RECENSIONE PUBBLICATA SU "URBANISTICA INFORMAZIONI" N° 266 - MARZO/APRILE 2016
“LA GRANDE FUGA – salute, ricchezza e origini della disuguaglianza” (2013 – traduzione italiana “IL MULINO” – Bologna 2015, pagine 381) è un ampio saggio, di taglio divulgativo, scritto dall’economista Angus Deaton, con origini scozzesi e carriera a Princeton (USA), premio Nobel 2015 e per questo pluri-recensito e pervenuto alla mia attenzione.
“LA GRANDE FUGA – salute, ricchezza e origini della disuguaglianza” (2013 – traduzione italiana “IL MULINO” – Bologna 2015, pagine 381) è un ampio saggio, di taglio divulgativo, scritto dall’economista Angus Deaton, con origini scozzesi e carriera a Princeton (USA), premio Nobel 2015 e per questo pluri-recensito e pervenuto alla mia attenzione.
Il libro è un grande affresco – costruito più con il commento a ricerche
altrui che non mediante proprie originali elaborazioni – sulla storia
mondiale del benessere (prosperità economica, salute e longevità), soprattutto
a partire dalla svolta europea nell’età moderna, con approfondimenti su
natalità e mortalità, sulle diseguaglianze in USA e nel mondo e soprattutto sul
tema degli “aiuti” ai paesi poveri.
Parte del testo risulta
indirizzata, con dovizia di esempi (iniziando dalla storia della sua famiglia)
e di ragionamenti fondati sul buon senso, a convincere di elementari verità,
del tipo che oggi si vive meglio e più a lungo che in passato, che si è fortunati
a vivere in Occidente anziché altrove e che in generale chi ha più ricchezza ha
anche più salute, e ne è contento (il tutto probabilmente in contrapposizione,
non esplicitata, a chi critica lo stile di vita occidentale o ne sottolinea guasti
ed alienazione); nel contempo Deaton non si mostra per nulla fiducioso in un
futuro altrettanto fortunato per l’umanità, né intera né per parti.
Accanto a queste affermazioni,
Deaton approfondisce anche elementi dialettici
e contradditori, quali ad esempio la correlazione non costante, nei paesi attualmente
emergenti, tra incremento del reddito medio e diffusione del benessere
sanitario (quando ne manchino le condizioni ambientali e/o organizzative),
oppure tra PIL e percezione della “felicità” (con una attenzione tutta
anglosassone, ed a mio avviso
spropositata, allo strumento dei sondaggi demoscopici – vedi anche mia recensione di Inglehart).
L’autore mette in evidenza come,
nel passaggio (tardivo) dai paesi ricchi ai paesi poveri delle esperienze di
prevenzione medica della mortalità infantile, si sia determinato un rapido
allungamento dell’età media su scala planetaria, con il derivante boom
demografico, e però senza il paventato impoverimento generalizzato per carenza
di risorse alimentari (smentendo quindi le pratiche di limitazione alla
natalità imposte dall’esterno o dall’alto, e constatando invece che a medio
termine la natalità comunque diminuisce una volta assestato il calo della mortalità
infantile), sia per l’incremento della produttività agricola, sia per la
laboriosità delle nuove leve di “mancati morti infantili”; e come nel permanere
delle disuguaglianze sociali tra i vari paesi e dentro di essi, grandi masse
(di asiatici) siano state liberate dalla fame con il progresso economico
globale degli ultimi decenni (pur nella contradditorietà di diversi percorsi,
quali quelli di Cina ed india).
Mentre nei paesi ricchi gli
ingenti sforzi impiegati per l’ulteriore benessere sanitario, essendo applicati
agli adulti (data la marginalità residuale della mortalità infantile), comportano
limitati avanzamenti statistici della “aspettativa di vita”.
Alquanto disarmante invece mi è
sembrato il testo sia dove affronta le disuguaglianze interne agli USA, sia
dove tenta – rinunciandovi – a tracciare una sintesi sulla povertà residua di
grandi masse nel mondo, soprattutto africane.
Deaton illustra i limiti, le contraddizioni
ed i paradossi dei parametri utilizzati dagli istituti pubblici per individuare
ed aggiornare le “soglie di povertà” (anche in quanto oggetto di permanenti
scontri politici tra gli opposti interessi dei ricchi e dei poveri) accontentandosi
infine di esibire come socratica saggezza la consapevolezza di non saperne più
di tanto (da un Nobel mi aspettavo
francamente di più): pare comunque che – pur verificandosi la “grande fuga”
di qualche miliardo di uomini dalla fame e dall’indigenza, (e soprattutto dal
feroce dolore della diffusa mortalità infantile), le disuguaglianze tra i più
poveri ed i più ricchi continuino ad aumentare, perché i più ricchi divengono (quasi
ovunque) enormemente tali e parte degli strati sociali più bassi restano quanto
meno stazionari (manca nel testo una lettura della “povertà relativa”, che è
invece di uso comune tra gli istituti statistici europei).
