lunedì 27 ottobre 2014

VERSO UNA BUONA SCUOLA?

Voglia di parlar bene del Governo Renzi non ne viene molta, dal “Jobs act” allo “Sblocca Italia”, e dopo la Leopolda-5, ma – per coerenza con il mio assunto relativista ed anti-pregiudiziale -  non posso esimermi da una valutazione serena di altri provvedimenti dello stesso Governo.
In attesa di capire meglio la “legge di stabilità”, che sta al centro di tutto, mi sono applicato con pazienza alla lettura integrale delle proposte per la “buona scuola”, superando il disagio della retorica millenaristica (riferita ai 1000 giorni) del portale propagandistico governativo “passo dopo passo”.
Il testo sulla scuola – attualmente sottoposto ad apprezzabile pubblica consultazione (mi sono anche sobbarcato il questionario) - infatti mi sembra invece piuttosto serio, corposo e documentato, e ben leggibile, malgrado alcuni inutili anglicismi e un po’di vezzi da specialisti pedagogici.

La premessa del testo è che investire risorse sulla formazione sia decisivo per ridurre la disoccupazione: il che mi pare molto condivisibile se si intende che a medio termine la qualità delle risorse umane consente migliori prestazioni all’intero sistema/paese, meno condivisibile invece  se si vuole illudere gli studenti che a breve termine una migliore qualificazione possa garantire più occupazione non solo in singoli casi o specifici settori (e forse in un maggior capacità di auto-imprenditorialità), ma addirittura all’insieme dei giovani in cerca di lavoro (perché a mio avviso una migliore istruzione non riesce a modificare in pochi anni gli squilibri macro-economici in atto).

Il nocciolo della proposta governativa per una “buona scuola” consiste nella promessa di assunzione in ruolo di gran parte dei precari attualmente in servizio, per arrivare ad assegnare ad ogni scuola, sulla base dei fabbisogni (numero di alunni effettivi e tendenziali) un organico non risicato ma leggermente sovrabbondante, idoneo a riassorbire al suo interno distacchi funzionali (vice-presidi e tutors), “spezzoni” di cattedre, supplenze lunghe e brevi, e offerte didattiche integrative, rafforzando concretamente l’autonomia scolastica da diversi anni a vuoto proclamata e dando spazio a modulazioni più flessibili di classi ed orari.
Tali risorse dovrebbero consentire alle scuole anche di estendere gli orari di apertura delle scuole e di lezione (tempo pieno), di affrontare l’evasione scolastica, di progettare iniziative di educazione per gli adulti (in merito mi permetto di dubitare sull’automatico conseguire di tali progressi dal mero consolidamento degli organici).

I principali corollari della proposta (riassumendo in breve un documento di oltre 130 pagine) mi sembrano essere:
-          il superamento degli scatti automatici di anzianità (già scomparsi da decenni nel resto del pubblico impiego) con l’avvio di meccanismi di carriera più selettivi (pur sempre discutibili riguardo ai criteri di valutazione ed ai soggetti che dovranno attuarla, affiancando i dirigenti scolastici)
-          la determinazione in 2/3 della quota fissa, per ogni istituto, dei docenti che riceveranno gli aumenti a cadenza periodica, con l’ipotesi che tale limite costante (ed astratto e perciò poco accettabile) inneschi di per se un processo di concorrenza tra istituti, perché i docenti esclusi dagli “scatti” in una scuola “forte” (cioè con tanti professori con buoni curricula) sarebbero spinti a trasferirsi in una scuola “debole” per trovarvi maggiore fortuna (personalmente ci credo poco, perché molti altri sono i motivi di trasferimento o non-trasferimento delle persone, a fronte del solo incentivo degli “scatti” economici, e perché scuole con insegnanti “deboli”, premiati benché a basso punteggio, potrebbero risultare – ad esempio - le scuole socialmente difficili, e probabilmente non saranno comunque molto ambite);
-          l’approdo, dopo l’immissione ope legis degli attuali precari, ad un processo ordinario di reclutamento dei nuovi docenti tramite corsi-concorsi e tirocini guidati;
-          lo spostamento dell’asse culturale non solo verso la “modernità” (riassorbendo con altri nomi le tre I berlusconiane: Informatica, Impresa, Inglese) ma anche verso una maggiore “umanità”, con la triade Musica Arte Sport (in concreto però poche ore settimanali);
-          la conferma della volontà di confrontarsi con le imprese presenti sul territorio, per sperimentare maggiori esperienze di alternanza tra scuola e lavoro;
-          massicce dosi di trasparenza “on line” su tutto quanto sopra, a partire dai curricula dei docenti e dalle graduatorie delle nuove progressioni di carriera.

