venerdì 27 maggio 2016

REFERENDUM COSTITUZIONALE - 2

RODOTA’ - “REFERENDUM, LA STORIA DELLA REPUBBLICA NON E’ UNA ZAVORRA”
Poiché l’articolo di Rodotà su “La Repubblica” del 24-05-16 non mi risulta disponibile gratuitamente tramite Internet, ho ritenuto opportuno riassumerlo, data l’importanza dei contenuti e la storica credibilità dell’Autore (a cui personalmente fino ad oggi avevo dato molto credito).
MIO RIASSUNTO
Contrapponendosi alla campagna di Renzi contro la palude parlamentare della Prima Repubblica, Rodotà ne denuncia il presunto stravolgimento storico:
-          da un lato sostenendo l’impossibilità di acquisire a sostegno del Si all’attuale riforma costituzionale le voci in passato contrarie al bicameralismo (ad es. Berlinguer), perché profondamente ancorate al sistema elettorale proporzionale;
-          d’altro lato rivendicando i successi raggiunti negli anni ’70 in materia di “diritti civili, politici e sociali” (divorzio, aborto, diritto di famiglia, statuto dei lavoratori, riforma sanitaria, scuola (?), carceri, manicomi, obiezione di coscienza, ecc.), complessivamente frutto del “pluralismo delle forze politiche”.
A fronte della scadenza referendaria, Rodotà ne segnala il nesso inscindibile con la riforma elettorale “iper-maggioritaria” dell’Italicum, che individua come grave compressione della rappresentanza popolare e delle garanzie di pluralismo (e quindi di difesa dei diritti dei cittadini).
Infine Rodotà tende a ribaltare contro il SI gli argomenti della perfettibilità della Riforma Boschi e dello stesso Italicum (i successivi miglioramenti promessi comporterebbero mediazioni ed inciuci, incompatibili con il carattere salvifico della campagna per il SI) e del ricatto del presunto caos-post-Renzi-sconfitto, sia perché il groviglio delle diverse leggi elettorali per Camera e Senato è stato causato dalla stessa maggioranza governativa, sia perché non è scontato un ritorno anticipato alle elezioni, grazie alle risorse del vigente sistema parlamentare (anzi si potrebbe riaprire in questo parlamento una stagione fertile di riforme, recuperando proposte riformatrici scartate dal Renzismo).
Rodotà conclude paventando un martellante crescendo della campagna di Renzi, che – partita da Facebook - “invaderà ogni spazio pubblico”, cui contrappone “i cittadini, che sono lì, sempre meglio informati e sempre più determinati”.
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MIO COMMENTO
Proprio perché i cittadini siano correttamente informati, a mio avviso bisogna riavvolgere la storia di qualche anno in più, e capire perché I Padri Costituenti, benché forse intrisi di proporzionalismo, non abbiano fissato tale principio nella stessa carta Costituzionale, ed invece abbiano lasciato carta bianca al Parlamento in materia di leggi elettorali, tanto da portare dopo pochi anni al tentativo DeGasperiano iper-maggioritario della “legge truffa” (battuta per un soffio nelle urne, ma forse non così estranea all’effettivo clima costituente), e non escludendo in linea di principio anche  soluzioni quali quella del maggioritario secco di collegio (modello inglese talora auspicato dall’elogiatissimo – post-mortem – Marco Pannella), in  cui il pluralismo della rappresentanza parlamentare potrebbe anche essere ridotto a zero.
E capire anche perché il bicameralismo, sancito dalla originaria Costituzione con scadenze temporali differenziate tra le due Camere (l’una di durata di 5 anni e l’altra di 6), sia stato rapidamente corretto, con un precoce ricorso all’art. 138, uniformando tali scadenze e rendendolo ex-post assai più “perfetto” (cioè con un Senato foto-copia ridotta della Camera, essendo assai simili – ma nessuno lo obbligava - anche i sistemi elettorali).
Secondo me la spiegazione di tali scelte (o non-scelte) dell’Assemblea Costituente sta nel carattere necessariamente “compromissorio” che la Carta dovette assumere tra le visioni e gli interessi contrapposti (ed anche mutevoli) delle principali forze politiche, a maggior ragione a seguito della spaccatura politica tra DC e sinistre che avvenne nel 1947, in corso di stesura del testo, per consentirne la necessaria ultimazione.
