venerdì 26 maggio 2017

UTOPIA 21 - MAGGIO 2017 - IL DIBATTITO SULLA CRESCITA E SULLA SOSTENIBILITA’ DEI FENOMENI URBANI E METROPOLITANI (PARTE 1^).


Preliminare al dibattito su quanto le città siano oggi sostenibili, e su quanto lo saranno in futuro, è chiarire cosa sono divenute “città” e “campagna”, in scenari di crescenti “metropolizzazioni”, ma molto differenziati nei diversi continenti.
Quel che conta alla fine è il saldo della impronta ecologica di ogni porzione di territorio rispetto al resto del pianeta.
Questo articolo propone una rassegna critica delle principali teorie in materia di sostenibilità urbana, iniziando in questo numero dalle discipline più generaliste e passando poi nelle successive due puntate agli approcci più strettamente disciplinari proposti da urbanisti e dintorni.
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Riassunto:
la premessa: citta’ e campagne, oggi
la decrescita felice
l’approccio illuminista del Wuppertal Institut
il movimentismo di Guido Viale
l’ottimismo tecnologico: Legambiente e Green Life; il Manifesto della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile
l’ottimismo tecnologico: Jeremy Rifkin e la terza rivoluzione industriale 
l’ottimismo tecnologico: Smart Cities ovvero i rischi di un eccesso di intelligenza
il pessimismo antropologico di La Cecla, contro l’urbanistica e contro l’urbanesimo

 
PREMESSA: CITTA’ E CAMPAGNE, OGGI

Nel dibattito sulla sostenibilità ambientale dei futuri sviluppi dei sistemi urbani si manifesta una immediata contrapposizione tra chi demonizza la città come fenomeno essenzialmente anti-ecologico (per l’insieme degli impatti ambientali, per gli stili di vita e di consumi) 1 e chi invece vede proprio nelle città i luoghi privilegiati dell’innovazione, sia tecnologica che sociale, anche nella direzione di una maggior efficienza energetica e produttiva, abitativa e trasportistica 2
La crescita delle città appare ineluttabile, e negli ultimi decenni si susseguono le ricerche statistiche – per il passato ed il presente - e le proiezioni e previsioni – per il futuro -, su quanta parte dell’umanità si concentri nelle aree urbane (parrebbe dal 50% di oggi al 75% nel 2050) e sulla dimensione demografica delle diverse metropoli; mobilitando scienziati di diverse discipline, non sempre convergenti né per metodi né per contenuti: geografi e demografi, urbanisti e antropologi, economisti e paesaggisti, sociologi ed ecologi.
Nella crescita urbana si sovrappongono diversi fenomeni: il classico inurbamento di popolazione che immigra da territori circostanti oppure remoti; la conurbazione tra porzioni edificate di compagini urbane contigue; la “metropolizzazione”, intesa come interrelazione profonda tra poli urbani fortemente attrattivi ed aree abitate, anche non contigue, ma coinvolte da un processo osmotico di flussi di persone/cose/informazioni: interrelazione che diffonde nei fatti un complessivo stile di vita urbano in territori differenziati, per caratteristiche e densità, ma gravitanti attorno ad uno o più nuclei,  riconoscibili come centrali.
Ci troviamo quindi di fronte a nuove e più complesse nozioni di città: metropoli, megalopoli, post-metropoli… 3-4-5-6-7-8-9-10-11-12
E tali definizioni vanno diversamente declinate a seconda che si parli del mondo occidentale (comunque con forti differenze ancora tra Europa ed America), di altri paesi a forte sviluppo economico consolidato (Australia, Giappone, Corea, Taiwan, Singapore, Emirati Arabi, ecc.), della specifica dinamica della Cina, oppure delle restanti parti del mondo dove, a diverse dinamiche socio-economiche, corrisponde comunque un diffuso inurbamento assai disordinato (forse meno in Russia, Iran, Turchia) e caratterizzato da vaste sacche di slums (spesso associate a discariche di rifiuti), dal sub-continente Indo-Pakistano e contiguo sud-est Asiatico, a gran parte dell’America Latina, per finire al Medio-Oriente e  all’Africa, regioni in cui spesso la spinta all’inurbamento è moltiplicata dagli effetti di endemiche condizioni di guerra. 13