Oltre alle note in corsivo che ho sopra interposto, ritengo di esprimere le seguenti considerazioni, guardando anche a ciò che manca nel documento governativo (che comunque mi sembra una solida e positiva base di partenza) e che a mio avviso sarebbe necessario perché la scuola (e la società) diventino davvero migliori:
-          il segno complessivo della proposta si dovrà leggere misurando le risorse aggiuntive effettivamente assegnate alla scuola (nonché all’università e alla ricerca), tenendo conto dei tagli nel frattempo prospettati della Legge di Stabilità del medesimo Governo;
-          l’autonomia dei singoli istituti e delle nuove aggregazioni ipotizzate è positiva, ma a mio avviso insufficiente per aggredire gli storici ritardi della scuola italiana riguardo all’evasione e alla mancata elevazione dell’obbligo scolastico, che invece richiedono piani di interventi specifici, fondati sull’analisi dei bisogni (a partire dagli asili-nido, oggi classificati come “assistenza”)  e fortemente sostenuti dallo Stato e dagli Enti locali, con poderosi aiuti per il diritto allo studio dei meritevoli non abbienti, fino all’università (cioè un po’ oltre il “bonus bebè”);
-          le trasformazioni sociali ed antropologiche (cos’è l’adolescenza oggi?) dovrebbero suggerire un ripensamento radicale anche sui cicli didattici e sui programmi di studio, non solo aggiungendo materie, e assumere come primo obiettivo la formazione complessiva dei cittadini (non solo “Economia per tutti”, ma una vera educazione civica e soprattutto anche un po’ di filosofia per tutti, intesa come sviluppo delle capacità critiche personali a fronte dei “media” vecchi e nuovi e dei modi nuovi e antichi di sfruttamento);
-          personalmente non mi turba il rapporto con il mondo delle imprese, purché non sia a senso unico (e permetta quindi anche che scuola e territorio possano ingerirsi su ciò che fanno o non fanno  le imprese, escludendo una mera sudditanza ammirata) e riterrei educativa una sostanziosa esperienza di lavoro vero dentro al ciclo dell’obbligo, da elevare a 18 anni per tutti, aggiungendoci (con riferimento alla “educazione civica” di cui sopra) anche un periodo di servizio civile, sia in loco sia con scambi europei;

-          mi pare infine che andrebbe finalmente affrontato anche il tabù degli orari di lavoro dei docenti, lasciando invariate le ore di insegnamento “frontale”, ma inglobando tutte le altre prestazioni, da svolgersi a scuola (e non portando a casa i pacchetti di compiti da correggere), nell’ambito delle 36 ore settimanali comuni a  tutto il resto del pubblico impiego (fatti salvi, od ampliando, i contratti a tempo parziale).  

