giovedì 19 gennaio 2017

UTOPIA21 - GENNAIO 2017: ”LA GLOBALIZZAZIONE INTELLIGENTE” DI DANI RODRIK.


”LA GLOBALIZZAZIONE INTELLIGENTE” DI DANI RODRIK.

di Aldo Vecchi



La rigorosa e argomentata critica alla globalizzazione e dei suoi colleghi economisti da parte di un Autore accademico e non certo anti-capitalista; i limiti delle sue proposte correttive ed il ruolo dell’Europa.  

Riassunto – L’incapacità di spiegare le crisi da parte del pensiero economico dominante, schiacciato sulla globalizzazione “a prescindere”. La storia dei mercati, sempre creati da un ruolo specifico della mano pubblica. Il “trilemma” globalizzazione/democrazia/stati nazionali, dove uno dei tre poli è sempre incomodo. L’impossibilità di un governo mondiale e i limiti dell’esperienza europea. Consigli per una globalizzazione ben temperata.  Dubbi e diverse opinioni del recensore.

Dani Rodrik, economista accademico statunitense di origini turche, è divenuto abbastanza popolare presso i “sovranisti” e gli anti-europei per le sue critiche alla globalizzazione in parte già anticipate in un testo del 1997 e pienamente sviluppate nel saggio del 2011 “La globalizzazione intelligente” (Laterza, Bari, pagg. 323), rieditato nel 2014 con una ulteriore prefazione dedicata alla crisi dell’Europa.
Il bersaglio contro cui Rodrik lancia le sue acuminate frecce polemiche, tutte ben documentate, è il pensiero pseudo-scientifico prevalente tra i suoi colleghi economisti che sostengono la globalizzazione “a prescindere”, quale buona in sé, così come continuano imperterriti ad esaltare l’automatica intelligenza dei mercati, che nel frattempo, di crisi in crisi, combinano invece immensi guai, sfuggendo alle presuntuose previsioni degli apprendisti stregoni delle Facoltà di economia. 
Già nell’introduzione del 2011 Rodrik sintetizza il suo pensiero, sia riguardo all’inefficienza di una globalizzazione spinta, perché foriera di instabilità dei mercati e soprattutto del mercato dei capitali, sia riguardo al conflitto tra globalizzazione/democrazia/stati nazionali, un “trilemma” in cui, secondo Rodrik sono possibili equilibri ed effettive conciliazioni solo assumendo i termini a due a due: il connubio tra globalizzazione e stati nazionali tende a comprimere la democrazia, la quale può svilupparsi entro gli stati solo difendendosi da troppa globalizzazione, mentre una globalizzazione democratica sarebbe immaginabile (ma secondo Rodrik non è realizzabile) solo disciogliendo gli stati in solide istituzioni planetarie.
Ma il saggio di Rodrik è anche molto di più di questo schema, perché si articola in un lungo e puntuale percorso storico sulla evoluzione del rapporto tra stati e mercati (dopo il medioevo) e – dopo una ricca analisi delle contraddizioni contemporanee di economia ed economisti – si conclude con una ambiziosa gamma di proposte operative.
Poiché “La globalizzazione intelligente” è già stato recensito prima di me da altri più validi autori, cui rimando (vedi “Fonti” in appendice), non mi dilungo più di tanto nel riassumerlo.
Mi sembra rilevante però segnalare che l’Autore, critico della globalizzazione ma convinto sostenitore del capitalismo (come esplicita a chiare lettere nel capitolo XI) ed anche dei vantaggi derivanti dal commercio internazionale (se opportunamente “dosati”), legge correttamente, cioè con il dovuto realismo, i rapporti tra stato e mercato (in termini non dissimili dall’anti-capitalista David Graeber) e le vicende del colonialismo e dell’imperialismo (anche post-coloniale) come un regime di scambi iniqui tra paesi dominanti e dominati (con valutazioni non lontane da quelle dell’anti-imperialista Giovanni Arrighi), ed in questo si differenzia nettamente dai pregiudizi correnti tra gli economisti anglo-americani, come ad esempio il suo  connazionale di origine Acemoglu oppure lo stesso Deaton.. 
Nella parte storica, infatti, Rodrik evidenzia il ruolo preminente degli stati nazionali, e soprattutto delle potenze coloniali, nel costituire le premesse per l’esistenza stessa dei mercati e per il progressivo abbattimento dei “costi di transazione”, che non sono solo i dazi e le monete, bensì le barriere linguistiche e culturali, le incertezze giuridiche e soprattutto la sicurezza/insicurezza militare, ecc.
Malgrado l’orientamento mercantilista dei singoli stati, più favorevoli ai propri monopoli che alla libera concorrenza, nell’Ottocento, sotto l’egemonia dell’imperialismo britannico, sembra affermarsi (più culturalmente che nei fatti, segnala Rodrik) una fase di libero-scambio, connessa alla convertibilità delle monete nazionali in oro (gold standard): ma questa “prima globalizzazione” crolla nei conflitti protezionistici che confluiscono nella prima guerra mondiale ed i suoi principi liberisti non riescono a risollevarsi nelle successive crisi, che precipitano nel secondo conflitto mondiale.