La comprensione dei fenomeni urbani si integra con la analisi dei territori circostanti, dove ad un certo punto la città finisce, ma non è più così chiaro ed univoco se inizia la “campagna” e di quale campagna si tratti.
Permane nella nostra visione mentale di occidentali contemporanei la concezione di un rapporto complementare tra città e campagna, dove la prima consuma, trasforma e dirige la produzione di materie prime, alimentari e non alimentari, di cui la campagna dominata cede il surplus (rispetto ai suoi fabbisogni elementari e/o compressi), ricevendone in cambio servizi e protezione: una narrazione valida forse per il Medio Evo, ma largamente sconvolta sia dal lungo processo della rivoluzione industriale sia dall’intensificazione degli scambi commerciali (già fiorenti per altro nel mondo antico, anzi dalla preistoria, e non eclissati più di tanto nello stesso medio-evo), che negli ultimi decenni hanno raggiunto lo stadio della cosiddetta “globalizzazione”.
Cosicché la pera cilena è ugualmente consumata in diverse città del mondo, ma anche nelle campagne attigue, i cui prodotti sono a loro volta distribuiti a distanze variabili a seconda delle convenienze di imprese e mercati ed in relazione all’efficienza del sistema dei trasporti, innervato sì attorno alla rete dei nodi urbani, ma senza una chiara ed univoca gerarchia radiale tra la singola città ed il “suo contado”: non tutto il riso prodotto nelle risaie vercellesi deve transitare necessariamente dai magazzini di Vercelli.
Solo in parte, pertanto, è possibile ricostruire un modello di scambi ecologici “classici” tra una città che inquina ed un territorio esterno che subisce la domanda di acqua, cibo e altri materiali, energia, aria pulita, e smaltisce rifiuti solidi, liquidi e gassosi (in particolare è divenuto opportuno per alcune grandi città italiane esportare a grande distanza i rifiuti solidi eccedenti…); occorre invece considerare come tali “territori esterni” a loro volta possono inquinare, per il carattere intensivo delle produzioni agro-alimentari ed industriali insediate, per il carico insediativo disperso e le connesse reti di trasporto, per la minor efficienza energetica di strutture edilizie ed impianti idraulici e termici (si pensi ad esempio alle emissioni in atmosfera da stufe e camini alimentati a legna, oppure all’immissione nel suolo i liquami poco depurati): cioè sia per alcune componenti “cittadine”  diffuse in campagna, sia per alcune specifiche arretratezze “campagnole”.
Nella grande varietà degli assetti territoriali, possiamo trovare campagne vampirizzate o sminuzzate dal rapporto soffocante con l’invadenza metropolitana e/o turistica, campagne coltivate e/o industrializzate ma asservite a processi produttivi remoti, campagne marginalizzate dal disinteresse attuale dei mercati per le loro capacità produttive, insediative e logistiche. 

La questione della “sostenibilità urbana” è quindi a mio avviso strettamente intrecciata a quella più complessiva della “sostenibilità territoriale”, e cioè, alla fin fine, al saldo dei flussi ecologici tra ogni porzione di territorio, ragionevolmente individuabile ai fini conoscitivi e di governo (e comprendente, per lo più, sia il dentro che il fuori delle “città”), ed il resto del pianeta; ovvero alla cosiddetta “impronta ecologica”: quanto suolo e quante risorse, anche remoti, sono variamente asserviti alla sopravvivenza dell’insediamento umano in esame, per tutti i suoi bisogni (e sfizi),  materiali ed immateriali. 14
Ciò dipende sia dagli assetti geo-politico-economici complessivi (e conflittuali) del consorzio umano a scala planetaria (ovvero: quanto finanz-capitalismo e quanta globalizzazione; quanto “sviluppo” tra paesi emergenti, emersi e sommersi; quanto degrado energetico ed ecologico; quante migrazioni e quanto “welfare”; quante guerre ed armamenti, convenzionali e non; ecc.) sia dalla evoluzione specifica, nelle varie parti del mondo, di singole filiere “produttive”: informazione e comunicazioni, automazione, energia, alimentazione, mobilità, edilizia, salute, ecc.; nonché dei settori più ampi e “trasversali”, quali la logistica, l’istruzione  e la ricerca scientifica e tecnologica. 15-16-17
 