sabato 18 ottobre 2014

SBLOCCA ITALIA

Ho letto e apprezzato i rilievi di Legambiente sul decreto "Sblocca Italia", che mi sembrano assai ragionevoli, su bonifiche, petrolio, risparmio energetico, mobilità, ecc.
Su diversi temi convergono anche altre associazioni ambientaliste (WWF, Greenpeace, FAI, Italai Nostra).
Più pregiudiziale, ma pur sempre interessante, la posizione di "Salviamo-Il-Paesaggio"
Spero che il Parlamento possa intervenire, senza essere bloccato dalla morsa ostruzionismo/fiducia, e che il monopolio dell'ambientalismo non venga lasciato alla sterile propaganda, sempre elettoralistica. del M5S.

giovedì 9 ottobre 2014

DI NUOVO SUL (FU?) ART. 18

Mentre Renzi incassa la fiducia della Merkel sul Job Act prima di quella del Senato, osservo che nel metodo il circuito Fiducia/Delega risulta tanto elusivo della potestà parlamentare (potestà che nel frattempo si esplica pienamente al suo livello più basso nello stallo per l’elezione di 2 giudici costituzionali) quanto rappresentativo dell’insieme del Renzismo, che – tra primarie ed europee – ha chiesto ed ottenuto dagli elettori una delega in bianco su molte materie, esercitando a fondo il ricatto della mancanza di alternative (che è effettiva, e Letta agitava con minori energie) e ben guardandosi dal consultare la sua base elettorale nel merito delle scelte (come invece aveva promesso nelle primarie, proprio sul tema del lavoro: ora qualche consultazione – vedi scuola – la gestisce direttamente come Governo).

Renzi si sente forte dei sondaggi, sia sulla sua persona, sia riguardo all’art. 18, la cui difesa oggi sembrerebbe minoritaria nel paese, che invece anni addietro respinse sonoramente un referendum abrogativo proposto dai radicali: evidentemente anni di ideologia padronale (detta anche “pensiero unico”), ben affiancata dagli effetti della globalizzazione sul mercato del lavoro europeo (la “macro-fisica” del potere), sono riusciti ad incidere sull’opinione pubblica, ed anche su quella di centro-sinistra.
Dubito però che in tale ambito le posizioni si siano definitivamente rovesciate, ma è difficile verificarlo, stante la liquefazione del PD come organizzazione ed ambito di dibattito (inclusa la minoranza, che in teoria raccoglieva la maggioranza degli iscritti con le tessere 2013, ma è priva di strategia e di leadership, e nemmeno sa rinnovare le “sue tessere”, se non quando servono a cammellare voti in qualche congresso di sezione; né tanto meno raccogliere firme sulle sue proposte, anche on-line, così come a sostegno dell’evanescente referendum sul pareggio di bilancio) e finché la CGIL ed altri soggetti non assumeranno iniziative di mobilitazione, idonee ed efficaci (spero non l’occupazione delle fabbriche da parte di qualche avanguardia, cui ha accennato Landini; i precedenti non sono fausti: al biennio rosso 1919-21 seguì il ventennio nero, e all’occupazione della Fiat nel 1980 seguì la marcia dei 40.000 e corollari fino ad oggi influenti).

