo (pur autorevoli, come Aristotele o Cicerone) e non con altri strumenti (usati invece per il periodo successivo): il mio sospetto è che anche nell’antichità, pur in assenza di un autonomo potere economico, con adeguato prestigio sociale  e coerente ‘copertura ideologica’, alcune leggi oggettive dei mercati, come in seguito delineate, già di fatto dovessero funzionare, per sorreggere l’ampia rete di scambi in atto, sia pure sotto l’egida dei poteri dell’aristocrazia terriera e militare.

Contestualmente ho letto anche il più breve “Non rubare“ – collana “I comandamenti” Il Mulino, 2010, € 12,00, pagg. 169- , scritto dallo stesso Paolo Prodi, che riassume il più ampio testo di cui sopra in un agevole “bigino” e da Guido Rossi, che nella sua parte osserva da una angolazione laica la crescente deriva “immorale” del capitalismo finanziario, vedendola – mi par di capire – come una tendenza intrinseca ed irreversibile, e lasciando pertanto poche speranze di redenzione.

Anche Prodi, nella conclusione del testo maggiore, non sembra affatto “ottimista”: ma la sua visione storica di una continua contrapposizione di forze contrastanti mi sembra lasci aperte diverse prospettive potenziali.

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