Di Michel Maffesoli, di cui già ho recensito (alla PAGINA 2 paragrafo 4) il più recente ed ampio “Il tempo delle tribù. il declino dell'individualismo nelle società postmoderne” (2004), nonché “Reliance. Itinerari tra modernità e postmodernità” (2007), ho avuto modo di leggere anche il precedente “DEL NOMADISMO –
Per una sociologia dell’erranza”, edito nel 1997 (traduzione Milano, Franco
Angeli – 2000, pag. 167), che espone più radicalmente alcuni elementi fondanti
del suo pensiero:
-
l’insufficienza
della moderna razionalità universalista a comprendere i comportamenti erranti,
devianti e per l’appunto “nomadi”,
-
la presenza
latente ed oscillante, anche nelle società “stanziali”, al di sotto del loro
“morbido totalitarismo”, ed anche nei singoli individui, di elementi nomadi,
“politeisti” e dionisiaci, che si sottraggono alle logiche unitarie e
produttive.
-
le
molteplici radici storiche di tali forze alternative, ad esempio tra gli “ebrei
erranti” e tra i ”goliardi” medioevali, tra i monaci itineranti giapponesi e
tra gli esploratori portoghesi,
-
la recente
crescita di queste correnti, e la previsione dell’Autore di un ulteriore
crescita, in una nuova chiave femminile, cooperativa ed ecologica; in questo
ambito anche una qualche lettura positiva del fenomeno del lavoro precario,
visto come libera scelta soggettiva.
Benché ami
richiamare alcuni maestri della sociologia moderna, da Simmel a Durkheim, da
Weber ad Adorno (ben contro-bilanciati ovviamente da abbondanti citazioni di
Rilke, Nietzche, Cioran, Jung, ecc.), il testo di Maffesoli, letterariamente
affascinante e leggibile, rifiuta con evidenza qualunque riferimento
quantitativo e qualunque ragionamento sui dati materiali, e si presenta
soprattutto come un trattato antropologico, appoggiato alla storia quel tanto
che gli serve: non sempre con rigore, ad esempio:
-
quando nega
ogni pretesa di dominio nella storia antica del popolo ebraico;
-
quando
separa la mobilità medievale dai pellegrinaggi – esaminati a parte – oppure
ignora i fenomeni conseguenti all’assetto patrimoniale del maggiorascato, sia
tra i nobili, da cui la cavalleria (ed anche chierici non sempre “regolari”),
sia tra i piccoli possidenti contadini, da cui molti migranti, artigiani o
anche senz’arte;
-
quando
proclama, con la “modernità”, la fine del nomadismo, mentre di poveracci in
movimento è piena anche la storia del moderno lavoro salariato, che si nutre
all’origine dal pauperismo urbano post-medievale;
-
dove
identifica la riforma luterana con la piena razionalità monoteista, senza
cogliere quanti demoni e abissi risiedano nelle pratiche religiose del
nord-europa e quanto il mondo protestante sia stato specifico terreno di
cultura della psicanalisi, da Maffesoli ascritta correttamente (ma
ristrettamente) all’erranza ebraica..
Questo eccesso
di apriorismo è a mio avviso evidente,
riguardo all’oggi (e confrontando ad esempio le documentate posizioni di Manuel
Castells), soprattutto su tre fronti:
-
la libertà,
incertezza e promiscuità sessuale, cui l’Autore inneggia, appare come una
costante – pur oscillante – nei secoli, senza cogliere la fondamentale svolta
derivante dai metodi contraccettivi del secondo novecento, che offrono un ruolo
più indipendente alla donna e sottraggono in parte il maschio al dilemma
responsabilità/irresponsabilità (mentre in passato il libertinaggio costituiva
privilegio maschile);
-
la
prevalenza di valori positivi (femminili-cooperativi-ecologici) nei “nuovi
movimenti” mi sembra auspicabile ma difficile da dimostrare come dato di fatto,
sia nelle “tribù metropolitane” (si veda ad esempio la perdurante violenza
maschilista degli “antagonisti” oppure delle tifoserie “sportive”), sia nelle
avanguardie dei popoli oppressi e migranti, tra cui emergono per ora gli
estremisti islamici;
-
il
precariato dei rapporti di lavoro, pur apprezzato da consistenti minoranze
giovanili, si dimostra essere sempre più un obbligo derivante dalle “leggi del
mercato”, dettate da quei diversi nomadi che si chiamano capitale finanziario e
vari agenti della globalizzazione.
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