Il nuovo ordine mondiale (emisfero comunista escluso) progettato nel 1944 a  Bretton Woods dai banchieri occidentali, influenzati da Keynes, è oggetto di attenzioni e simpatie da parte di Rodrik, che sottolinea come lo sviluppo di più intensi scambi commerciali tra gli stati industrializzati venga affiancato da un rigoroso controllo dei movimenti dei capitali e da regimi commerciali differenziati con i paesi sottosviluppati che – mentre proteggono l’agricoltura dei paesi ricchi – non escludono per alcune aree del terzo mondo l’avvio di politiche industriali protette, sia per la sostituzione delle importazioni, sia per alcuni tentativi di fondare imprese esportatrici (Taiwan, Sud-Corea e altre “tigri del pacifico”, nel cui successo però Rodrik non sembra cogliere l’importanza del favore geo-politico e militare offerto dagli U.S.A. in chiave anti-comunista, similmente a quanto accaduto per l’Europa occidentale – e in particolare per i paesi sconfitti, Germania Ovest ed Italia - e analogamente a oriente per il Giappone).
Alla crisi degli anni ’70 in occidente, che Rodrik presenta soprattutto sul versante finanziario, con l’eccesso di “petro-dollari” ed “eurodollari” derivante dagli sbilanci commerciali degli U.S.A., (ma che a mio avviso include intraprendenza sindacale e ribellismo giovanile, autonomia dei paesi produttori di petrolio, lotte anti-coloniali e sconfitta nel Vietnam) e a fronte del successivo crollo del blocco sovietico, si risponde con l’abbandono delle regole di Bretton Woods (e della convertibilità aurea del dollaro), promuovendo la piena libertà di movimento dei flussi finanziari ed una crescente riduzione delle barriere daziarie (prima con gli Accordi G.A.T.T. e poi con l’Organizzazione Mondiale del Commercio), mentre il Fondo Monetario Internazionale e la Banca  Mondiale (ed il coro dei principali economisti, Milton Friedman in testa) affermano il cosiddetto “Washington Consensus”, che prescrive, uniformemente per tutti i paesi ricette di privatizzazioni, liberalizzazioni e globalizzazione come garanzie di sicuro successo.
All’opposto, Rodrik rammenta che ogni scelta innovativa di maggior libertà commerciale (ad esempio la riduzione di un dazio) – così come le innovazioni tecnologiche – deve essere valutata nel concreto, misurando tutti i possibili ”benefici comparati”, tenendo conto degli interessi dei vari soggetti sociali coinvolti (imprese, lavoratori dei diversi settori economici; famiglie e consumatori), e che gli economisti non dovrebbero mai innamorarsi di uno specifico paradigma, scambiando così la parte per il tutto.
Proprio nella fede univoca negli automatismi positivi dei mercati, secondo Rodrik, si annida il nocciolo degli errori, che diviene cecità nell’incapacità di vederne i limiti nelle crisi, non solo locali, che si manifestano dagli anni ’90, specificamente analizzate dal testo in esame, dalle stesse “tigri asiatiche” all’Argentina, mentre, nota Rodrik, il diverso sviluppo di India e Cina (ed in passato del Giappone) dimostra proprio di avvenire in contrasto con le regole liberiste e  per la Cina, in particolare, con un uso parziale, pragmatico e spregiudicato degli strumenti offerti dalle esperienze capitalistiche dell’Occidente.
Ulteriore e definitiva controprova dell’insuccesso delle dottrine globaliste/neo-liberiste, per Rodnik è poi ovviamente la grande crisi innescata nel 2007 dai “mutui sub-prime” e dal fallimento di Lehman Brothers, nonché in particolare dai suoi inviluppi nell’area euro, dove Rodnik (come esplica pienamente nella prefazione del 2014) vede confermata la sua teoria del “trilemma” (incompatibilità del “rapporto a tre” tra globalizzazione/stati nazionali/democrazia), perché l’Europa, pur avendo impiantato poderose istituzioni sovranazionali a sostegno della unificazione dei suoi mercati, non ha conseguito ancora la natura di super-stato federale ed integralmente soggetto al controllo democratico dei suoi cittadini: da ciò le sorti divergenti delle singole economie nazionali e l’abbandono dei paesi più deboli alla loro sorte (Rodrik però erroneamente. a pag. 253, trascura alcuni fatti, come il flusso di aiuti europei in favore della Spagna e delle sue banche, superiore a 40 miliardi di € tra 2012 e 2013 – pag. 253).
Anche dai limiti dell’esperienza dell’Unione Europea, l’Autore rafforza la sua convinzione che la soluzione ai problemi emersi nel dilagare della globalizzazione non possa essere la progressiva estensione dei flebili poteri delle autorità sovranazionali, sostanzialmente tecnocratiche, tipo Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale per il Commercio (ma anche la stessa ONU) bensì una serie di correttivi che restituiscano una parziale maggior autonomia agli stati nazionali, soggetti al controllo democratico: ambiti consolidati, in cui credibili autorità possono far valere gli standard di qualità dei prodotti e dei modi di produzione (anche riguardo ad ambiente, salute, lavoro), del tutto aleatori, secondo Rodrik, a scala internazionale.