Infatti ritengo che tra astenuti, disillusi, elettori temporanei o definitivi del M5S, elettori fedeli alla sinistra che hanno ri-votato PD (o anche Tsipras) con il collo molto “obtorto”, ci sia una massa di persone, ed una realtà sociale frammentata ma non definitivamente dispersa, che alla lunga, comprimi-comprimi, ri-emergerà in forme forse nuove, e che mal digerisce le politiche oggettivamente di destra, soprattutto se non sono presentate come necessario compromesso, dati i rapporti di forza internazionali, ma rivendicate (non solo da Renzi, vedi recente intervista di Fassino alla Stampa) come “moderno modo di essere di sinistra”, e cioè ad esempio:
-      -    La retorica del merito e del talento, che poi si traduce solo nella facilità di licenziare, perché nella pratica di governo non vedo né nuove borse di studio per studenti e neo-laureati meritevoli, né selezioni pubbliche ai posti di comando, né tanto meno l’abbandono della selezione correntizia del personale politico (qualcosa di meglio forse sta nel documento sulla scuola, che mi riservo di commentare quando sarò meno esacerbato sull’art. 18);
-       -   La balla che bisogna poter licenziare, anche individualmente, perché i padroni locali e gli investitori internazionali si decidano ad investire;
-     -  Il precariato come colpa dei sindacati, che per me assomiglia molto a quei mariti che incolpano la moglie se la poveretta viene cornificata: “dov’erano i sindacati?” certo non al governo, dove se non c’era Berlusconi, con Maroni e Sacconi,  c’era Treu, e poi Bassolino-Salvi ed infine Damiano (l’unico che ha cercato di correggere la baracca) (e qualcuno potrebbe anche chiedere dov’era il giovane Renzi: non mi pare si opponesse a quella linea, né come Scout, né come DC/Popolare, né come Margherito ed infine PD);
-     - Tutta la propaganda sul “cambiare verso” e il “nuovo che avanza”, dimenticando antiche priorità come la lotta all’evasione fiscale, al lavoro in nero, alla corruzione, alla “imprendibilità” del finanz-capitalismo internazionale.  

Tornando infine al merito della riforma del lavoro, la delega è volutamente piuttosto vaga, ed è stata parzialmente emendata, ma conferma l’intenzione politica di ridurre le tutele per i licenziamenti individuali (ed altre intenzioni invece potenzialmente positive sugli ammortizzatori sociali, i contratti di inserimento e la detassazione sul lavoro stabile): si dovranno valutare attentamente i decreti delegati e le coperture finanziarie connesse. 
Permane ai vertici del governo e tra molti commentatori una grave sottovalutazione dell’importanza delle tutele vigenti, sia pure  per i soli lavoratori stabili nelle aziende superiori a 15 dipendenti (tuttora la maggioranza dei lavoratori dipendenti), anche se sono relativamente pochi i casi di applicazione del reintegro nel posto di lavoro: il potenziale intervento del giudice del lavoro è un deterrente, fondamentale nella “microfisica del potere” a scala aziendale, dove chi è forte è il padrone e non il singolo lavoratore.
Scardinare o anche solo attenuare e manipolare tali tutele (già ridotte dalla legge Fornero) influisce sull’insieme dei rapporti di lavoro (e non solo per i soggetti direttamente tutelati).
(Se poi ci si mette anche a depotenziare i contratti nazionali si andrà rapidamente ad una ulteriore compressione dei salari, già oggi molto risicati).

In proposito vorrei proporre un’analogia con la legge del 1978 sull’equo canone (non posso autocitarmi perché il mio archivio cartaceo di quegli anni si è perduto nella muffa delle cantine, con dentro anche un mio breve testo sulla “micro-fisica del potere tra padrone di casa e inquilino), allorché parte della sinistra si batté a lungo sulla percentuale che i nuovi affitti dovevano pagare sul valore locativo degli alloggi (il 3% sembrava di sinistra, il 4% di destra, ed il governo Andreotti chiuse al 3,85%), mentre la sostanziale sconfitta degli inquilini stava nella generalizzata possibilità di sfratto per “finita locazione” (cioè i contratti diventavano temporanei, superando il blocco dei fitti non solo in termini economici ma soprattutto giuridico-temporali).

Mentre il blocco dei fitti aveva spinto verso l’alto i canoni dei nuovi contratti, l’equo canone così concepito ha spinto tutti coloro che hanno potuto a comprarsi una casa (sfuggendo almeno su questo fronte alla precarietà della vita) ed ha proiettato verso l’alto il  valore degli affitti sugli alloggi restanti (e l’equo canone chi se lo ricorda più?). 

