Il quarto numero della serie di
“Urbanistica” con direzione Oliva, mantiene meglio dei precedenti la promessa
di occuparsi più della città (europea) che dei “piani”: ma evidentemente i due
aspetti sono troppo intrecciati per consentire un pieno dispiegamento di tale
promessa “impossibile”..
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L’insieme degli articoli e dei
servizi sui rapporti tra città e “grandi eventi”, con approfondimenti sulle
vicende di Barcellona dal post-franchismo ad oggi, sulle “capitali europee
della cultura” e su Milano/Expo 2015, propone a mio avviso materiali e punti di
vista assai interessanti sulla dibattuta questione se i grandi eventi giovino o
meno alla riqualificazione urbana e territoriale (ed alle casse pubbliche) , ma
lasciano un po’ delusi nelle conclusioni, perché sia i fautori che i detrattori
in sostanza rinunciano ad individuare parametri oggettivi di valutazione.
Certamente le quantificazioni non
sono facili, come evidenziano gli stessi testi, sia perché nella materia del
confronto entrano rilevanti componenti immateriali (quali ad esempio la
crescita o decrescita culturale della popolazione, l’effetto o meno di
socializzazione, ecc.), sia perché indefinito è l’ambito territoriale di rilevazione
(dove finiscono i territori potenzialmente avvantaggiati e dove iniziano quelli
invece svantaggiati).
Come lettore, forse ingenuamente,
mi aspettavo comunque di più: forse potrebbe essere utile un ritorno sul caso
di Torino/Olimpiadi 2006, dove vistosi sono gli impianti abbandonati,
soprattutto fuori città, ed altrettanto innegabile la rinascita della città
centrale; dove a suo tempo operava un apposito osservatorio ambientale inter-atenei
e dove i bilanci comunali e la condizione delle periferie sono stati
pesantemente giudicati da un recente risultato elettorale.
Su Milano ho apprezzato gli equilibrati giudizi
di Pasqui ed altri, sia sui successi e ambiguità dell’esposizione in quanto
tale, sia sulle ricadute (per lo più positive) di Expo nelle aree urbane, da
quelle di consolidata frequentazione a quelle più di recente offerte alla
fruizione pedonale, e la puntuale ricapitolazione delle complesse vicende di
direzione politica, di valorizzazione immobiliare e di ridefinizione
progettuale, ancora oggi aperte sull’incerta destinazione futura di gran parte
dell’area: gli Autori però, oltre a tali incertezze, stigmatizzano soprattutto
la scelta di acquisizione dei terreni a
prezzi di mercato, ma mi sembra trascurino il “peccato originale” del consumo di
un milione di m2 di terreno agricolo (seppure in nome della nutrizione dell’umanità)
e della mancanza di un piano di riutilizzo dei manufatti (emblematica a mio
avviso la demolizione tramite ruspe dei discutibili corpi in acciaio e vetro
posati in piazza Castello).
Su Barcellona mi limiterei a
manifestare la mia personale invidia verso il tipo di alternativa politica che
viene narrata come “centro-destra” dopo un trentennio di governi locali di
sinistra: malgrado alcune incertezze e confusioni, alla Giunta Comunale del
periodo 2011-2015 vengono attribuite attenzioni alla rinaturalizzazione e alla
connettività, alla pedonalità ed all’autosufficienza energetica, al rilancio
produttivo ed alla qualità abitativa… .Guardando anche all’articolo sulla
cintura verde di Colonia, promossa nel lontano 1919 dal giovane borgomastro
cattolico Konrad Adenauer, mi chiedo perché in Italia ci debba invece quasi
sempre capitare la solita destra immobiliarista e reazionaria.
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Un commento mi pare meriti la
ricerca di Montrone,Perchinunno,Rotondo,Selicato sulle aree di disagio sociale
ed abitativo nell’ambito delle grandi città italiane, finalizzata a sganciare
la selezione delle situazioni più meritevoli di
intervento dalla mera pressione mediatica/elettorale, attraverso l’esame
di diversi dati socio-economici che si intersecano con la povertà (istruzione, lavoro,
consumi) ed approfondimenti sulle condizioni abitative, con la
comparazione tra diversi sofisticati
strumenti statistico/matematici.
Mi pare però che si delinei una
sproporzione tra la raffinatezza dei processi di calcolo e:
- da un lato la obiettiva
rozzezza dei dati di base utilizzati (i collaudati censimenti ISTAT con cadenza
decennale e riferiti alle difformi ed eterogenee “sezioni di censimento”)
- d’altro lato al ricorso, da
parte degli stessi Autori, al vecchio “buon senso comune”, ovvero alla buona o
cattiva fama dei quartieri in esame, come unico elemento di riscontro sul campo
per la verifica della bontà delle operazioni intraprese, oppure della maggiore
o minore bontà dei singoli algoritmi sperimentati.
Forse l’argomento richiede un
maggior impegno, sia da parte del sistema statistico nazionale (innanzitutto
nel rivedere la mappa delle sezioni) sia da parte dei ricercatori indipendenti,
nella ricerca di riscontri da nuove fonti (ad esempio dal flusso delle
informazioni di natura telematica) e con rinnovate missioni sul campo.
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In “Primo Piano” dovrebbe
risultare l’intervista del Direttore (ed ex-presidente dell’INU) Federico
Oliva, all’attuale Presidente Silvia Viviani: ma, se posso esprimermi
francamente, mentre mi sono risultate assai chiare (ed opportune) le domande
(del tipo: dove va l’INU, che bilancio trarre da 20 anni di leggi regionali
variamente influenzate dal modello INU del 1995, che fare dei Piani oggi, ecc.)
, le ampie e argomentare risposte mi sono giunte al fine oscurate dal diluvio
di parole impiegate dalla Presidente. Ho l’impressione che di fronte ad una
“società liquida” e quindi difficile da misurare con i vecchi strumenti
disciplinari, si finisca per delineare una vaga “urbanistica gassosa”,
“transcalare” forse, ma molto evanescente.
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