Preliminare al
dibattito su quanto le città siano oggi sostenibili, e su quanto lo saranno in
futuro, è chiarire cosa sono divenute “città” e “campagna”, in scenari di
crescenti “metropolizzazioni”, ma molto differenziati nei diversi continenti.
Quel che conta alla
fine è il saldo della impronta ecologica di ogni porzione di territorio
rispetto al resto del pianeta.
Questo articolo propone
una rassegna critica delle principali teorie in materia di sostenibilità
urbana, iniziando in questo numero dalle discipline più generaliste e passando
poi nelle successive due puntate agli approcci più strettamente disciplinari
proposti da urbanisti e dintorni.
.
Riassunto:
la premessa: citta’ e
campagne, oggi
la decrescita felice
l’approccio illuminista
del Wuppertal Institut
il movimentismo di
Guido Viale
l’ottimismo
tecnologico: Legambiente e Green Life; il Manifesto della Fondazione per lo Sviluppo
Sostenibile
l’ottimismo tecnologico:
Jeremy Rifkin e la terza rivoluzione industriale
l’ottimismo tecnologico:
Smart Cities ovvero i rischi di un eccesso di intelligenza
il pessimismo
antropologico di La Cecla, contro l’urbanistica e contro l’urbanesimo
PREMESSA: CITTA’ E
CAMPAGNE, OGGI
Nel
dibattito sulla sostenibilità ambientale dei futuri sviluppi dei sistemi urbani
si manifesta una immediata contrapposizione tra chi demonizza la città come
fenomeno essenzialmente anti-ecologico (per l’insieme degli impatti ambientali,
per gli stili di vita e di consumi) 1 e chi invece vede proprio nelle
città i luoghi privilegiati dell’innovazione, sia tecnologica che sociale,
anche nella direzione di una maggior efficienza energetica e produttiva,
abitativa e trasportistica 2.
La
crescita delle città appare ineluttabile, e negli ultimi decenni si susseguono
le ricerche statistiche – per il passato ed il presente - e le proiezioni e
previsioni – per il futuro -, su quanta parte dell’umanità si concentri nelle
aree urbane (parrebbe dal 50% di oggi al 75% nel 2050) e sulla dimensione
demografica delle diverse metropoli; mobilitando scienziati di diverse
discipline, non sempre convergenti né per metodi né per contenuti: geografi e
demografi, urbanisti e antropologi, economisti e paesaggisti, sociologi ed
ecologi.
Nella
crescita urbana si sovrappongono diversi fenomeni: il classico inurbamento di
popolazione che immigra da territori circostanti oppure remoti; la conurbazione
tra porzioni edificate di compagini urbane contigue; la “metropolizzazione”,
intesa come interrelazione profonda tra poli urbani fortemente attrattivi ed
aree abitate, anche non contigue, ma coinvolte da un processo osmotico di flussi
di persone/cose/informazioni: interrelazione che diffonde nei fatti un
complessivo stile di vita urbano in territori differenziati, per
caratteristiche e densità, ma gravitanti attorno ad uno o più nuclei, riconoscibili come centrali.
Ci
troviamo quindi di fronte a nuove e più complesse nozioni di città: metropoli,
megalopoli, post-metropoli… 3-4-5-6-7-8-9-10-11-12
E
tali definizioni vanno diversamente declinate a seconda che si parli del mondo
occidentale (comunque con forti differenze ancora tra Europa ed America), di
altri paesi a forte sviluppo economico consolidato (Australia, Giappone, Corea,
Taiwan, Singapore, Emirati Arabi, ecc.), della specifica dinamica della Cina,
oppure delle restanti parti del mondo dove, a diverse dinamiche
socio-economiche, corrisponde comunque un diffuso inurbamento assai disordinato
(forse meno in Russia, Iran, Turchia) e caratterizzato da vaste sacche di slums
(spesso associate a discariche di rifiuti), dal sub-continente Indo-Pakistano e
contiguo sud-est Asiatico, a gran parte dell’America Latina, per finire al
Medio-Oriente e all’Africa, regioni in
cui spesso la spinta all’inurbamento è moltiplicata dagli effetti di endemiche
condizioni di guerra. 13
La
comprensione dei fenomeni urbani si integra con la analisi dei territori
circostanti, dove ad un certo punto la città finisce, ma non è più così chiaro
ed univoco se inizia la “campagna” e di quale campagna si tratti.
Permane
nella nostra visione mentale di occidentali contemporanei la concezione di un
rapporto complementare tra città e campagna, dove la prima consuma, trasforma e
dirige la produzione di materie prime, alimentari e non alimentari, di cui la
campagna dominata cede il surplus (rispetto ai suoi fabbisogni elementari e/o
compressi), ricevendone in cambio servizi e protezione: una narrazione valida
forse per il Medio Evo, ma largamente sconvolta sia dal lungo processo della
rivoluzione industriale sia dall’intensificazione degli scambi commerciali (già
fiorenti per altro nel mondo antico, anzi dalla preistoria, e non eclissati più
di tanto nello stesso medio-evo), che negli ultimi decenni hanno raggiunto lo
stadio della cosiddetta “globalizzazione”.
Cosicché
la pera cilena è ugualmente consumata in diverse città del mondo, ma anche
nelle campagne attigue, i cui prodotti sono a loro volta distribuiti a distanze
variabili a seconda delle convenienze di imprese e mercati ed in relazione all’efficienza
del sistema dei trasporti, innervato sì attorno alla rete dei nodi urbani, ma
senza una chiara ed univoca gerarchia radiale tra la singola città ed il “suo contado”:
non tutto il riso prodotto nelle risaie vercellesi deve transitare necessariamente
dai magazzini di Vercelli.
