“CITTA’ RIBELLI – i movimenti
urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street” (pagg. 194) è un testo del
2012, tradotto per il Saggiatore nel 2013 e rieditato come e-book nel 2016. L’autore,
David Harvey, è un geografo, accademico anglo-americano, piuttosto impegnato su
un fronte neo-marxista.
Gran parte del testo è costituito
da una attualizzazione del pensiero marxista riguardo al processo di
circolazione ed accumulazione del capitale, con particolare attenzione ai cicli
degli investimenti immobiliari e nella ristrutturazione urbana.
L’obiettivo di Harvey sembra
essere soprattutto quello di confutare la visione ristretta di alcuni residui
teorici marxisti “ortodossi”, che limitano la contrapposizione di classe alla sfera
della produzione e non colgono le funzioni di dominio e sfruttamento che
completano il capitalismo nelle fasi di “riproduzione della forza-lavoro”
attraverso l’abitare ed il consumare, ecc.; senza però confondersi con coloro
che stemperano la condizione operaia nelle più generiche “moltitudini”
subordinate all’Impero (Toni Negri e Michael Hardt).
Mi sembra che tale polemica sia oggettivamente piuttosto superata,
soprattutto in Italia, dove, quando ancora c’era una corposa sinistra “di
classe”, le tematiche dello sfruttamento esterno al ciclo produttivo sono state
ampiamente indagate e praticate, sia in versione “riformista” (dal ruolo
storico del PCI ed altri nei quartieri al “pan-sindacalismo” della FLM – e non
solo -, con rivendicazioni su casa scuola e trasporti), sia in versione
“rivoluzionaria” (da Lotta Continua di “prendiamoci la città” alle migliori
elaborazioni di Manifesto/PDUP): semmai dovrebbe essere di stimolo riflettere
sul sostanziale fallimento storico di tali esperienze italiane, a mio avviso non dovuto ad errori nella analisi
sui flussi del capitale, bensì ai limiti di comprensione antropologica della
cultura marxista rispetto alla complessità dei fenomeni sociali e culturali
(cosicché dagli anni ’80 i partiti più votati dagli operai possono essere stati
di volta in volta persino la LegaNord o ForzaItalia…).
Più interessante e aggiornata, ma
ancora frammentaria, mi è apparsa la lettura di Harvey sui processi di
appropriazione capitalistica (talora anche predatoria)
-
sia dei “valori urbani” monetari, materialmente
spremibili torchiando inquilini e mutuatari (ma in Europa, Spagna esclusa, non
abbiamo esperienza di così selvagge e massicce rapine legalizzate ai danni
degli utenti poveri del bene casa, quali quelle raccontate da Harvey per gli
USA),
-
sia dei “valori urbani immateriali” espressi
dagli usi alternativi popolari dei beni pubblici, che spesso vengono
incorporati nell’immagine vendibile di nuovi quartieri alla moda (da cui però
gli stessi ceti poveri – originari promotori dei valori creativi - vengono
espulsi mediante l’innalzamento dei fitti e dei prezzi).
Meno convincente risulta a mio parere il tentativo di recuperare le
categorie di interpretazione di Henry Lefebvre sul “diritto alla città”, il cui
soggettivismo è difficilmente emendabile.
Alle varie modalità di
manifestazione (e mascheramento) dei conflitti di classe riguardo alla
formazione e all’accesso ai “beni comuni”, nel tentativo di proporre una
unificazione classista di tutte le lotte di cittadinanza, si agganciano le
parti propositive del testo di Harvey, che si appoggiano però soprattutto su
una sua lettura “finalistica” di un secolo e mezzo di rivolte urbane (come dice
il sottotitolo, dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street), a mio avviso con colossale abbaglio riguardo al segno e alle
prospettive della più recente ondata del 2012 (dalle primavere arabe alle
sommosse di Londra), come possiamo meglio vedere esaminando gli esiti di tali
singole ribellioni pochissimi anni dopo, e soprattutto riscontrando che non
maturano convergenze effettive, ad esempio,
tra gli antagonisti di El Alto (Bolivia) e gli ex dimostranti di piazza
Tahrir.
Sulla credibilità di una simile narrazione, pesano inoltre a mio avviso
i riscontri puntuali possibili a scala locale per il lettore italiano, che
francamente non ha visto nelle precedenti tappe della ribellione urbana né 3
milioni di pacifisti in piazza a Roma nel 2003, né lo sviluppo di contro-poteri
territoriali nella rossa Bologna di alcuni
anni prima (così come - leggendo Guy Standing, un altro teorico del precariato
come classe rivoluzionaria - non ha trovato riscontro al sorpasso delle
manifestazioni alternative per il 1° Maggio, in Italia, rispetto a quelle
ufficiali del sindacato, secondo Standing già avvenuto da alcuni anni).
Harvey mostra nel corso del testo
come siano impossibili isole produttive anti-capitaliste (autogestione,
cooperazione, ecc.) perché circondate dal mercato finanziario; ed evidenzia i
limiti di un federalismo localista come proposto da Murray Bookchin ed altri
(vale anche per il territorialismo di Alberto Magnaghi & C: ?)
D’altro canto 70 anni di
“socialismo reale” hanno mostrato (anche ad Harvey) l’insuccesso della
proprietà pubblica dei mezzi di produzione e della “dittatura del
proletariato”; mentre in Cina resta abbastanza dittatura, ma la proprietà dei
mezzi di produzione è più capitalista che altrove.
Che le rivolte più significative in questa società globalizzata ed
urbanizzata possano avvenire nelle città anziché nelle campagne, pare una
inutile tautologia: non mi pare premessa sufficiente per dimostrare che a forza
di ribellioni urbane si riesca a costruire una alternativa al capitalismo (per
quanto predatorio esso sia); e nemmeno per dimostrare che ciò sia auspicabile, come invece Harvey dà per
scontato, ma senza spiegare quale sia l’organizzazione sociale e politica alternativa
oggi effettivamente praticabile a partire dalle probabili ribellioni.
Occupy Wall Street ha dimostrato a mio avviso tutta la sua debolezza
(una Comune di Parigi che si ripete in farsa, potrebbe dire lo stesso Marx): se
il suo frutto più significativo fosse l’inatteso consenso elettorale verso Bernie
Sanders, il cui programma socialista è però chiaramente di carattere riformistico
(salvo che poi oggettivamente la sua candidatura rischi di favorire il successo
di Trump---), sarebbe una ulteriore lezione da approfondire sulle rivolte
urbane, da un lato, e sulle possibili correzioni non-rivoluzionarie al
capitalismo, dall’altro.
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