”LA GLOBALIZZAZIONE INTELLIGENTE” DI DANI RODRIK.
di Aldo
Vecchi
La rigorosa e
argomentata critica alla globalizzazione e dei suoi colleghi economisti da
parte di un Autore accademico e non certo anti-capitalista; i limiti delle sue
proposte correttive ed il ruolo dell’Europa.
Riassunto
– L’incapacità di spiegare le crisi da parte del pensiero economico dominante,
schiacciato sulla globalizzazione “a prescindere”. La storia dei mercati,
sempre creati da un ruolo specifico della mano pubblica. Il “trilemma”
globalizzazione/democrazia/stati nazionali, dove uno dei tre poli è sempre
incomodo. L’impossibilità di un governo mondiale e i limiti dell’esperienza
europea. Consigli per una globalizzazione ben temperata. Dubbi e
diverse opinioni del recensore.
Dani Rodrik, economista
accademico statunitense di origini turche, è divenuto abbastanza popolare
presso i “sovranisti” e gli anti-europei per le sue critiche alla
globalizzazione in parte già anticipate in un testo del 1997 e pienamente
sviluppate nel saggio del 2011 “La globalizzazione intelligente” (Laterza,
Bari, pagg. 323), rieditato nel 2014 con una ulteriore prefazione dedicata alla
crisi dell’Europa.
Il bersaglio contro cui Rodrik
lancia le sue acuminate frecce polemiche, tutte ben documentate, è il pensiero
pseudo-scientifico prevalente tra i suoi colleghi economisti che sostengono la
globalizzazione “a prescindere”, quale buona in sé, così come continuano
imperterriti ad esaltare l’automatica intelligenza dei mercati, che nel
frattempo, di crisi in crisi, combinano invece immensi guai, sfuggendo alle
presuntuose previsioni degli apprendisti stregoni delle Facoltà di
economia.
Già nell’introduzione del 2011
Rodrik sintetizza il suo pensiero, sia riguardo all’inefficienza di una
globalizzazione spinta, perché foriera di instabilità dei mercati e soprattutto
del mercato dei capitali, sia riguardo al conflitto tra
globalizzazione/democrazia/stati nazionali, un “trilemma” in cui, secondo
Rodrik sono possibili equilibri ed effettive conciliazioni solo assumendo i
termini a due a due: il connubio tra globalizzazione e stati nazionali tende a
comprimere la democrazia, la quale può svilupparsi entro gli stati solo
difendendosi da troppa globalizzazione, mentre una globalizzazione democratica
sarebbe immaginabile (ma secondo Rodrik non è realizzabile) solo disciogliendo
gli stati in solide istituzioni planetarie.
Ma il saggio di Rodrik è anche
molto di più di questo schema, perché si articola in un lungo e puntuale
percorso storico sulla evoluzione del rapporto tra stati e mercati (dopo il
medioevo) e – dopo una ricca analisi delle contraddizioni contemporanee di
economia ed economisti – si conclude con una ambiziosa gamma di proposte
operative.
Poiché “La globalizzazione
intelligente” è già stato recensito prima di me da altri più validi autori, cui
rimando (vedi “Fonti” in appendice), non mi dilungo più di tanto nel
riassumerlo.
Mi
sembra rilevante però segnalare che l’Autore, critico della globalizzazione ma
convinto sostenitore del capitalismo (come esplicita a chiare lettere nel capitolo
XI) ed anche dei vantaggi derivanti dal commercio internazionale (se
opportunamente “dosati”), legge correttamente, cioè con il dovuto realismo, i
rapporti tra stato e mercato (in termini non dissimili dall’anti-capitalista
David Graeber) e le vicende del colonialismo e dell’imperialismo (anche
post-coloniale) come un regime di scambi iniqui tra paesi dominanti e dominati
(con valutazioni non lontane da quelle dell’anti-imperialista Giovanni
Arrighi), ed in questo si differenzia nettamente dai pregiudizi correnti tra
gli economisti anglo-americani, come ad esempio il suo connazionale di origine Acemoglu oppure lo
stesso Deaton..
Nella parte storica, infatti, Rodrik
evidenzia il ruolo preminente degli stati nazionali, e soprattutto delle
potenze coloniali, nel costituire le premesse per l’esistenza stessa dei
mercati e per il progressivo abbattimento dei “costi di transazione”, che non
sono solo i dazi e le monete, bensì le barriere linguistiche e culturali, le
incertezze giuridiche e soprattutto la sicurezza/insicurezza militare, ecc.
Malgrado l’orientamento
mercantilista dei singoli stati, più favorevoli ai propri monopoli che alla
libera concorrenza, nell’Ottocento, sotto l’egemonia dell’imperialismo
britannico, sembra affermarsi (più culturalmente che nei fatti, segnala Rodrik)
una fase di libero-scambio, connessa alla convertibilità delle monete nazionali
in oro (gold standard): ma questa “prima globalizzazione” crolla nei conflitti
protezionistici che confluiscono nella prima guerra mondiale ed i suoi principi
liberisti non riescono a risollevarsi nelle successive crisi, che precipitano
nel secondo conflitto mondiale.