Tuttavia in questa prospettiva universale e onnicomprensiva, in cui francamente è difficile dire “da dove iniziare” a capire e ad agire (ma questo sito sta tra coloro che si sforzano per orientarsi almeno un po’), esiste anche, con qualche legittimità culturale, uno spazio specifico di dibattito sulle questioni urbane ed urbanistiche, in chiave di sostenibilità.
Con la riserva di tenere presente comunque quanto finora esposto in termini di correlazione tra città e territorio e tra politiche insediative e contesto socio-economico complessivo, nel seguito di questo contributo mi propongo di passare in rassegna criticamente (in corsivo le mie critiche) quelle che mi sembrano le principali teorie in argomento: in questa prima parte con attenzione ai risvolti territoriali di proposte politico economiche più generali, e sui due prossimi numeri con attenzione alle posizioni più aderenti ai confini disciplinari dell’urbanistica (anche se si tratta di una distinzione più pratica che teorica).


LA DECRESCITA FELICE

Una lezione tenuta a Parma da Serge Latouche nel febbraio 2011 nell’ambito di un convegno sulle “Politiche di sviluppo sostenibile per le piccole comunità urbane sfavorite” 18, che quindi sollecitava a pronunciarsi anche sugli aspetti territoriali della questione, conferma le sue teorie, riassunte nell’occasione da Paolo Ventura come “orizzonte di obiettivi di lungo periodo da conseguire progressivamente al fine di ritrovare una ’impronta ecologica’ sostenibile”, con la seguente articolazione:
-          “uno sviluppo urbano tale da ridurre i trasporti (privati) e rilocalizzare le attività;
-          il rilancio dell’agricoltura contadina;
-          la trasformazione degli incrementi di produttività in riduzione dei tempi di lavoro ed in crescita dell’occupazione;
-          il rilancio della produzione di ‘beni relazionali’;
-          la riduzione degli sprechi di energia;
-          la riduzione del ruolo della pubblicità;
-          il ri-orientamento  della ricerca tecnica e scientifica;
-          la protezione dallo scambio ineguale delle attività economiche minori tramite ‘monete locali’ e ‘monete complementari’.”
In questo elenco – tranne forse sull’ultimo punto, più originale e più nebuloso - credo possano riconoscersi in larga misura anche tutti i sostenitori delle più tradizionali concezioni dello sviluppo sostenibile (es. carta di Aalborg del 1994, e Aalborg commitments del 2004): si sbagliano forse, perché questo insieme di misure comporta necessariamente la ‘decrescita’?
Dove sta la specificità della proposta della decrescita felice, recentemente ribattezzata “dell’abbondanza frugale” (andando oltre la formulazione piuttosto autarchico-solipsista e passatista esposta da Maurizio Pallante 1)?
Latouche articola la “strategia” essenzialmente in due ambiti:
-          quello africano, o terzo-mondista, dove in sostanza non si ha nulla da perdere e tutto da guadagnare in una rapida “fuori-uscita dallo sviluppo”, anche approfittando dell’attuale crisi come favorevole occasione
-          quello euro-occidentale in cui più è difficile la disintossicazione dai falsi bisogni e dove quindi si ipotizza un lungo percorso verso la de-mercificazione, da un lato tramite la battaglia culturale per cambiare l’immaginario collettivo, e da un altro lato tramite la sperimentazione di  “alleanze” con “le imprese miste”, gli alter-mondisti e i sostenitori dell’economia solidale.
La proposta, comunque poco articolata riguardo alla operatività concreta per le città occidentali, risulta più chiara nella sua parte analitica e critica sugli eccessi del consumismo e sui paradossi della “crescita” del PIL e francamente ancora piuttosto oscura nei suoi sviluppi propositivi, perché non spiega quali soggetti, muovendosi dalle proprie idee oppure anche dai propri interessi, possano riuscire a conseguire un progressivo consenso maggioritario, nelle aree attualmente sviluppate, in favore della “decrescita felice”, né tanto meno quali siano le possibili tappe intermedie, ragionevolmente equilibrate, di tale processo.
E neppure ipotizza esplicitamente che la sottrazione delle aree terzo-mondiali più sfruttate dal circuito dello sviluppo possa accentuarne la crisi producendo squilibri forse drammatici, ma potenzialmente a lieto fine.
In assenza di una esplicita teorizzazione di possibili fasi di rotture catastrofiche dell’attuale sistema sviluppista, da gestire con segno alternativo, oppure direttamente rivoluzionarie, ne risulta una sorta di “riformismo estremista”, ma con un orizzonte senza tempo, e soprattutto senza specificazioni riguardo alle modalità felici di accettazione della decrescita da parte dei popoli più “sviluppati”, se non attraverso l’auspicio di uno spontaneo mutamento dei paradigmi culturali dalla competizione alla collaborazione.
Anche nei successivi saggi 19, Latouche cerca – con risultati a mio avviso poco risolutivi - di dimostrare la compatibilità della decrescita sia con il capitalismo che con la democrazia, e l’inutilità di una ricerca dei “soggetti sociali protagonisti”, affidandosi invece alla sola crescita culturale degli “individui”.