Solo
in parte, pertanto, è possibile ricostruire un modello di scambi ecologici
“classici” tra una città che inquina ed un territorio esterno che subisce la
domanda di acqua, cibo e altri materiali, energia, aria pulita, e smaltisce
rifiuti solidi, liquidi e gassosi (in particolare è divenuto opportuno per
alcune grandi città italiane esportare a grande distanza i rifiuti solidi
eccedenti…); occorre invece considerare come tali “territori esterni” a loro
volta possono inquinare, per il carattere intensivo delle produzioni agro-alimentari
ed industriali insediate, per il carico insediativo disperso e le connesse reti
di trasporto, per la minor efficienza energetica di strutture edilizie ed
impianti idraulici e termici (si pensi ad esempio alle emissioni in atmosfera
da stufe e camini alimentati a legna, oppure all’immissione nel suolo i liquami
poco depurati): cioè sia per alcune componenti “cittadine” diffuse in campagna, sia per alcune
specifiche arretratezze “campagnole”.
Nella
grande varietà degli assetti territoriali, possiamo trovare campagne vampirizzate
o sminuzzate dal rapporto soffocante con l’invadenza metropolitana e/o
turistica, campagne coltivate e/o industrializzate ma asservite a processi
produttivi remoti, campagne marginalizzate dal disinteresse attuale dei mercati
per le loro capacità produttive, insediative e logistiche.
La
questione della “sostenibilità urbana” è quindi a mio avviso strettamente
intrecciata a quella più complessiva della “sostenibilità territoriale”, e cioè,
alla fin fine, al saldo dei flussi ecologici tra ogni porzione di territorio,
ragionevolmente individuabile ai fini conoscitivi e di governo (e comprendente,
per lo più, sia il dentro che il fuori delle “città”), ed il resto del pianeta;
ovvero alla cosiddetta “impronta ecologica”: quanto suolo e quante risorse,
anche remoti, sono variamente asserviti alla sopravvivenza dell’insediamento
umano in esame, per tutti i suoi bisogni (e sfizi), materiali ed immateriali. 14
Ciò
dipende sia dagli assetti geo-politico-economici complessivi (e conflittuali)
del consorzio umano a scala planetaria (ovvero: quanto finanz-capitalismo e
quanta globalizzazione; quanto “sviluppo” tra paesi emergenti, emersi e
sommersi; quanto degrado energetico ed ecologico; quante migrazioni e quanto
“welfare”; quante guerre ed armamenti, convenzionali e non; ecc.) sia dalla
evoluzione specifica, nelle varie parti del mondo, di singole filiere
“produttive”: informazione e comunicazioni, automazione, energia,
alimentazione, mobilità, edilizia, salute, ecc.; nonché dei settori più ampi e “trasversali”,
quali la logistica, l’istruzione e la
ricerca scientifica e tecnologica. 15-16-17
Tuttavia
in questa prospettiva universale e onnicomprensiva, in cui francamente è
difficile dire “da dove iniziare” a capire e ad agire (ma questo sito sta tra
coloro che si sforzano per orientarsi almeno un po’), esiste anche, con qualche
legittimità culturale, uno spazio specifico di dibattito sulle questioni urbane
ed urbanistiche, in chiave di sostenibilità.
Con
la riserva di tenere presente comunque quanto finora esposto in termini di
correlazione tra città e territorio e tra politiche insediative e contesto
socio-economico complessivo, nel seguito di questo contributo mi propongo di
passare in rassegna criticamente (in
corsivo le mie critiche) quelle che mi sembrano le principali teorie in
argomento: in questa prima parte con attenzione ai risvolti territoriali di
proposte politico economiche più generali, e sui due prossimi numeri con
attenzione alle posizioni più aderenti ai confini disciplinari dell’urbanistica
(anche se si tratta di una distinzione più pratica che teorica).
LA DECRESCITA FELICE
Una lezione tenuta a
Parma da Serge Latouche nel febbraio 2011 nell’ambito di un convegno sulle
“Politiche di sviluppo sostenibile per le piccole comunità urbane sfavorite” 18, che quindi sollecitava a pronunciarsi anche sugli
aspetti territoriali della questione, conferma le sue teorie, riassunte nell’occasione
da Paolo Ventura come “orizzonte di obiettivi di lungo periodo da conseguire progressivamente
al fine di ritrovare una ’impronta ecologica’ sostenibile”, con la seguente
articolazione:
-
“uno
sviluppo urbano tale da ridurre i trasporti (privati) e rilocalizzare le
attività;
-
il
rilancio dell’agricoltura contadina;
-
la
trasformazione degli incrementi di produttività in riduzione dei tempi di
lavoro ed in crescita dell’occupazione;
-
il
rilancio della produzione di ‘beni relazionali’;
-
la
riduzione degli sprechi di energia;
-
la
riduzione del ruolo della pubblicità;
-
il
ri-orientamento della ricerca tecnica e
scientifica;
-
la
protezione dallo scambio ineguale delle attività economiche minori tramite ‘monete
locali’ e ‘monete complementari’.”
In questo elenco –
tranne forse sull’ultimo punto, più originale e più nebuloso - credo possano
riconoscersi in larga misura anche tutti i sostenitori delle più tradizionali
concezioni dello sviluppo sostenibile (es. carta di Aalborg del 1994, e Aalborg
commitments del 2004): si sbagliano forse, perché questo insieme di misure
comporta necessariamente la ‘decrescita’?
Dove sta la specificità
della proposta della decrescita felice, recentemente ribattezzata
“dell’abbondanza frugale” (andando oltre la formulazione piuttosto
autarchico-solipsista e passatista esposta da Maurizio Pallante 1)?