IL NOMADISMO SECONDO MICHEL MAFFESOLI

Di Michel Maffesoli, di cui già ho recensito (alla PAGINA 2 paragrafo 4) il più recente ed ampio “Il tempo delle tribù. il declino dell'individualismo nelle società postmoderne”   (2004), nonché  “Reliance. Itinerari tra modernità e postmodernità” (2007), ho avuto modo di leggere anche il precedente “DEL NOMADISMO – Per una sociologia dell’erranza”, edito nel 1997 (traduzione Milano, Franco Angeli – 2000, pag. 167), che espone più radicalmente alcuni elementi fondanti del suo pensiero:
-          l’insufficienza della moderna razionalità universalista a comprendere i comportamenti erranti, devianti e per l’appunto “nomadi”,
-          la presenza latente ed oscillante, anche nelle società “stanziali”, al di sotto del loro “morbido totalitarismo”, ed anche nei singoli individui, di elementi nomadi, “politeisti” e dionisiaci, che si sottraggono alle logiche unitarie e produttive.
-          le molteplici radici storiche di tali forze alternative, ad esempio tra gli “ebrei erranti” e tra i ”goliardi” medioevali, tra i monaci itineranti giapponesi e tra gli esploratori portoghesi,
-          la recente crescita di queste correnti, e la previsione dell’Autore di un ulteriore crescita, in una nuova chiave femminile, cooperativa ed ecologica; in questo ambito anche una qualche lettura positiva del fenomeno del lavoro precario, visto come libera scelta soggettiva.

Benché ami richiamare alcuni maestri della sociologia moderna, da Simmel a Durkheim, da Weber ad Adorno (ben contro-bilanciati ovviamente da abbondanti citazioni di Rilke, Nietzche, Cioran, Jung, ecc.), il testo di Maffesoli, letterariamente affascinante e leggibile, rifiuta con evidenza qualunque riferimento quantitativo e qualunque ragionamento sui dati materiali, e si presenta soprattutto come un trattato antropologico, appoggiato alla storia quel tanto che gli serve: non sempre con rigore, ad esempio:
-          quando nega ogni pretesa di dominio nella storia antica del popolo ebraico;
-          quando separa la mobilità medievale dai pellegrinaggi – esaminati a parte – oppure ignora i fenomeni conseguenti all’assetto patrimoniale del maggiorascato, sia tra i nobili, da cui la cavalleria (ed anche chierici non sempre “regolari”), sia tra i piccoli possidenti contadini, da cui molti migranti, artigiani o anche senz’arte;
-          quando proclama, con la “modernità”, la fine del nomadismo, mentre di poveracci in movimento è piena anche la storia del moderno lavoro salariato, che si nutre all’origine dal pauperismo urbano post-medievale;
-          dove identifica la riforma luterana con la piena razionalità monoteista, senza cogliere quanti demoni e abissi risiedano nelle pratiche religiose del nord-europa e quanto il mondo protestante sia stato specifico terreno di cultura della psicanalisi, da Maffesoli ascritta correttamente (ma ristrettamente) all’erranza ebraica..

Questo eccesso di apriorismo è a  mio avviso evidente, riguardo all’oggi (e confrontando ad esempio le documentate posizioni di Manuel Castells), soprattutto su tre fronti:
-          la libertà, incertezza e promiscuità sessuale, cui l’Autore inneggia, appare come una costante – pur oscillante – nei secoli, senza cogliere la fondamentale svolta derivante dai metodi contraccettivi del secondo novecento, che offrono un ruolo più indipendente alla donna e sottraggono in parte il maschio al dilemma responsabilità/irresponsabilità (mentre in passato il libertinaggio costituiva privilegio maschile);
-          la prevalenza di valori positivi (femminili-cooperativi-ecologici) nei “nuovi movimenti” mi sembra auspicabile ma difficile da dimostrare come dato di fatto, sia nelle “tribù metropolitane” (si veda ad esempio la perdurante violenza maschilista degli “antagonisti” oppure delle tifoserie “sportive”), sia nelle avanguardie dei popoli oppressi e migranti, tra cui emergono per ora gli estremisti islamici;  
-          il precariato dei rapporti di lavoro, pur apprezzato da consistenti minoranze giovanili, si dimostra essere sempre più un obbligo derivante dalle “leggi del mercato”, dettate da quei diversi nomadi che si chiamano capitale finanziario e vari agenti della globalizzazione.