L’ILLUMINISMO DEL WUPPERTAL INSTITUT

Orientamenti comparabili figurano nei saggi del Wuppertal Institut a cura di Wolfgang Sachs e collaboratori 20-21, commissionati nel 2005 e nel 2010 in Germania da organismi ambientalisti e religiosi, e promossi in Italia da “Terra Futura”, cui aderiscono tra gli altri ACLI, CISL, Caritas e ARCI.
Sachs&C. non si occupano dettagliatamente delle città (indicate come meta obbligata dei contadini espulsi dalle campagne a causa dell’agricoltura monoculturale orientata alle esportazioni e/o dall’impoverimento delle risorse naturali determinato da dighe e attività estrattive ed industriali inquinanti), pur individuando significative articolazione locali delle strategie proposte:
-  politiche urbane ecologiche in materia di energia, trasporti, approvvigionamenti di materie e gestione  dei rifiuti,
- enti locali come possibile soggetto di nuovi equilibri ecologici,
- “regionalizzazione” degli scambi economici come necessario temperamento agli eccessi della globalizzazione (anche con la sperimentazione di ‘monete locali’ – vedi precedente paragrafo),
- cooperazione locale in materia di acquisti, impiego del risparmio, gestione dei beni comuni, scambi non mercantili di tempo di vita ed iniziative dal basso.
Sachs &C affrontano con sistematicità ed equilibrio tutti gli aspetti della sostenibilità ambientale, economica e sociale nella biosfera di oggi e di domani, ed in particolare:
- i limiti, non ancora conosciuti e non rigidi, ma ineluttabili, delle risorse disponibili e rigenerabili
- le differenze crescenti di benessere, non solo tra gli stati, ma tra i diversi gruppi sociali all’interno degli stati
- gli effetti perversi degli scambi commerciali “alla pari” tra economie  e società intrinsecamente differenti
ed individuano un orizzonte, necessario e forse possibile, di convergenza dei livelli di pressione ambientale tra paesi ricchi e paesi poveri su un livello medio virtuoso (con difficile ricerca di standard di sostenibilità, quali ad esempio 2.000 km annui di mobilità individuale oppure 2.000 Watt annui di consumo energetico pro-capite), da conseguire combinando
- innovazione tecnologica,
- efficienza anti-sprechi
- e soprattutto “sufficienza” (cioè sobrietà) dei consumi, non solo da parte delle minoranze privilegiate dei paesi ricchi, ma anche da parte
§  dei ceti emergenti dei paesi in via di sviluppo, la cui imitazione dei livelli occidentali di opulenza avrebbe effetti pesanti sugli equilibri ecologici e  sociali,
§   della massa dei consumatori dei paesi sviluppati, proponendo in sostanza una riduzione degli orari di lavoro ed in parallelo anche dei salari medi.