Latouche articola la
“strategia” essenzialmente in due ambiti:
-
quello
africano, o terzo-mondista, dove in sostanza non si ha nulla da perdere e tutto
da guadagnare in una rapida “fuori-uscita dallo sviluppo”, anche approfittando
dell’attuale crisi come favorevole occasione
-
quello
euro-occidentale in cui più è difficile la disintossicazione dai falsi bisogni
e dove quindi si ipotizza un lungo percorso verso la de-mercificazione, da un
lato tramite la battaglia culturale per cambiare l’immaginario collettivo, e da
un altro lato tramite la sperimentazione di
“alleanze” con “le imprese miste”, gli alter-mondisti e i sostenitori
dell’economia solidale.
La proposta, comunque poco articolata riguardo alla
operatività concreta per le città occidentali, risulta più chiara nella sua
parte analitica e critica sugli eccessi del consumismo e sui paradossi della
“crescita” del PIL e francamente ancora piuttosto oscura nei suoi sviluppi
propositivi,
perché non spiega quali soggetti,
muovendosi dalle proprie idee oppure anche dai propri interessi, possano
riuscire a conseguire un progressivo consenso maggioritario, nelle aree
attualmente sviluppate, in favore della “decrescita felice”, né tanto meno
quali siano le possibili tappe intermedie, ragionevolmente equilibrate, di tale
processo.
E neppure ipotizza esplicitamente che la sottrazione delle
aree terzo-mondiali più sfruttate dal circuito dello sviluppo possa accentuarne
la crisi producendo squilibri forse drammatici, ma potenzialmente a lieto fine.
In assenza di una esplicita teorizzazione di possibili fasi
di rotture catastrofiche dell’attuale sistema sviluppista, da gestire con segno
alternativo, oppure direttamente rivoluzionarie, ne risulta una sorta di
“riformismo estremista”, ma con un orizzonte senza tempo, e soprattutto senza
specificazioni riguardo alle modalità felici di accettazione della decrescita
da parte dei popoli più “sviluppati”, se non attraverso l’auspicio di uno
spontaneo mutamento dei paradigmi culturali dalla competizione alla
collaborazione.
Anche nei successivi saggi 19, Latouche cerca –
con risultati a mio avviso poco risolutivi - di dimostrare la compatibilità
della decrescita sia con il capitalismo che con la democrazia, e l’inutilità di
una ricerca dei “soggetti sociali protagonisti”, affidandosi invece alla sola
crescita culturale degli “individui”.
L’ILLUMINISMO DEL WUPPERTAL INSTITUT
Orientamenti comparabili
figurano nei saggi del Wuppertal Institut a cura di Wolfgang Sachs e
collaboratori 20-21, commissionati nel 2005 e nel 2010 in Germania
da organismi ambientalisti e religiosi, e promossi in Italia da “Terra Futura”,
cui aderiscono tra gli altri ACLI, CISL, Caritas e ARCI.
Sachs&C. non si
occupano dettagliatamente delle città (indicate come meta obbligata dei
contadini espulsi dalle campagne a causa dell’agricoltura monoculturale
orientata alle esportazioni e/o dall’impoverimento delle risorse naturali
determinato da dighe e attività estrattive ed industriali inquinanti), pur
individuando significative articolazione locali delle strategie proposte:
- politiche urbane ecologiche in materia di
energia, trasporti, approvvigionamenti di materie e gestione dei rifiuti,
- enti locali come
possibile soggetto di nuovi equilibri ecologici,
- “regionalizzazione”
degli scambi economici come necessario temperamento agli eccessi della
globalizzazione (anche con la sperimentazione di ‘monete locali’ – vedi
precedente paragrafo),
- cooperazione locale
in materia di acquisti, impiego del risparmio, gestione dei beni comuni, scambi
non mercantili di tempo di vita ed iniziative dal basso.
Sachs &C affrontano
con sistematicità ed equilibrio tutti gli aspetti della sostenibilità
ambientale, economica e sociale nella biosfera di oggi e di domani, ed in
particolare:
- i limiti, non ancora
conosciuti e non rigidi, ma ineluttabili, delle risorse disponibili e
rigenerabili
- le differenze
crescenti di benessere, non solo tra gli stati, ma tra i diversi gruppi sociali
all’interno degli stati
- gli effetti perversi
degli scambi commerciali “alla pari” tra economie e società intrinsecamente differenti
ed individuano un
orizzonte, necessario e forse possibile, di convergenza dei livelli di
pressione ambientale tra paesi ricchi e paesi poveri su un livello medio
virtuoso (con difficile ricerca di standard di sostenibilità, quali ad esempio
2.000 km annui di mobilità individuale oppure 2.000 Watt annui di consumo
energetico pro-capite), da conseguire combinando
- innovazione
tecnologica,
- efficienza
anti-sprechi
- e soprattutto
“sufficienza” (cioè sobrietà) dei consumi, non solo da parte delle minoranze
privilegiate dei paesi ricchi, ma anche da parte
§ dei ceti emergenti dei
paesi in via di sviluppo, la cui imitazione dei livelli occidentali di opulenza
avrebbe effetti pesanti sugli equilibri ecologici e sociali,
§ della massa dei consumatori dei paesi
sviluppati, proponendo in sostanza una riduzione degli orari di lavoro ed in
parallelo anche dei salari medi.
Sachs&C.
approfondiscono in particolare le contraddizioni del diritto internazionale,
tra i principi fondatori dell’ONU sui diritti dell’uomo (1948) e gli sviluppi
ambientalisti della Conferenza di Rio (1992 e seguenti fino ed oltre Kyoto -
1997), da un lato, e l’insieme degli accordi commerciali, dal GATT al WTO, dal
lato opposto; tali trattati - pur riportando nelle premesse alcuni riconoscimenti
sui diritti dei popoli e delle persone - definiscono un sistema giuridico ed
operativo rigidamente liberista e di fatto impermeabile alle ragioni di tutela
delle comunità locali, dei loro prodotti e dei loro saperi, con effetti spesso
distruttivi delle basi di sopravvivenza delle formazioni sociali più deboli, e
di impoverimento dei paesi più poveri.