Che si sia trattato di un “compromesso alto”, con mirabili risultati nella prima parte della Costituzione (che pure andrebbe aggiornata: ad esempio non contempla le voci “ambiente” ed “ecologia”), e con elevata proprietà di linguaggio giuridico nell’intero testo, non toglie che i Padri Costituenti abbiano lasciato in eredità a Figli e Nipoti qualche problema irrisolto (anche Rodotà ammette “seri problemi di efficienza”).
La storia successiva inoltre va ulteriormente approfondita, perché se Renzi esagera con una complessiva rottamazione, la dialettica sociale e parlamentare che ha consentito dagli anni 60 agli anni 80 l’approvazione di alcune buone leggi riformatrici (non concentrate negli anni ’70, che sulla scuola, ad esempio, non produssero quasi nulla), si sviluppò attraverso conflitti e forzature non encomiabili (da Tambroni al golpismo attorno a Segni padre, dalle stragi fasciste agli anni di piombo) e non impedì il crescere di un sistema bloccato di clientele e corruzione, smascherato in parte ex-post solo negli anni ’90 (Tangentopoli), mentre il debito pubblico iniziava a salire inesorabilmente.
Passando dalla storia al presente, Rodotà non spiega – almeno in questo articolo – quali siano i difetti inaccettabili della Riforma in esame, ma SI SCAGLIA INVECE CONTRO LA LEGGE ELETTORALE ITALICUM, CHE NON È OGGETTO DEL REFERENDUM, e che a mio avviso non “espropria” i cittadini della loro sovranità più di quanto facciano le leggi elettorali, variamente maggioritarie, vigenti in Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America.
La prospettiva tratteggiata da Rodotà è di bocciare la Riforma Boschi per affossare il Renzismo e rimettere quindi in discussione la legge elettorale.
Rodotà in sostanza fa coincidere il valore del “pluralismo”, che anch’io molto apprezzo, con la nostalgia per gli anni 70 (quando lui era giovane, ed io anche di più) in cui il sistema elettorale imponeva (faticose) coalizioni ed il sistema politico, pur bloccato dall’esclusione del PCI dal governo (anche per ragioni internazionali), implicava di fatto qualche dose di dialogo, più o meno consociativo, tra maggioranza e minoranze (talora la DC però dialogava sottobanco anche a destra, con i fascisti dell’MSI): Rodotà ritiene auspicabile un PLURALISMO NEL GOVERNO e quindi l’equilibrio dei veti incrociati tra le componenti delle coalizioni (stabili o variabili), mentre PER ME L’ESSENZIALE E’ INVECE IL PLURALISMO NEL PARLAMENTO, NELL’INSIEME DELLE ISTITUZIONI, DELLE ORGANIZZAZIONI SOCIALI E DEL SISTEMA INFORMATIVO.
Più marginali mi sembrano gli altri argomenti, con cui Rodotà cerca di sfatare il pericolo del “salto-nel-buio” invocato da Renzi e Renziani; indubbiamente non può essere motivo sufficiente per approvare con il referendum una riforma perniciosa, se la si ritiene tale (come io non la ritengo, confortato da ultimo anche dai pacati e puntuali argomenti dei 193 professori per il SI): tuttavia non mi pare affatto tranquillizzante la serena fiducia con cui Rodotà intravede, in un possibile finale di legislatura con il No vittorioso, “una seria stagione riformatrice”.
Dove vive Rodotà? Pensa che una riforma migliore possa scaturire dalla convergenza di Brunetta e Salvini con gli incerti rottami del PD-post-Renzi e con il Movimento 5Stelle (che solo strumentalmente si è servito in passato del nome e prestigio dello stesso Rodotà)?
Per finire un cenno all’invadenza mediatica di Renzi: il personaggio è esuberante (e talora sgradevole), ma non mi pare che si avvalga più del dovuto né delle televisioni pubbliche né di quelle private (che non possiede, a differenza di Berlusconi), né che possa contare – in questa fase – su facili sponde nel mondo del giornalismo; se usa Facebook, nessuno vieta ad altri di usarlo altrettanto contro di lui, a partire dl M5S e dalla Casaleggio-Associati (non mi risulta che i possibili “trucchi” negli algoritmi del social media di Zuckerberg  siano pensati per favorire il governo italiano).