Sachs&C. approfondiscono in particolare le contraddizioni del diritto internazionale, tra i principi fondatori dell’ONU sui diritti dell’uomo (1948) e gli sviluppi ambientalisti della Conferenza di Rio (1992 e seguenti fino ed oltre Kyoto - 1997), da un lato, e l’insieme degli accordi commerciali, dal GATT al WTO, dal lato opposto; tali trattati - pur riportando nelle premesse alcuni riconoscimenti sui diritti dei popoli e delle persone - definiscono un sistema giuridico ed operativo rigidamente liberista e di fatto impermeabile alle ragioni di tutela delle comunità locali, dei loro prodotti e dei loro saperi, con effetti spesso distruttivi delle basi di sopravvivenza delle formazioni sociali più deboli, e di impoverimento dei paesi più poveri. 
Gli autori sembravano riporre nel 2005 specifiche speranze nell’Europa, in quanto originaria ‘patria del cosmopolitismo’ e per gli sprazzi di autonomia dall’egemonia USA, manifestati ad esempio contro la guerra in Irak ed in favore degli accordi sul clima; nel 2010 appaiono più pessimisti, in considerazione dei comportamenti egoistici che anche l’Europa continua a manifestare nei rapporti di scambio commerciale con i paesi poveri, a partire dal settore agro-alimentare.
Sachs&C. articolano le loro proposte operative, da rendere tendenzialmente compatibili con un’economia di mercato ricondotta ‘a ragione’ sia ‘dall’alto’, con nuove norme (nazionali ed internazionali), incentivi e politiche di persuasione, sia ‘dal basso’, con suggerimenti per iniziative a livello locale ed anche per un diverso comportamento soggettivo dei singoli cittadini, in quanto consumatori e risparmiatori, bricoleurs e potenziali ciclisti.
Ma nei loro testi, permeati da appelli kantiani alla giustizia e ad un “nuovo cosmopolitismo”, l’analisi sui soggetti sociali e politici  che – nei diversi contesti nazionali - potrebbero essere protagonisti delle svolte invocate, si riduce all’appello ad una “Nuova Internazionale”, ovvero il collegamento - innanzitutto  via Internet - tra molteplici minoranze illuminate, che sperimentano comportamenti virtuosi in campo agricolo oppure energetico oppure tecnologico (ed anche nella finanza equa e solidale) e in tal modo maturano le risposte per illuminare e influenzare le parti restanti e resistenti delle diverse società nazionali, incalzandole in particolare man mano che vengono al pettine i nodi della crisi di esaurimento delle risorse, del clima e dell’attuale modello di sviluppo.
Diverso sarebbe il mio giudizio se tali proposte fossero fatte proprie pienamente da forze politiche di massa in grado di contendere il governo nei principali paesi europei; di mezzo ci sono ancora enormi problemi di egemonia e di orientamento culturale e antropologico dei segmenti sociali potenzialmente interessati: se appare possibile  diffondere modelli di consumo più bio-compatibili, equi e solidali, assai più difficile mi sembra promuovere in occidente un progetto generale di  austerità, fondato sulla riduzione di salari ed orari di lavoro.
Poco sviluppata mi sembra anche l’attenzione alla crisi socio-economica e finanziaria in atto, ben indagata quale effetto dello sviluppo industrialista e finanziario, liberista e neocolonialista, ma non altrettanto esaminata come possibile crogiolo di mutamenti drammatici, non necessariamente nella positiva direzione auspicata.