Gli autori sembravano
riporre nel 2005 specifiche speranze nell’Europa, in quanto originaria ‘patria
del cosmopolitismo’ e per gli sprazzi di autonomia dall’egemonia USA,
manifestati ad esempio contro la guerra in Irak ed in favore degli accordi sul
clima; nel 2010 appaiono più pessimisti, in considerazione dei comportamenti
egoistici che anche l’Europa continua a manifestare nei rapporti di scambio commerciale
con i paesi poveri, a partire dal settore agro-alimentare.
Sachs&C. articolano le loro proposte operative, da
rendere tendenzialmente compatibili con un’economia di mercato ricondotta ‘a
ragione’ sia ‘dall’alto’, con nuove norme (nazionali ed internazionali),
incentivi e politiche di persuasione, sia ‘dal basso’, con suggerimenti per
iniziative a livello locale ed anche per un diverso comportamento soggettivo
dei singoli cittadini, in quanto consumatori e risparmiatori, bricoleurs e
potenziali ciclisti.
Ma nei loro testi, permeati da appelli kantiani alla
giustizia e ad un “nuovo cosmopolitismo”, l’analisi sui soggetti sociali e
politici che – nei diversi contesti
nazionali - potrebbero essere protagonisti delle svolte invocate, si riduce
all’appello ad una “Nuova Internazionale”, ovvero il collegamento -
innanzitutto via Internet - tra
molteplici minoranze illuminate, che sperimentano comportamenti virtuosi in
campo agricolo oppure energetico oppure tecnologico (ed anche nella finanza
equa e solidale) e in tal modo maturano le risposte per illuminare e
influenzare le parti restanti e resistenti delle diverse società nazionali,
incalzandole in particolare man mano che vengono al pettine i nodi della crisi
di esaurimento delle risorse, del clima e dell’attuale modello di sviluppo.
Diverso sarebbe il mio giudizio se tali proposte fossero
fatte proprie pienamente da forze politiche di massa in grado di contendere il
governo nei principali paesi europei; di mezzo ci sono ancora enormi problemi
di egemonia e di orientamento culturale e antropologico dei segmenti sociali
potenzialmente interessati: se appare possibile
diffondere modelli di consumo più bio-compatibili, equi e solidali,
assai più difficile mi sembra promuovere in occidente un progetto generale
di austerità, fondato sulla riduzione di
salari ed orari di lavoro.
Poco sviluppata mi sembra anche l’attenzione alla crisi
socio-economica e finanziaria in atto, ben indagata quale effetto dello
sviluppo industrialista e finanziario, liberista e neocolonialista, ma non
altrettanto esaminata come possibile crogiolo di mutamenti drammatici, non
necessariamente nella positiva direzione auspicata.
IL MOVIMENTISMO DI GUIDO VIALE
Guido Viale (mezzo secolo addietro tra i fondatori di
Lotta Continua ed ora economista specializzato sul “riciclo” ed intellettuale in
una sinistra inquieta, tra Tsipras ed “Il manifesto”) si distingue anche
dalla parola d’ordine della “decrescita felice” (vedi sopra) e dichiara: “Non
sono un fautore della decrescita. Trovo questo concetto povero di contenuti;
inutilizzabile, se non impresentabile, nelle situazioni di crisi (quando a
essere messi in forse sono redditi e posti di lavoro); ambiguo (in quanto
speculare, anche se opposto, a quanto ci viene proposto dagli economisti
mainstream). Non credo che le otto "R" di Latouche (rivalutare,
riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre,
riutilizzare, riciclare) apportino al dibattito politico molto più di un
chiarimento concettuale. Però, quando si scende - se mai si scende - sulle cose
da fare o proporre è molto più facile ritrovarsi d'accordo al di là delle formulazioni
dottrinarie. Ma questa diffidenza non significa certo accettazione del diktat
della crescita.” 22-23-24
Nel frattempo, in qualche modo “a prescindere” da una
soluzione generale, quasi che a quel livello oggi si possa dire, come Montale
sotto il fascismo, solo “ciò che noi non siamo e ciò che non vogliano” 25,
Viale
cerca di offrire un orizzonte complessivo ai “movimenti” (dal referendum
sull’acqua ai difensori di altri “beni comuni”, come “Salviamo il Paesaggio”
che propugna una battaglia contro il consumo di suolo, dai Gruppi di Acquisto
Solidali agli agricoltori “a Km zero”), con una interpretazione più
conflittuale delle ‘reti della nuova internazionale’ di Sachs&C. (vedi al
precedente paragrafo) e del “localismo cosmopolita” proposto da Magnaghi (vedi
seconda parte): infatti ritiene che “mano a mano che i processi molecolari si
concretizzano, unificano e rafforzano, i movimenti vengono a confronto ed
entrano in conflitto con il potere della finanza internazionale e dei governi
che ne sono mandatari a livello statuale”.
Ed individua, in tale
prospettiva, i seguenti 6 “pilastri”:
1.