(Per inciso, Rodrik, per nulla interessato alle tematiche dei limiti ecologici allo sviluppo, affronta il tema del riscaldamento globale come problema comune dell’umanità, ma solo per usarlo come esempio di collaborazione internazionale necessaria e possibile – con un generico ottimismo in proposito -, diversamente dell’economia, che per Rodrik non può essere in quanto tale un “bene comune sovranazionale”, bensì in prevalenza a carattere nazionale).
Nella parte finale del saggio, Rodrik specifica con un certo dettaglio le sue proposte di “globalizzazione intelligente” (ovvero temperata da una minor pretesa di omogeneità normativa e da un maggior spazio per le autonomie nazionali), che però mi sembra oscillino tra il puro buon senso ed una discreta dose di velleitarismo illuminista (non inferiore a mio avviso a quello esibito dai “sovranazionalisti”) e quindi mi risultano assai meno convincenti delle sue analisi.
Ad esempio Rodrik ipotizza la facoltà di deroga temporanea unilaterale per i singoli stati dai trattati di libero scambio, a protezione di specifici settori economici, perché confida che tali deroghe sarebbero comunque moderate dal confronto interno allo Stato promotore, nell’emergere dei diversi interessi, poniamo, dei produttori piuttosto che dei consumatori.
Oppure suggerisce agli stati più progrediti di programmare significativi tassi di immigrazione, legale e temporanea, di lavoratori dai paesi poveri, nell’ordine di un 3%, per favorire il contestuale sviluppo sia delle economie avanzate che di quelle arretrate.
In entrambi i casi mi pare che Rodrik, dopo aver censurato i teorici della perfetta razionalità dei mercati, cada nel simile errore di sopravvalutare la razionalità dei processi politici, trascurando invece i meccanismi reali di cui è fatto il consenso nei paesi democratici (e ne sono recente testimonianza sia il suo paese natale, con Erdogan osannato da una tenace maggioranza nazional-islamista, sia il suo paese di adozione, che ha appena eletto Trump sia pure con risicata maggioranza dei soli “grandi elettori”), e non disponendo d’altronde di alcuna ricetta risolutiva per gli stati autoritari (salvo rifiutare loro clausole commerciali di favore da parte degli stati più democratici).
Altrettanto velleitarie mi sembrano da ultimo le proposte per “ammansire” la Cina, convincendola a rinunciare a politiche commerciali aggressive (quali la persistente sottovalutazione della sua moneta) e il conseguente surplus della bilancia commerciale, accettando invece ampie deroghe in favore degli “aiuti di stato” nelle politiche industriali (che a mio modesto avviso avrebbero lo stesso effetto di dumping sui prezzi).
Cioè, mi chiedo, dacché la globalizzazione finora conosciuta arranca o sta fallendo, applicando invece le ragionevoli prescrizioni di Rodrik, una volta svuotate le pretese pan-razionali dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio, si possono veramente esorcizzare i rischi di ritorni a forme di protezionismo e mercantilismo aggressive, e con le guerre commerciali, i conseguenti rischi di fomentare anche le guerre guerreggiate (che già dilagano come conflitti di origine regionale e pseudo-religiosa)?
E – velleitarismo per velleitarismo, utopia per utopia – mi chiedo invece se la strada giusta non possa essere quella tentata dalla vituperata Europa (ora purtroppo veramente in ribasso) e cioè aggregare in forma federale le realtà statuali a scala dei singoli continenti, riducendo il numero dei grandi soggetti mondiali, sia nei mercati che negli interessi geo-politici, e quindi così disinnescare alla radici le ragioni dei conflitti tra nazioni, sia economici che militari. Dando spazio invece ad uno sviluppo delle contraddizioni sociali, attorno alle ragioni del buon vivere e quindi con un debito ascolto alla sofferenza dei poveri ed alla crisi ecologica del pianeta su cui abitiamo.

Fonti:

  1. Dani Rodrik - “LA GLOBALIZZAZIONE INTELLIGENTE” - Laterza, Bari 2014
  2. David Graeber – “DEBITO. I PRIMI 5.000 ANNI” - Il Saggiatore, Milano 2012
  3. Giovanni Arrighi - “IL LUNGO XX SECOLO. Denaro, potere e le origini del nostro tempo” – Il Saggiatore, Milano 2014
  4. Angus Deaton - “LA GRANDE FUGA – salute, ricchezza e origini della disuguaglianza” - Il Mulino, Bologna 2015
  5. Daron Acemoglu e James A. Robinson - “PERCHE’ LE NAZIONI FALLISCONO - Alle origini di potenza, prosperità, e povertà” – Il Saggiatore, Milano 2014
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