Il nuovo ordine mondiale
(emisfero comunista escluso) progettato nel 1944 a Bretton Woods dai banchieri occidentali,
influenzati da Keynes, è oggetto di attenzioni e simpatie da parte di Rodrik,
che sottolinea come lo sviluppo di più intensi scambi commerciali tra gli stati
industrializzati venga affiancato da un rigoroso controllo dei movimenti dei
capitali e da regimi commerciali differenziati con i paesi sottosviluppati che
– mentre proteggono l’agricoltura dei paesi ricchi – non escludono per alcune
aree del terzo mondo l’avvio di politiche industriali protette, sia per la
sostituzione delle importazioni, sia per alcuni tentativi di fondare imprese
esportatrici (Taiwan, Sud-Corea e altre “tigri del pacifico”, nel cui successo però Rodrik non sembra
cogliere l’importanza del favore geo-politico e militare offerto dagli U.S.A.
in chiave anti-comunista, similmente a quanto accaduto per l’Europa occidentale
– e in particolare per i paesi sconfitti, Germania Ovest ed Italia - e analogamente
a oriente per il Giappone).
Alla crisi degli anni ’70 in
occidente, che Rodrik presenta soprattutto sul versante finanziario, con
l’eccesso di “petro-dollari” ed “eurodollari” derivante dagli sbilanci
commerciali degli U.S.A., (ma che a mio
avviso include intraprendenza sindacale e ribellismo giovanile, autonomia dei
paesi produttori di petrolio, lotte anti-coloniali e sconfitta nel Vietnam)
e a fronte del successivo crollo del blocco sovietico, si risponde con l’abbandono
delle regole di Bretton Woods (e della convertibilità aurea del dollaro),
promuovendo la piena libertà di movimento dei flussi finanziari ed una
crescente riduzione delle barriere daziarie (prima con gli Accordi G.A.T.T. e
poi con l’Organizzazione Mondiale del Commercio), mentre il Fondo Monetario
Internazionale e la Banca Mondiale (ed
il coro dei principali economisti, Milton Friedman in testa) affermano il
cosiddetto “Washington Consensus”, che prescrive, uniformemente per tutti i paesi ricette di
privatizzazioni, liberalizzazioni e globalizzazione come garanzie di sicuro
successo.
All’opposto, Rodrik rammenta
che ogni scelta innovativa di maggior libertà commerciale (ad esempio la
riduzione di un dazio) – così come le innovazioni tecnologiche – deve essere
valutata nel concreto, misurando tutti i possibili ”benefici comparati”,
tenendo conto degli interessi dei vari soggetti sociali coinvolti (imprese,
lavoratori dei diversi settori economici; famiglie e consumatori), e che gli
economisti non dovrebbero mai innamorarsi di uno specifico paradigma,
scambiando così la parte per il tutto.
Proprio nella fede univoca
negli automatismi positivi dei mercati, secondo Rodrik, si annida il nocciolo
degli errori, che diviene cecità nell’incapacità di vederne i limiti nelle
crisi, non solo locali, che si manifestano dagli anni ’90, specificamente
analizzate dal testo in esame, dalle stesse “tigri asiatiche” all’Argentina,
mentre, nota Rodrik, il diverso sviluppo di India e Cina (ed in passato del
Giappone) dimostra proprio di avvenire in contrasto con le regole liberiste e per la Cina, in particolare, con un uso
parziale, pragmatico e spregiudicato degli strumenti offerti dalle esperienze
capitalistiche dell’Occidente.
Ulteriore e definitiva
controprova dell’insuccesso delle dottrine globaliste/neo-liberiste, per Rodnik
è poi ovviamente la grande crisi innescata nel 2007 dai “mutui sub-prime” e dal
fallimento di Lehman Brothers, nonché in particolare dai suoi inviluppi
nell’area euro, dove Rodnik (come esplica pienamente nella prefazione del 2014)
vede confermata la sua teoria del “trilemma” (incompatibilità del “rapporto a
tre” tra globalizzazione/stati nazionali/democrazia), perché l’Europa, pur
avendo impiantato poderose istituzioni sovranazionali a sostegno della
unificazione dei suoi mercati, non ha conseguito ancora la natura di
super-stato federale ed integralmente soggetto al controllo democratico dei
suoi cittadini: da ciò le sorti divergenti delle singole economie nazionali e
l’abbandono dei paesi più deboli alla loro sorte (Rodrik però erroneamente. a pag. 253, trascura alcuni fatti, come il
flusso di aiuti europei in favore della Spagna e delle sue banche, superiore a
40 miliardi di € tra 2012 e 2013 – pag. 253).
Anche
dai limiti dell’esperienza dell’Unione Europea, l’Autore rafforza la sua
convinzione che la soluzione ai problemi emersi nel dilagare della
globalizzazione non possa essere la progressiva estensione dei flebili poteri
delle autorità sovranazionali, sostanzialmente tecnocratiche, tipo Fondo
Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale per il
Commercio (ma anche la stessa
ONU) bensì una serie di correttivi che restituiscano una parziale maggior
autonomia agli stati nazionali, soggetti al controllo democratico: ambiti
consolidati, in cui credibili autorità possono far valere gli standard di
qualità dei prodotti e dei modi di produzione (anche riguardo ad ambiente,
salute, lavoro), del tutto aleatori, secondo Rodrik, a scala internazionale.