“La
conversione ecologica” come “processo di riterritorializzazione, cioè di
riavvicinamento fisico ("km0") e organizzativo (riduzione
dell'intermediazione affidata solo al mercato) tra produzione e consumo:
processo graduale, a macchia di leopardo e, ovviamente, mai integrale. Per
questo un ruolo centrale lo giocano l'impegno, i saperi e soprattutto i
rapporti diretti della cittadinanza attiva, le sue associazioni, le imprese e
l'imprenditoria locale effettiva o potenziale e, come punto di agglutinazione,
i governi del territorio: cioè i municipi e le loro reti, riqualificati da
nuove forme di democrazia partecipativa.” Con “il passaggio, ----- dal
gigantismo delle strutture proprie dell'economia fondata sui combustibili
fossili alle dimensioni ridotte, alla diffusione, alla differenziazione e
all'interconnessione degli impianti, delle imprese e degli agglomerati urbani
rese possibili dal ricorso alle fonti rinnovabili, all'efficienza energetica, a
un'agricoltura e a una gestione delle risorse (e dei rifiuti), dei suoli, del
territorio e della mobilità condivise e sostenibili.”
2.
“Per
operare in questa direzione è essenziale che i governi del territorio possano
disporre di "bracci operativi" : ovvero “i servizi pubblici” locali,
“restituiti, come disposto dal referendum sull’acqua, a un controllo congiunto
degli enti locali e della cittadinanza, cioè sottratti al diktat della
privatizzazione.”, nonché al patto di stabilità, rinegoziando i debiti ai danni
della “bolla finanziaria”
3.
“l'arresto del consumo di suolo”: se le
strutture e i suoli inutilizzati “non vengono resi disponibili dal vincolo che
lega il bene al suo proprietario occorre procedere con una politica di espropri
e rivendicare una legislazione che la renda praticabile.”
4.
“Il
suolo urbano libero da costruzioni e quello periurbano possono essere
valorizzati da un grande progetto di integrazione tra città e campagna, tra
agricoltura e agglomerati residenziali. Un'integrazione che è stata il pilastro
delle civiltà di tutto il mondo prima dell'avvento della globalizzazione”:
“orti urbani, disseminazione dei Gas, farmer's markets, mense scolastiche e
aziendali, marchi di qualità ecologica per la distribuzione, gestione dei
mercati ortofrutticoli: quanto basterebbe per cambiare l'assetto
dell'agricoltura periurbana e per ri-orientare l'alimentazione della
cittadinanza con filiere corte”.
5.
“La
mobilità sostenibile (attraverso l'integrazione intermodale tra trasporto di
linea e mobilità flessibile: car-pooling, car-sharing, trasporto a domanda e
city-logistic per le merci) e la riconversione energetica (attraverso la
diffusione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili e la promozione
dell'efficienza nelle abitazioni, nelle imprese e nei servizi) costituiscono
gli ambiti fondamentali per sostenere le imprese e l'occupazione in molte delle
fabbriche oggi condannate alla chiusura.”
6.
“La
conversione ecologica è innanzitutto una rivoluzione culturale che ha bisogno
di processi di elaborazione pubblici e condivisi e di sedi dove svilupparli.
---- nelle scuole e nell'università, nell'educazione permanente, nelle
istituzioni della ricerca, nel tessuto urbano, nei mezzi di informazione, sulla
rete.”
Mi sembra molto interessante, pur nella indefinitezza della
prospettiva politica conflittuale, la articolazione concreta delle proposte
(largamente condivisibili) ed anche l’integrazione tra i comportamenti
direttamente praticabili ‘dai movimenti’ e dai soggetti economici locali, il
ruolo assegnato agli enti locali, e la rivendicazione di alcune leggi
progressive a livello di autorità superiori.
L’OTTIMISMO TECNOLOGICO: LEGA AMBIENTE E GREEN LIFE; IL
MANIFESTO DELLA FONDAZIONE SVILUPPO SOSTENIBILE
Con un’intensa
pubblicistica, riassunta nel volumetto “Green Life” 26 di Berrini e
Poggio, e che ebbe buona risonanza con la omonima mostra alla Triennale di
Milano nel 2010 (e nel relativo catalogo 27), intellettuali e
organismi vicini a Legambiente, svolgono una meritoria campagna di informazione
sulle esperienze internazionali (soprattutto europee) più avanzate in materia
di:
- risparmio energetico nell’edilizia
- quartieri ecologici
- trasporti innovativi
- politiche urbane variamente virtuose
in materia ambientale.
La particolare
arretratezza italiana, aggravata da una politica nazionale errabonda in materia
di incentivi energetici ed incline all’improvvisazione in materia di incentivi
alla rigenerazione urbana, rende prezioso ogni suggerimento positivo,
finalizzato a concretizzare ed anticipare gli obiettivi europei in materia di
risparmio energetico e contenimento delle emissioni di CO2 ed altri gas
climalteranti.
Tuttavia, proprio perché l’Italia parte da una situazione
arretrata, mi sembrerebbe necessario approfondire meglio quale sia la strada
migliore da seguire per la realtà italiana, verificare dove portano le
esperienze straniere, capire se sia davvero possibile uno sviluppo sostenibile,
oppure se si rischia di ricopiare forme attenuate di congestione ed
invivibilità.
Approfondimenti che mi pare manchino presso gli autori
citati, sostituiti da una sorta di ottimismo tecnologico (che nella mostra
milanese si proiettava anche acriticamente sui prodotti delle aziende
sponsorizzatrici).
E’ inoltre apprezzabile, contro i teorici della “decrescita
felice”, la citazione del compianto Alex Langer, che già nel 1994 sosteneva che
“la conversione ecologica potrà affermarsi solo se apparirà desiderabile”: ma
la conclusione di Poggio e Berrini, dopo aver correttamente sostenuto che
consumi individuali e collettivi più consoni alla scarsità delle risorse non
scaturiranno automaticamente dalla crisi in atto, e potranno nascere solo dal
combinarsi di una battaglia culturale dal basso (per ora minoritaria) e di coerenti politiche dall’alto (che non si
intravvedono), sembra affidare le speranze di soluzione all’autogoverno delle
città, collegate tra loro su scala mondiale, come già nella retorica visionaria
di Peter Droege 2 e come faticosamente dalla conferenza di Rio
(1992) gli ecologisti, molte
amministrazioni locali e le Agende21 tentano di fare, agendo localmente e
pensando globalmente.