domenica 22 maggio 2016

LE CITTA’ RIBELLI, RAPPRESENTATE DA DAVID HARVEY

“CITTA’ RIBELLI – i movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street” (pagg. 194) è un testo del 2012, tradotto per il Saggiatore nel 2013 e rieditato come e-book nel 2016. L’autore, David Harvey, è un geografo, accademico anglo-americano, piuttosto impegnato su un fronte neo-marxista. 
Gran parte del testo è costituito da una attualizzazione del pensiero marxista riguardo al processo di circolazione ed accumulazione del capitale, con particolare attenzione ai cicli degli investimenti immobiliari e nella ristrutturazione urbana.

L’obiettivo di Harvey sembra essere soprattutto quello di confutare la visione ristretta di alcuni residui teorici marxisti “ortodossi”, che limitano la contrapposizione di classe alla sfera della produzione e non colgono le funzioni di dominio e sfruttamento che completano il capitalismo nelle fasi di “riproduzione della forza-lavoro” attraverso l’abitare ed il consumare, ecc.; senza però confondersi con coloro che stemperano la condizione operaia nelle più generiche “moltitudini” subordinate all’Impero (Toni Negri e Michael Hardt).

Mi sembra che tale polemica sia oggettivamente piuttosto superata, soprattutto in Italia, dove, quando ancora c’era una corposa sinistra “di classe”, le tematiche dello sfruttamento esterno al ciclo produttivo sono state ampiamente indagate e praticate, sia in versione “riformista” (dal ruolo storico del PCI ed altri nei quartieri al “pan-sindacalismo” della FLM – e non solo -, con rivendicazioni su casa scuola e trasporti), sia in versione “rivoluzionaria” (da Lotta Continua di “prendiamoci la città” alle migliori elaborazioni di Manifesto/PDUP): semmai dovrebbe essere di stimolo riflettere sul sostanziale fallimento storico di tali esperienze italiane, a  mio avviso non dovuto ad errori nella analisi sui flussi del capitale, bensì ai limiti di comprensione antropologica della cultura marxista rispetto alla complessità dei fenomeni sociali e culturali (cosicché dagli anni ’80 i partiti più votati dagli operai possono essere stati di volta in volta persino la LegaNord o ForzaItalia…).

Più interessante e aggiornata, ma ancora frammentaria, mi è apparsa la lettura di Harvey sui processi di appropriazione capitalistica (talora anche predatoria)
-          sia dei “valori urbani” monetari, materialmente spremibili torchiando inquilini e mutuatari (ma in Europa, Spagna esclusa, non abbiamo esperienza di così selvagge e massicce rapine legalizzate ai danni degli utenti poveri del bene casa, quali quelle raccontate da Harvey per gli USA),
-          sia dei “valori urbani immateriali” espressi dagli usi alternativi popolari dei beni pubblici, che spesso vengono incorporati nell’immagine vendibile di nuovi quartieri alla moda (da cui però gli stessi ceti poveri – originari promotori dei valori creativi - vengono espulsi mediante l’innalzamento dei fitti e dei prezzi).   

Meno convincente risulta a mio parere il tentativo di recuperare le categorie di interpretazione di Henry Lefebvre sul “diritto alla città”, il cui soggettivismo è difficilmente emendabile. 

Alle varie modalità di manifestazione (e mascheramento) dei conflitti di classe riguardo alla formazione e all’accesso ai “beni comuni”, nel tentativo di proporre una unificazione classista di tutte le lotte di cittadinanza, si agganciano le parti propositive del testo di Harvey, che si appoggiano però soprattutto su una sua lettura “finalistica” di un secolo e mezzo di rivolte urbane (come dice il sottotitolo, dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street), a mio avviso con colossale abbaglio riguardo al segno e alle prospettive della più recente ondata del 2012 (dalle primavere arabe alle sommosse di Londra), come possiamo meglio vedere esaminando gli esiti di tali singole ribellioni pochissimi anni dopo, e soprattutto riscontrando che non maturano convergenze effettive, ad esempio,  tra gli antagonisti di El Alto (Bolivia) e gli ex dimostranti di piazza Tahrir.  

Sulla credibilità di una simile narrazione, pesano inoltre a mio avviso i riscontri puntuali possibili a scala locale per il lettore italiano, che francamente non ha visto nelle precedenti tappe della ribellione urbana né 3 milioni di pacifisti in piazza a Roma nel 2003, né lo sviluppo di contro-poteri territoriali nella rossa  Bologna di alcuni anni prima (così come - leggendo Guy Standing, un altro teorico del precariato come classe rivoluzionaria - non ha trovato riscontro al sorpasso delle manifestazioni alternative per il 1° Maggio, in Italia, rispetto a quelle ufficiali del sindacato, secondo Standing già avvenuto da alcuni anni).