Pertanto Maffesoli sul Nomadismo non mi ha convinto: ma ritengo che sollecitazioni di questo tipo (condotte tra l’altro da Maffesoli con un linguaggio molto “razionale”, diversamente dagli eccessi anche linguistici –ad es.- di Luc Nancy oppure di Derrida) debbano essere raccolti da tutti i cultori della razionalità, che non può limitarsi e farsi schiacciare nella difesa di un vecchio e limitato ordine del pensiero (vedi ad esempio la trilogia senile di Eugenio Scalfari), ma deve saper comprendere, con l’umiltà del saper-di-non-sapere, tutte le problematiche umane, incluse le pulsioni dionisiache e le tendenze al nomadismo, i demoni e gli abissi, il corpo e l’anima (come propone, parlando di architettura e urbanistica, anche Graziella Tonon nel testo che ho poc’anzi recensito).    

RAPPORTO SUL CONSUMO DI SUOLO 2014

Il “Rapporto 2014” del Centro di ricerca sui Consumi di Suolo (costituito da INU, Dipartimento DAStU del Politecnico di Milano e da Legambiente), edito on-line dall’INU e redatto da Arcidiacono, Di Simine, Oliva, Pileri, Ronchi e Salata, con sottotitolo POLITICHE, STRUMENTI E PROPOSTE LEGISLATIVE PER IL CONTENIMENTO DEL CONSUMO DI SUOLO IN ITALIA, mantiene quanto promette:
- un ampio esame delle problematiche teoriche relative alle modalità di misura del consumo di suolo (se riguardi la sola superficie “coperta” da fabbricati, quella altrimenti impermeabilizzata oppure quella a vario titolo “occupata” per gli usi urbani, e come valutare in tale ambito, ad esempio, il verde pubblico) e sullo stato dell’arte nella effettiva misurazione in Italia (con spiccate differenze tra diverse regioni e realtà locali, ma con il recente apporto unitario di ISPRA e quello promesso in futuro dall’ISTAT) ed in Europa, con lo standard comune consolidato di “CORINE Land Cover” (che però utilizza un reticolo a larghe maglie, con unità di 25 ettari), gli ulteriori approfondimenti con i progetti LUCAS e HR Built-Up Areas (quest’ultimo con foto satellitari con risoluzione di soli 20 metri);
- una rappresentazione sintetica delle problematiche concrete del consumo di suolo in Italia (complessivamente, secondo ISPRA, dal 3% negli anni 50 ad oltre il 7% attuale), in relazione ai diversi usi del suolo e modelli insediativi, con attenzione alle differenze tra regioni, nonché ai disturbi indiretti indotti dalla frammentazione del suolo non occupato, e con approfondimenti specifici in territorio lombardo sulla provincia di Lodi (e sugli effetti, talora perversi, del Piano Provinciale), sulle nuove infrastrutture (assai “consumose”) e sui parchi regionali e dintorni (in tali intorni si condensano specifiche pressioni differenziali);
- una articolata denuncia (soprattutto da parte di Paolo Pileri) del deficit istituzionale, ed anche culturale, che in Italia impedisce una seria tutela della risorsa primaria costituita dal suolo (in confronto con le esperienze europee più avanzate, a partire dalla Germania), e che si annida soprattutto nella crescente e mal-intesa autonomia decisionale dei singoli comuni, mentre i fenomeni ambientali prescindono dai confini amministrativi;
- una rassegna delle iniziative e proposte di legge in materia di risparmio nel consumo di suolo, a scala regionale (seguita anche da interessanti contributi specifici per Lombardia, Piemonte e Toscana) – finora per lo più solo buone intenzioni - ed a scala nazionale, che testimoniano la crescita di una sensibilità diffusa sull’argomento, cui non corrispondono finora interventi adeguati; con approfondimento delle criticità del disegno di legge dell’ex ministro Catania (che al momento della stesura del Rapporto era ancora all’ordine del giorno, mentre ora appare sepolto dalla nuova valanga di cemento del decreto sblocca-Italia) i cui limiti principali sembrerebbero il mantenimento di una logica incrementale per gli insediamenti (seppure frenata) e la mancata assunzione del nuovo principio della “rigenerazione urbana” come asse portante per il governo del territorio (nota: la logica “incrementale frenata” pare insita anche nel Piano Territoriale Metropolitano di Barcellona, che a fine volume viene presentato come innovativo, e di cui comunque si può apprezzare l’incisività, rispetto alla fumosità prevalente nei Piani di Area Vasta nostrani);
- la formulazione (Edoardo Zanchini e Federico Oliva) della suddetta “rigenerazione urbana”, ovvero del risanamento complessivo dei tessuti insediativi carenti sotto il profilo qualitativo ed energetico (e talora anche statico/antisismico), come fronte di investimento (ma anche di risorse endogene) per un nuovo sviluppo delle città all’interno dei loro confini, alternativo ad ogni ulteriore espansione (una sorta di continuo flusso temporale tra i diversi usi urbani, nello spazio consolidato delle città).