Manca inoltre una qualche riflessione sulle modalità di
formazione del consenso sociale necessario a rendere egemoni i comportamenti
virtuosi auspicati, oppure la connessione ad una strategia conflittuale, quale
quella proposta da Guido Viale (vedi sopra).
Una
elaborazione più aggiornata e completa di questo approccio un po’ ottimista alla green economy, estesa ai temi della riqualificazione
bio-climatica ed energetica dei fabbricati e della rigenerazione urbana, è
stata recentemente espressa dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile (presieduta
da Edo Ronchi) con l’ambizioso titolo “LA CITTA’ FUTURA - MANIFESTO DELLA GREEN
ECONOMY PER L’ARCHITETTURA E
L’URBANISTICA” 28, alla cui lettura integrale rimando perché si
tratta di un testo breve, conciso ed esauriente, ma non scevro dai limiti politici ed antropologici di cui sopra.
L’OTTIMISMO TECNOLOGICO:
JEREMY RIFKIN E LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
Tipico
esempio dell’ottimismo tecnologico è Jeremy Rifkin, profeta della Terza
Rivoluzione Industriale (“T.R.I.”), 29-30 che vede la soluzione di
ogni problema nell’intreccio tra la produzione diffusa delle energie
rinnovabili, il loro accumulo tramite l’idrogeno ed il loro scambio tramite Internet (unitamente con la
elettrificazione delle automobili), e coglie nell’emergere di alcune forme
cooperative del nuovo sapere reticolare (es. Linux, Wikipedia) la sicura
tendenza alla trasformazione dall’accumulazione capitalista (propria delle
prime due rivoluzioni industriali, fondate sul carbone e sul petrolio) al
decentramento democratico di tutto quanto, conoscenza, produzione, potere,
dalla “T.R.I.” ad una imminente successiva età dell’oro, dove regnerà la fine
del lavoro e la concordia universale (con
una pacifica mutazione antropologica, simile a quella auspicata da Serge
Latouche, vedi sopra).
L'«Internet
delle cose», un'infrastruttura intelligente formata dal virtuoso intreccio di
Internet delle comunicazioni, Internet dell'energia e Internet della logistica,
avrà l'effetto di spingere la produttività fino al punto in cui il costo
marginale di numerosi beni e servizi sarà quasi azzerato, rendendo gli uni e
gli altri praticamente gratuiti, abbondanti e non più soggetti alle forze del
mercato, bensì “beni comuni”.
L’avvio
della “T.R.I.”, secondo Rifkin, garantirà a medio termine un incremento
complessivo dell’occupazione, anche nei paesi occidentali, sottraendo il
settore delle energie rinnovabili alle leggi economiche prevalenti (che a mio avviso invece spingono all’incremento della produttività in
tutti i settori, con appropriazione da parte delle imprese e difficilmente a
vantaggio del lavoro, costretto a breve termine
comunque alla subordinazione e precarietà), perché tutte o quasi le
negatività dell’attuale modello di sviluppo, per Rifkin, derivano dalla natura
fossile delle risorse energetiche che hanno connotato la prima e la seconda
rivoluzione industriale (carbone e petrolio).
Sulla profezia della
fine del lavoro, avanzata da Rifkin già nel 1995 (ed in parte condivisa, tra
gli altri, da Paul Mason 31 – vedi recensione su UTOPIA21 di marzo
1917), non concordano sociologi a mio parere più documentati, come ad esempio
Manuel Castells 32.
Tra
gli argomenti tipici di Rifkin vi è inoltre l’affermazione che non c’è più
distinzione tra destra e sinistra, ma la spiegazione di tale assioma consiste
soprattutto in aneddoti, come ad esempio il fatto che il sindaco di Roma
Alemanno ha assegnato allo stesso Rifkin una consulenza sul futuro della città
eterna, mentre il leader laburista inglese Milliband lo ha ricevuto
sbrigativamente e sgarbatamente.
Poco utili, ma
significative, sono a mio avviso le proiezioni futuribili di Rifkin e associati
sullo specifico urbano (ad esempio master plan per la biosfera di Roma al
2050), che mischiano opzioni già note sui fabbricati eco-energetici e
sull’agricoltura peri-urbana, con improbabili riconversioni di quartieri ed
aree commerciali dismesse in orti urbani, mantenendone però in piedi - a scopo
ornamentale - le sole facciate lungo le strade.
L’OTTIMISMO
TECNOLOGICO: “SMART CITIES” OVVERO I RISCHI DI UN ECCESSO DI
INTELLIGENZA
Un’altra
versione dell’ottimismo tecnologico è quella che punta sulle tecnologie
informatiche, soprattutto sulla conoscenza interattiva in tempo reale tra
diversi attori su una pluralità di indicatori, resi disponibili dallo stesso
sviluppo tecnologico (ad esempio la localizzazione e l’utilizzo dei telefoni
cellulari oppure la localizzazione dinamica di veicoli tramite GPS), per
prospettare una gestione più consapevole e virtuosa dei comportamenti e dei
consumi urbani.