Harvey mostra nel corso del testo come siano impossibili isole produttive anti-capitaliste (autogestione, cooperazione, ecc.) perché circondate dal mercato finanziario; ed evidenzia i limiti di un federalismo localista come proposto da Murray Bookchin ed altri (vale anche per il territorialismo di Alberto Magnaghi & C: ?)
D’altro canto 70 anni di “socialismo reale” hanno mostrato (anche ad Harvey) l’insuccesso della proprietà pubblica dei mezzi di produzione e della “dittatura del proletariato”; mentre in Cina resta abbastanza dittatura, ma la proprietà dei mezzi di produzione è più capitalista che altrove. 

Che le rivolte più significative in questa società globalizzata ed urbanizzata possano avvenire nelle città anziché nelle campagne, pare una inutile tautologia: non mi pare premessa sufficiente per dimostrare che a forza di ribellioni urbane si riesca a costruire una alternativa al capitalismo (per quanto predatorio esso sia); e nemmeno per dimostrare che  ciò sia auspicabile, come invece Harvey dà per scontato, ma senza spiegare quale sia l’organizzazione sociale e politica alternativa oggi effettivamente praticabile a partire dalle probabili ribellioni.


Occupy Wall Street ha dimostrato a mio avviso tutta la sua debolezza (una Comune di Parigi che si ripete in farsa, potrebbe dire lo stesso Marx): se il suo frutto più significativo fosse l’inatteso consenso elettorale verso Bernie Sanders, il cui programma socialista è però chiaramente di carattere riformistico (salvo che poi oggettivamente la sua candidatura rischi di favorire il successo di Trump---), sarebbe una ulteriore lezione da approfondire sulle rivolte urbane, da un lato, e sulle possibili correzioni non-rivoluzionarie al capitalismo, dall’altro. 

DIRITTO ALLO STUDIO: QUALCOSA DI SINISTRA?

Mi sembra piuttosto grave che sia passata sostanzialmente nel silenzio la notizia di Repubblica dell’11 maggio scorso “Borse studio, un idoneo su quattro senza assegno - Quasi cinquantamila studenti in regola restano fuori perché i bilanci regionali non possono contemplare il pagamento delle borse di studio” (articolo di  Corrado Zunino, fondato su una ricerca della fondazione Agnelli, riferita anche agli anni precedenti).

Premesso che con la recente riforma dei criteri ISEE per determinare le condizioni di bisogno dei richiedenti, il meccanismo di assegnazione  dovrebbe risultare bonificato dall’infiltrazione dei “falsi poveri”, gli effetti perversi del nostro sgangherato “federalismo reale” contemplano l’esclusione crescente di migliaia di studenti universitari che  - a parità di meriti e di bisogni – hanno la sola colpa di risiedere nelle regioni “sbagliate”, ovviamente ricadenti nel centro-sud, dove inoltre (e non sempre motivatamente) è più basso l’importo degli assegni, quando corrisposti.

Considerato che questo avviene in un quadro di calo delle iscrizioni all’università, ed in assenza di una politica generale di sostegno al diritto allo studio nell’età post-obbligo (ed anche di una politica di contrasto capillare all’evasione dall’obbligo scolastico), supplita solo dalla buona volontà locale delle “buone scuole”, mi permetto di segnalare questo tema – avente il costo di qualche decina di milioni di Euro, per quanto riguarda l’Università -  per chi volesse ancora fare “qualcosa di sinistra” (anziché abolire le tasse sulla casa e poi magari anche Equitalia).

Tenendo conto inoltre che il diritto allo studio, anche universitario, permarrà di competenza regionale anche a seguito della modifica costituzionale in attesa di conferma referendaria (riforma “Boschi”), che pure limita notevolmente in altri campi l’attuale autonomia regionale.


Rammento, per i curiosi della nostalgia, che nel lontano 1971 la subordinazione a limiti di disponibilità finanziaria pre-determinati del “presalario”, fino ad allora assicurato a tutti coloro che ne avevano i requisiti, suscitò grandi lotte studentesche, inclusa l’occupazione del calcolatore del Politecnico di Milano: una struttura climatizzata di 400 m2, la cui capacità di calcolo oggi invece starebbe facilmente racchiusa in uno smart-phone. Migliorano le tecnologie, ma non migliora la giustizia sociale.

REFERENDUM COSTITUZIONALE - 1

Non sto a ripetere quanto ho avuto occasione di scrivere in precedenza sulla genesi e sui contenuti della riforma costituzionale, esprimendo le mie riserve e preferenze personali (ad esempio sulle nomine degli organi di garanzia al riparo dai premi maggioritari, sul raffreddamento dell’iter legislativo mono-camerale tramite moderni contrappesi, sulla permanenza delle Province) perché ritengo  che esse non abbiano più nessuna importanza, trattandosi ora di pronunciarsi su una valutazione complessiva della Riforma, per come il Parlamento l’ha votata.