Nell’insieme questo testo costituisce un notevole contributo teorico-pratico sulla questione del consumo di suolo e – assieme alla lettura degli ultimi numeri delle riviste Urbanistica ed Urbanistica Informazioni (non invece le ultime rassegne di Urban-promo, che nei fatti trattano in prevalenza casi di ulteriori espansione) – conferma il deciso impegno sul tema di gran parte degli intellettuali vicini all’INU.
Dovrebbe stupire pertanto il reciproco ignorarsi con il contiguo ambito di “Salviamo-Il-Paesaggio” (cui pure aderiscono tra gli altri FAI, WWF, Italia Nostra, Slow food e Legambiente, quest’ultima partner dell’INU nello stesso CRCS), che si occupa del medesimo tema con iniziative concrete, locali e nazionali, seppur forse un po’ velleitarie, come il censimento dal basso sul consumo del suolo e l’ipotesi di un disegno di legge di iniziativa popolare.
E che da parte sua, oltre ad ignorare il CRCS, assume talvolta – a scala locale – anche gli urbanisti dell’INU come bersaglio (vedi atti della recente 3^ assemblea nazionale).
Manca invece qualsivoglia sforzo di entrare nel merito delle reciproche posizioni teoriche generali.
E che sarebbe a mio avviso invece molto interessante, ad esempio, approfondendo i giudizi sul disegno di legge di riforma urbanistica presentato dal ministro Lupi: dalla lettura comparata, a distanza, infatti emerge una visione possibilista dell’INU (vedi Oliva su UrbInf n° 255) ed una stroncatura di Salv.Paes. che ha ospitato nel suo sito un documento critico firmato tra gli altri da Vezio De Lucia e Francesco Indovina.
Riservandomi di esprimere anche qualche mia valutazione (soprattutto se il testo Lupi diventerà nell’agenda-Renzi qualcosa di più di un soprammobile decorativo), segnalo che qualche punto di contatto teorico si potrebbe paradossalmente riscontrare addirittura tra la “liquidità immobiliare” di Lupi, che pure parte dalla valorizzazione della proprietà, e la evanescenza del possesso, cui arriva il prof. Maddalena (lectio magistralis alla suddetta 3^ conferenza di Salv.Paes.), a partire dai “beni comuni”; e che forse una linea unitaria può essere cercata tra tutti coloro che perseguono il risparmio del consumo di suolo (e non possono esimersi dal valutare le modalità della connessa “rigenerazione urbana”).