IL MOVIMENTISMO DI GUIDO VIALE

Guido Viale (mezzo secolo addietro tra i fondatori di Lotta Continua ed ora economista specializzato sul “riciclo” ed intellettuale in una sinistra inquieta, tra Tsipras ed “Il manifesto”) si distingue anche dalla parola d’ordine della “decrescita felice” (vedi sopra) e dichiara: “Non sono un fautore della decrescita. Trovo questo concetto povero di contenuti; inutilizzabile, se non impresentabile, nelle situazioni di crisi (quando a essere messi in forse sono redditi e posti di lavoro); ambiguo (in quanto speculare, anche se opposto, a quanto ci viene proposto dagli economisti mainstream). Non credo che le otto "R" di Latouche (rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare) apportino al dibattito politico molto più di un chiarimento concettuale. Però, quando si scende - se mai si scende - sulle cose da fare o proporre è molto più facile ritrovarsi d'accordo al di là delle formulazioni dottrinarie. Ma questa diffidenza non significa certo accettazione del diktat della crescita.” 22-23-24
Nel frattempo, in qualche modo “a prescindere” da una soluzione generale, quasi che a quel livello oggi si possa dire, come Montale sotto il fascismo, solo “ciò che noi non siamo e ciò che non vogliano” 25, Viale cerca di offrire un orizzonte complessivo ai “movimenti” (dal referendum sull’acqua ai difensori di altri “beni comuni”, come “Salviamo il Paesaggio” che propugna una battaglia contro il consumo di suolo, dai Gruppi di Acquisto Solidali agli agricoltori “a Km zero”), con una interpretazione più conflittuale delle ‘reti della nuova internazionale’ di Sachs&C. (vedi al precedente paragrafo) e del “localismo cosmopolita” proposto da Magnaghi (vedi seconda parte): infatti ritiene che “mano a mano che i processi molecolari si concretizzano, unificano e rafforzano, i movimenti vengono a confronto ed entrano in conflitto con il potere della finanza internazionale e dei governi che ne sono mandatari a livello statuale”.
Ed individua, in tale prospettiva, i seguenti 6 “pilastri”:
1.    “La conversione ecologica” come “processo di riterritorializzazione, cioè di riavvicinamento fisico ("km0") e organizzativo (riduzione dell'intermediazione affidata solo al mercato) tra produzione e consumo: processo graduale, a macchia di leopardo e, ovviamente, mai integrale. Per questo un ruolo centrale lo giocano l'impegno, i saperi e soprattutto i rapporti diretti della cittadinanza attiva, le sue associazioni, le imprese e l'imprenditoria locale effettiva o potenziale e, come punto di agglutinazione, i governi del territorio: cioè i municipi e le loro reti, riqualificati da nuove forme di democrazia partecipativa.” Con “il passaggio, ----- dal gigantismo delle strutture proprie dell'economia fondata sui combustibili fossili alle dimensioni ridotte, alla diffusione, alla differenziazione e all'interconnessione degli impianti, delle imprese e degli agglomerati urbani rese possibili dal ricorso alle fonti rinnovabili, all'efficienza energetica, a un'agricoltura e a una gestione delle risorse (e dei rifiuti), dei suoli, del territorio e della mobilità condivise e sostenibili.”
2.    “Per operare in questa direzione è essenziale che i governi del territorio possano disporre di "bracci operativi" : ovvero “i servizi pubblici” locali, “restituiti, come disposto dal referendum sull’acqua, a un controllo congiunto degli enti locali e della cittadinanza, cioè sottratti al diktat della privatizzazione.”, nonché al patto di stabilità, rinegoziando i debiti ai danni della “bolla finanziaria”
3.     “l'arresto del consumo di suolo”: se le strutture e i suoli inutilizzati “non vengono resi disponibili dal vincolo che lega il bene al suo proprietario occorre procedere con una politica di espropri e rivendicare una legislazione che la renda praticabile.”
4.    “Il suolo urbano libero da costruzioni e quello periurbano possono essere valorizzati da un grande progetto di integrazione tra città e campagna, tra agricoltura e agglomerati residenziali. Un'integrazione che è stata il pilastro delle civiltà di tutto il mondo prima dell'avvento della globalizzazione”: “orti urbani, disseminazione dei Gas, farmer's markets, mense scolastiche e aziendali, marchi di qualità ecologica per la distribuzione, gestione dei mercati ortofrutticoli: quanto basterebbe per cambiare l'assetto dell'agricoltura periurbana e per ri-orientare l'alimentazione della cittadinanza con filiere corte”.
5.    “La mobilità sostenibile (attraverso l'integrazione intermodale tra trasporto di linea e mobilità flessibile: car-pooling, car-sharing, trasporto a domanda e city-logistic per le merci) e la riconversione energetica (attraverso la diffusione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili e la promozione dell'efficienza nelle abitazioni, nelle imprese e nei servizi) costituiscono gli ambiti fondamentali per sostenere le imprese e l'occupazione in molte delle fabbriche oggi condannate alla chiusura.”
6.    “La conversione ecologica è innanzitutto una rivoluzione culturale che ha bisogno di processi di elaborazione pubblici e condivisi e di sedi dove svilupparli. ---- nelle scuole e nell'università, nell'educazione permanente, nelle istituzioni della ricerca, nel tessuto urbano, nei mezzi di informazione, sulla rete.”
Mi sembra molto interessante, pur nella indefinitezza della prospettiva politica conflittuale, la articolazione concreta delle proposte (largamente condivisibili) ed anche l’integrazione tra i comportamenti direttamente praticabili ‘dai movimenti’ e dai soggetti economici locali, il ruolo assegnato agli enti locali, e la rivendicazione di alcune leggi progressive a livello di autorità superiori.