Riguardo in particolare alla stratificazione dei redditi negli USA, mi ha colpito come
l’insoddisfazione di Deaton e altri per le statistiche ufficiali (immobili dagli
anni ‘60 sull’indice di povertà assoluta, salvo correttivo inflazionistico, e limitate ad interviste a campione per
articolare i redditi tra i “decili” più o meno ricchi ai fini del calcolo
dell’indice di Gini) sia stata in parte colmata, ma solo in anni recenti, dal giovane
ricercatore francese Piketty (da noi noto
per il successivo “Capitale nel XXI secolo”, vedi mia recensione), che – in
collaborazione con istituti americani -, ha avuto finalmente la brillante idea
di utilizzare le dichiarazioni dei redditi per scovare, all’interno del 10% più
ricco, le curve di accumulazione della ricchezza delle frazioni più elevate (il
centile ed il millile) (a quando il Nobel
a Piketty?): accumulazione di ricchezza
e potere che – conviene Deaton - capovolge il mito americano delle
“uguali opportunità” (infatti anche nelle carriere per merito e nei redditi da
lavoro primeggiano i soli figli delle élites)
e può determinare un tappo alla crescita complessiva degli USA (Deaton in
sostanza ritiene ineliminabili le disuguaglianze in fase di sviluppo iniziale,
ma sostiene che solo la loro riduzione consenta ulteriori sviluppi socio-economici).
Il pezzo forte di Deaton è invece
la critica agli aiuti ai paesi poveri; oltre ad evidenziarne la capricciosa
distribuzione , a partire da statistiche errate e dal combinarsi degli interessi
politici dei paesi donatori (esempio: anticomunismo ed antiterrorismo) e delle
élites dei paesi beneficiari, Deaton ne esamina la generale inefficacia, con
una molteplicità di esempi concreti, affermando che in ogni caso non riescono
ad innescare autonomi meccanismi di crescita, ma solo talvolta ad alleviare specifiche
emergenze, mentre in generale tendono
rafforzare le politiche di corruzione, rapina ed autosussistenza delle
forze locali dominanti nei paesi più poveri, soprattutto nell’Africa
subsahariana (con vari rimandi ad Acemoglu e Robinson, già da me recensiti).
La proposta di Deaton (che costituisce
la parte più originale, anche se discutibile della “GRANDE FUGA”) è di un taglio netto alle attuali forme di aiuto,
spostando le energie su altre forme indirette (ma che incontrerebbero le stesse
resistenze, all’interno dei paesi donatori), quali diverse regole per il
commercio estero, incentivi internazionali alla ricerca di farmaci specifici,
facilitazioni alla emigrazione con borse di studio, ecc.
Non ho una preparazione sufficiente per valutare la bontà o meno della
provocazione di Deaton (condivisa invero anche da autorevoli intellettuali dei
paesi “aiutati”: vedi ad esempio già nel 1993 lo scrittore di origini somale
Nuruddin Farah in “Doni”), anche se ritengo apprezzabili, ma intrinsecamente deboli,
quanto ad attuabilità, le sue proposte correttive.
Mi permetto però di rilevare alcuni limiti generali del suo approccio,
abbastanza tipici degli accademici anglosassoni (vedi Inglehart e Acemoglu, ad
esempio), che – pur criticando alcuni effetti devastanti del dominio
capitalista – non ne esaminano alla radice le cause, insite a mio avviso in fenomeni da
loro non studiati, come lo scambio ineguale tra capitale e lavoro, la scala
falsamente meritocratica delle retribuzioni, il permanere dell’imperialismo
economico anche in era post-coloniale (rileggere Marx?).
Un breve appunto anche sulla bibliografia di Deaton, che - tranne un breve cenno al demografo Livi
Bacci, trascura totalmente gli autori italiani contemporanei (figurano solo
Wilfedo Pareto e Corrado Gini); mentre nelle mie letture ho trovato grande
chiarezza in autori come Paolo Prodi (sulle origini del mercato), Giovanni
Arrighi (sugli sviluppi dell’accumulazione finanziaria internazionale) e
Luciano Gallino (sulle recenti degenerazioni del finanz-capitalismo): tutti
autori la cui bibliografia è viceversa riccamente internazionale.
E’ vero che l’Italia è provincia dell’Impero Americano, ma a mio parere
anche taluni accademici anglosassoni rischiano altrettanto provincialismo.
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