(Per inciso, Rodrik, per nulla interessato alle tematiche dei
limiti ecologici allo sviluppo, affronta il tema del riscaldamento globale
come problema comune dell’umanità, ma solo per usarlo come esempio di
collaborazione internazionale necessaria e possibile – con un generico ottimismo in proposito -, diversamente
dell’economia, che per Rodrik non può essere in quanto tale un “bene comune
sovranazionale”, bensì in prevalenza a carattere nazionale).
Nella parte finale del saggio,
Rodrik specifica con un certo dettaglio le sue proposte di “globalizzazione
intelligente” (ovvero temperata da una minor pretesa di omogeneità normativa e
da un maggior spazio per le autonomie nazionali), che però mi sembra oscillino tra il puro buon senso ed una discreta
dose di velleitarismo illuminista (non inferiore a mio avviso a quello esibito
dai “sovranazionalisti”) e quindi mi risultano assai meno convincenti delle sue
analisi.
Ad
esempio Rodrik ipotizza la facoltà di deroga temporanea unilaterale per i
singoli stati dai trattati di libero scambio, a protezione di specifici settori
economici, perché confida che tali deroghe sarebbero comunque moderate dal
confronto interno allo Stato promotore, nell’emergere dei diversi interessi,
poniamo, dei produttori piuttosto che dei consumatori.
Oppure
suggerisce agli stati più progrediti di programmare significativi tassi di
immigrazione, legale e temporanea, di lavoratori dai paesi poveri, nell’ordine
di un 3%, per favorire il contestuale sviluppo sia delle economie avanzate che
di quelle arretrate.
In
entrambi i casi mi pare che Rodrik, dopo aver censurato i teorici della
perfetta razionalità dei mercati, cada nel simile errore di sopravvalutare la
razionalità dei processi politici, trascurando invece i meccanismi reali di cui
è fatto il consenso nei paesi democratici (e ne sono recente testimonianza sia
il suo paese natale, con Erdogan osannato da una tenace maggioranza
nazional-islamista, sia il suo paese di adozione, che ha appena eletto Trump
sia pure con risicata maggioranza dei soli “grandi elettori”), e non disponendo
d’altronde di alcuna ricetta risolutiva per gli stati autoritari (salvo
rifiutare loro clausole commerciali di favore da parte degli stati più
democratici).
Altrettanto
velleitarie mi sembrano da ultimo le proposte per “ammansire” la Cina,
convincendola a rinunciare a politiche commerciali aggressive (quali la
persistente sottovalutazione della sua moneta) e il conseguente surplus della
bilancia commerciale, accettando invece ampie deroghe in favore degli “aiuti di
stato” nelle politiche industriali (che a mio modesto avviso avrebbero lo
stesso effetto di dumping sui prezzi).
Cioè,
mi chiedo, dacché la globalizzazione finora conosciuta arranca o sta fallendo, applicando
invece le ragionevoli prescrizioni di Rodrik, una volta svuotate le pretese
pan-razionali dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio, si possono
veramente esorcizzare i rischi di ritorni a forme di protezionismo e
mercantilismo aggressive, e con le guerre commerciali, i conseguenti rischi di
fomentare anche le guerre guerreggiate (che già dilagano come conflitti di
origine regionale e pseudo-religiosa)?
E
– velleitarismo per velleitarismo, utopia per utopia – mi chiedo invece se la
strada giusta non possa essere quella tentata dalla vituperata Europa (ora
purtroppo veramente in ribasso) e cioè aggregare in forma federale le realtà
statuali a scala dei singoli continenti, riducendo il numero dei grandi
soggetti mondiali, sia nei mercati che negli interessi geo-politici, e quindi
così disinnescare alla radici le ragioni dei conflitti tra nazioni, sia
economici che militari. Dando spazio invece ad uno sviluppo delle
contraddizioni sociali, attorno alle ragioni del buon vivere e quindi con un
debito ascolto alla sofferenza dei poveri ed alla crisi ecologica del pianeta
su cui abitiamo.
Fonti:
- Dani
Rodrik - “LA GLOBALIZZAZIONE INTELLIGENTE” - Laterza, Bari 2014
- David
Graeber – “DEBITO. I PRIMI 5.000 ANNI” - Il Saggiatore, Milano 2012
- Giovanni
Arrighi - “IL LUNGO XX SECOLO. Denaro, potere e le origini del nostro
tempo” – Il Saggiatore, Milano 2014
- Angus
Deaton - “LA GRANDE FUGA – salute, ricchezza e origini della
disuguaglianza” - Il Mulino, Bologna 2015
- Daron
Acemoglu e James A. Robinson - “PERCHE’ LE NAZIONI FALLISCONO - Alle
origini di potenza, prosperità, e povertà” – Il Saggiatore, Milano 2014
Nessun commento:
Posta un commento