Tra
queste spicca la spettacolarità delle simulazioni effettuate dal SENSEable City
Lab del Massachusetts Institute of Technology, diretto da Carlo Ratti, 33 su
cui condivido il giudizio critico di Daniela De Leo 34:
- “Si tratta di progetti attraversati
dal ‘mito dell’instantaneità’ e dalla convinzione che una maggior disponibilità
di dati consente di decidere insieme oltre che meglio ----
una
straordinaria dose di ottimismo e fiducia nelle possibilità dell’innovazione
tecnologica di garantire un futuro migliore e più sostenibile alle città del
mondo, che non sembra , però, confortata dai trend attuali ----
le
innovazioni tecnologiche, da sole non sono affatto sufficienti a cambiare lo
stato attuale delle cose o a potenziare la partecipazione dei cittadini alle
scelte politiche pubbliche ---
la
forte valorizzazione estetica delle rappresentazioni dei dati digitali
finiscono con il ricondurre gli abitanti al ruolo (passivo) di spettatori,
oltre che di fornitori di dati su consumi e comportamenti.”
Di mio aggiungo solo
che una città “’smart’ è indubbiamente meglio di una città ‘non-smart’, ma che
la raccolta di immensi apporti di dati istantanei assomiglia alquanto al
paradosso ‘borgesiano’ della carta geografica in scala 1:1, che impedisce di
fatto una effettiva conoscenza del territorio rappresentato.35
IL PESSIMISMO
ANTROPOLOGICO DI LA CECLA, CONTRO L’URBANISTICA E CONTRO L’URBANESIMO
L’antropologo
Franco La Cecla, in “Contro l’urbanistica. La cultura delle città”, 13
prende spunto dai movimenti delle masse che in anni recenti hanno occupato
piazze e parchi, in Egitto, Turchia, Hong Kong e U.S.A. (con una qualche sopravvalutazione, a mio avviso, di tali movimenti, ed
in particolare di Occupy Wall Street), per evidenziarne la “corporeità”, in
contrasto con i teorici di una realtà sociale ormai solo virtuale e “smart”.
L’argomento
più rilevante, esplicitato nei capitoli centrali del libro (che forse andava intitolato ”Contro l’urbanesimo”, se non sembrasse
nostalgia di Bottai), è però quello della crescita tendenziale degli
insediamenti urbani, che l’organizzazione dell’ONU HABITAT presenta come inevitabile
ed auspicabile, fonte di universale prosperità, mentre La Cecla, anche sulla
scorta dei divergenti rapporti di altri organismi internazionali (e più in
generale appoggiandosi, senza svilupparlo, al pensiero alternativo di correnti
come TERRA MADRE), non ritiene invece:
- né ineluttabile, perché incentivato
dalle politiche di sostegno all’agricoltura capitalistica monocolturale che
espelle di continuo i piccoli agricoltori dalle campagne (espulsione accentuata
dai mutamenti climatici indotti dallo stesso sviluppo agri-intensivo ed
urbano-centrico),
- né positivo, perché l’incremento
della popolazione inurbata, nella maggior parte delle aree metropolitane, va
solo ad ingrossare gli “slums” e la
povertà di massa.
Nella
sua urbano-clastia, La Cecla sbeffeggia le teorie e le consulenze di Richard
Florida 36 sulla cresta dell’onda delle “classi creative”, secondo
La Cecla travolte inesorabilmente dalla
crisi iniziata nel 2007, e stigmatizza più in generale tutta la competizione
verso il “marketing urbano” delle “città mondiali”, sul modello drogato di
Barcellona/Olimpiadi (e qui secondo me va ascoltato solo in
parte, perché guardando a Torino/Olimpiadi ed a Milano/Expo, pur nutrendo molti
dubbi sul rapporto costi-benefici, caricando sui costi non solo gli
investimenti, ma anche l’innegabile consumo di suolo agricolo o forestale,
resta da valutare un indubbio salto di quantità e di qualità permanente
riguardo ai flussi turistici acquisito, nel bene e nel male, dalle due città).
Inoltre
La Cecla si spinge a censurare gli studi di Saskia Sassen 10 , a suo
avviso troppo spinti verso la previsione di una tendenziale prevalenza delle
metropoli, anche se in realtà la Sassen
ne ipotizza il successo in contrapposizione al declino degli Stati nazionali, e
richiama l’attenzione alle nuove disuguaglianze ed alle aree di povertà interne
alle metropoli, in sostanziale consonanza con le argomentazioni dello stesso La
Cecla.
Perché
comunque è proprio nella vitalità degli slums, ed in generale nelle componenti
corporali ed informali del vivere urbano (ad esempio elogiando il cibo di
strada, la cui qualità è garantita dall’immediato giudizio dell’utenza popolare
– argomento a mio avviso non scevro da un
certo liberismo -), che La Cecla vede i materiali di una vera cultura delle
città, contro le mortificazioni dei regolamenti di igiene e polizia e contro le
colpevoli acquiescenze degli urbanisti verso gli interessi del capitale
immobiliare.
Non
illuminata dalla capacità di ascolto e dalla curiosità girellona degli
antropologi, l’urbanistica, che è l’esplicito bersaglio del testo di La Cecla,
si sforza invano di interpretare la realtà urbana, usando statistiche, grafici
e paradigmi astratti; e – quando è costretta ad esperire la “partecipazione” –
la stinge in modalità edulcorate ed inautentiche, dimenticando le lezioni di
Jane Jacobs 37 e i meriti storici di alcuni precursori (in Italia:
Doglio, De Carlo) e non seguendo l’esempio di “Architecture for Humanity”,
organizzazione non profit di progettisti di architetture al servizio dei
bisogni delle comunità locali, finanziata mediante lasciti e donazioni di
fondazioni filantropiche (non importa se
emanazioni di imprese multinazionali).