Vedo invece, nel variegato fronte del NO, oltre alle posizioni più radicali, che individuano (ma a mio avviso non dimostrano) nella Riforma Boschi una sostanziale svolta autoritaria pericolosa per il Paese, ed oltre alle posizioni più strumentali, che puntano soprattutto all’abbattimento del “regime di Renzi” (agevolate dalla personalizzazione referendaria, voluta dallo stesso Renzi, ma forse ineludibile nella situazione che si è determinata), un fiorire di motivazioni di metodo e di dettaglio, che tendono a sfuggire al quesito frontale se con la Riforma Boschi, presa nel suo insieme, le istituzioni funzioneranno meglio oppure peggio.

In particolare, assumendo come riferimento il documento dei “56 costituzionalisti” (tra cui Zagrebelsky, Baldassare, Onida, Flick, De Siervo, Carlassare, Cheli, Neppi Modona, Zaccaria), trovo tra le motivazioni per il NO:
- il percorso di formazione della Riforma, concluso con ristretta maggioranza (al Senato) e non tramite ampie convergenze;
- alcune imperfezioni nelle modalità di superamento del ”bicameralismo perfetto”;
- la complessità delle nuove procedure legislative, differenziate nel coinvolgimento parziale, totale o nullo del nuovo Senato;
- la compressione delle autonomie regionali (con esclusione delle regioni a statuto speciale);
- modalità discutibili di taglio dei costi istituzionali attraverso l’eliminazione di alcuni organi (lo stesso Senato elettivo, il CNEL, le Provincie).
Gli autorevoli costituzionalisti, oltre ad adombrare più corrette soluzioni alternative sui 4 temi di merito sopra-elencati, di cui condividono gli obiettivi sostanziali,  trovano insufficienti, a fronte di tali difetti, alcuni aspetti pregevoli, quali:
- la restrizione dei decreti-legge governativi, in cambio dei “tempi certi” per l’approvazione parlamentare dei disegni di legge del Governo stesso,
- la verifica preventiva della Corte Costituzionale sulle leggi elettorali (con qualche titubanza)
- l’apertura ai referendum propositivi.

Fa piacere non trovare in questo documento le grossolanità propagandistiche di altri esponenti del NO, quali quelle relative alla illegittimità dell’attuale parlamento, a seguito della pronuncia di  incostituzionalità sulla legge elettorale “Porcellum” con cui fu eletto (argomento che delegittimerebbe anche gli ultimi 10 anni di legislazione ordinaria), alla sacralità della Costituzione del 1948 (che pure prevede la sua riformabilità per l’appunto ai sensi dell’art. 138 del testo costituzionale vigente), al presunto dimezzamento della sovranità popolare perché l’elezione diretta riguarderà solo i deputati (la cui valenza però raddoppia) oppure al privilegio della immunità parlamentare che premierebbe i 95 senatori pescati tra i sindaci ed i consiglieri regionali (con l’argomento che il ceto politico locale è statisticamente il più corrotto: con tale motivazione allora andrebbero anche abolite le Regioni e i Comuni).

Tuttavia mi sembra che l’atteggiamento dei 56 professori pecchi sostanzialmente di narcisismo, evidenziando come le singole soluzioni normative potrebbero essere meglio articolate e formulate, e traendone quindi una pagella da vecchio liceo (Riforma respinta perché insufficiente in 3 materie…),  ma dimenticando che la Riforma in esame è il frutto concreto di questa rappresentanza politica (come storicamente e non casualmente determinata), ed è l’unico risultato conseguito dopo decenni di confronti e di scontri paralizzanti, e che difficilmente a tempi brevi si potrà conseguire un miglior risultato, partendo daccapo (dopo una sonora bocciatura), con un quadro politico che difficilmente evolverà verso armoniose condivisioni e sarebbe inoltre delineato da leggi elettorali contraddittorie, quali l’Italicum –iper-maggioritario - per la Camera ed il “Consultellum” – iper-proporzionale – pero il riviviscente Senato.

Per cui, nel mio modesto giudizio di elettore, la Riforma va “promossa ad ottobre” con “voto di  concetto”, anche se insufficiente e contraddittoria in singoli aspetti, con l’auspicio che i consigli degli esperti aiutino successivamente a correggerla, pur con i tempi non brevi che comunque richiedono le rettifiche alla Carta Costituzionale.


Mi riservo di commentare in altra occasione le volgarità e grossolanità largamente presenti anche nella campagna per il SI (a partire dal dileggio indirizzato ai suddetti 56 professori).