Soprattutto
in Italia, dove si manifesta resistenza ad introdurre lo strumento nord-europeo
della Valutazione di Impatto Sociale, che verrebbe disciolta nella più generica
valutazione ambientale (La Cecla, pur
cogliendo giustamente una certa strumentalità rutinaria nelle applicazioni
della Valutazione Ambientale Strategica per i Piani ed i Programmi, non si misura con la vigente normativa sulla
VAS, che ben ne delineerebbe anche le componenti sociale ed economica e la
fondamentale chiave partecipativa, e da ultimo gli obblighi di terzietà nel
procedimento, rispetto agli autori dei piani).
Fonti:
1.
Maurizio
Pallante “LA DECRESCITA FELICE” - Edizioni per la decrescita felice, Roma 2011
2.
Peter
Droege “LA CITTÀ RINNOVABILE” - Edizioni ambiente, Milano 2008
3.
Peter
Hall “LE CITTÀ MONDIALI” - Il saggiatore, Milano 1966
4.
Jean
Gottmann “MEGALOPOLI – funzioni e relazioni di una pluri-città” - Einaudi,
Torino 1967
5.
Francoise
Choai “LA CITTÀ: UTOPIE E REALTÀ” – Einaudi, Torino 1973
6.
Paolo
Perulli “VISIONI DI CITTÀ. Le forme del mondo spaziale” Einaudi, Torino 2009
7.
Neil
Brenner “STATO, SPAZIO, URBANIZZAZIONE” - Guerini scientifica, Milano 2016
8.
Francesco
Indovina (2014) “LA METROPOLI EUROPEA. Una prospettiva” - Franco Angeli, Milano
2014
10. Saskia Sassen “LA CITTÀ NELL’ECONOMIA GLOBALE” - Il Mulino,
Bologna 2010
11. Eugenio Turri “LA
MEGALOPOLI PADANA” – Marsilio, Padova 2000
12. AA.VV., a cura
di Aldo Bonomi “LA CITTÀ INFINITA” - Bruno Mondadori, Milano 2004
13. Franco La Cecla “CONTRO
L’URBANISTICA. La cultura delle città” – Einaudi, Torino 2015
14. Marco Bagliani,
Fiorenzo Ferlaino, Salvatore Procopio (2001) “L’IMPRONTA ECOLOGICA: Analisi
regionale e settoriale” - IRES Piemonte, Working Paper N. 152, Ottobre 2001
15. Luciano Gallino “FINANZCAPITALISMO”
- Einaudi, Torino 2008
16. Manuel Castells “LA CITTÀ DELLE RETI” – Marsilio, Padova 2004
17. Joseph Stiglitz “Globalizzazione” Donzelli, Roma 2011
18. Serge Latouche “DECRESCITA,
DISUGUAGLIANZE E POVERTÀ” intervista rilasciata a Paolo Ventura in “AL” n° 482 del
2011
19. Serge Latouche “PER UN’ABBONDANZA FRUGALE: malintesi e
controversie sulla decrescita“ - Bollati Boringhieri, Torino 2012
20. Wolfgang Sachs e Tilman
Santarius (2007) “PER UN FUTURO EQUO.
Conflitti sulle risorse e giustizia globale” Feltrinelli, Milano 2007
21. Wolfgang Sachs e Marco
Morosini (2011) “FUTURO SOSTENIBILE” Edizioni Ambiente, Milano 2011
22. Guido Viale “LE SBERLE DELL’ECONOMIA” su “Il
Manifesto” quotidiano del 18-06-2011; anche sul sito www.eddyburg.it
23. Guido Viale “I SEI
PILASTRI DELLA CONVERSIONE” su “Il Manifesto” quotidiano del 02-02-2012; anche
sul sito www.eddyburg.it
24. Paolo Cacciari “CARO
VIALE, LA DECRESCITA È NECESSARIA” su “Il Manifesto”
25. Eugenio Montale “OSSI
DI SEPPIA” (“Non chiederci la parola”) -
Gobetti, Torino 1925, ripubblicato variamente ed in antologie
26. Maria Berrini e Andrea
Poggio “GREEN LIFE” - Edizioni Ambiente, Milano 2010
27. AA.VV. a cura di Maria Berrini e Aldo Colonetti “GREEN LIFE. Costruire
città sostenibili.“ Catalogo della mostra (Milano, 5 febbraio-28 marzo 2010) - Editore:
Compositori, Milano 2010
29. Jeremy Rifkin “LA TERZA
RIVOLUZIONE INDUSTRIALE” – Mondadori, Milano 2011
30. Jeremy Rifkin “LA
SOCIETÀ A COSTO MARGINALE ZERO. L'Internet delle cose, l'ascesa del Commons
collaborativo e l'eclissi del capitalismo” - Oscar Mondadori, Milano 2015
31. Paul Mason “POSTCAPITALISMO.
Una guida al nostro futuro” – Saggiatore, Milano 2015
32. Manuel Castells “LA
NASCITA DELLA SOCIETÀ IN RETE” - EGEA
UniBocconi, Milano 2002
33. Anna Frisa, Carlo Ratti
“PROGETTARE LA CITTÀ: COME?” Dipartimento Interateneo Territorio, Politecnico di
Torino - School of Architecture and Planning, MIT, 2001 www.senseable.mit.edu/.../20011116_Frisa_Ratti_ProgettareCitta_Proceedings
CittaDiffusa
34. AA.VV. a cura di
Daniela De Leo “FUTURECITIES/CITTÀ
FUTURE?” in Urbanistica informazioni n° 238 del 2011
35. Jorge Luis Borges “DEL
RIGORE NELLA SCIENZA”, in “L'artefice” - Adelphi, Milano 1984
36. Richard Florida "LA NASCITA DELLA NUOVA CLASSE CREATIVA"
– Mondadori, Milano 2002
37. Jane Jacobs “VITA E
MORTE DELLE GRANDI CITTÀ” - Einaudi, Torino 1969
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