L’OTTIMISMO TECNOLOGICO: LEGA AMBIENTE E GREEN LIFE; IL MANIFESTO DELLA FONDAZIONE SVILUPPO SOSTENIBILE

Con un’intensa pubblicistica, riassunta nel volumetto “Green Life” 26 di Berrini e Poggio, e che ebbe buona risonanza con la omonima mostra alla Triennale di Milano nel 2010 (e nel relativo catalogo 27), intellettuali e organismi vicini a Legambiente, svolgono una meritoria campagna di informazione sulle esperienze internazionali (soprattutto europee) più avanzate in materia di:
-           risparmio energetico nell’edilizia
-           quartieri ecologici
-           trasporti innovativi
-           politiche urbane variamente virtuose in materia ambientale.
La particolare arretratezza italiana, aggravata da una politica nazionale errabonda in materia di incentivi energetici ed incline all’improvvisazione in materia di incentivi alla rigenerazione urbana, rende prezioso ogni suggerimento positivo, finalizzato a concretizzare ed anticipare gli obiettivi europei in materia di risparmio energetico e contenimento delle emissioni di CO2 ed altri gas climalteranti.

Tuttavia, proprio perché l’Italia parte da una situazione arretrata, mi sembrerebbe necessario approfondire meglio quale sia la strada migliore da seguire per la realtà italiana, verificare dove portano le esperienze straniere, capire se sia davvero possibile uno sviluppo sostenibile, oppure se si rischia di ricopiare forme attenuate di congestione ed invivibilità.
Approfondimenti che mi pare manchino presso gli autori citati, sostituiti da una sorta di ottimismo tecnologico (che nella mostra milanese si proiettava anche acriticamente sui prodotti delle aziende sponsorizzatrici).
E’ inoltre apprezzabile, contro i teorici della “decrescita felice”, la citazione del compianto Alex Langer, che già nel 1994 sosteneva che “la conversione ecologica potrà affermarsi solo se apparirà desiderabile”: ma la conclusione di Poggio e Berrini, dopo aver correttamente sostenuto che consumi individuali e collettivi più consoni alla scarsità delle risorse non scaturiranno automaticamente dalla crisi in atto, e potranno nascere solo dal combinarsi di una battaglia culturale dal basso (per ora minoritaria)  e di coerenti politiche dall’alto (che non si intravvedono), sembra affidare le speranze di soluzione all’autogoverno delle città, collegate tra loro su scala mondiale, come già nella retorica visionaria di Peter Droege 2 e come faticosamente dalla conferenza di Rio (1992)  gli ecologisti, molte amministrazioni locali e le Agende21 tentano di fare, agendo localmente e pensando globalmente.
Manca inoltre una qualche riflessione sulle modalità di formazione del consenso sociale necessario a rendere egemoni i comportamenti virtuosi auspicati, oppure la connessione ad una strategia conflittuale, quale quella proposta da Guido Viale (vedi sopra).
Una elaborazione più aggiornata e completa di questo approccio un po’ ottimista alla green economy, estesa ai temi della riqualificazione bio-climatica ed energetica dei fabbricati e della rigenerazione urbana, è stata recentemente espressa dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile (presieduta da Edo Ronchi) con l’ambizioso titolo “LA CITTA’ FUTURA - MANIFESTO DELLA GREEN ECONOMY  PER L’ARCHITETTURA E L’URBANISTICA” 28, alla cui lettura integrale rimando perché si tratta di un testo breve, conciso ed esauriente, ma non scevro dai limiti politici ed antropologici di cui sopra.


L’OTTIMISMO TECNOLOGICO: JEREMY RIFKIN E LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

Tipico esempio dell’ottimismo tecnologico è Jeremy Rifkin, profeta della Terza Rivoluzione Industriale (“T.R.I.”), 29-30 che vede la soluzione di ogni problema nell’intreccio tra la produzione diffusa delle energie rinnovabili, il loro accumulo tramite l’idrogeno ed il loro scambio  tramite Internet (unitamente con la elettrificazione delle automobili), e coglie nell’emergere di alcune forme cooperative del nuovo sapere reticolare (es. Linux, Wikipedia) la sicura tendenza alla trasformazione dall’accumulazione capitalista (propria delle prime due rivoluzioni industriali, fondate sul carbone e sul petrolio) al decentramento democratico di tutto quanto, conoscenza, produzione, potere, dalla “T.R.I.” ad una imminente successiva età dell’oro, dove regnerà la fine del lavoro e la concordia universale (con una pacifica mutazione antropologica, simile a quella auspicata da Serge Latouche, vedi sopra).
L'«Internet delle cose», un'infrastruttura intelligente formata dal virtuoso intreccio di Internet delle comunicazioni, Internet dell'energia e Internet della logistica, avrà l'effetto di spingere la produttività fino al punto in cui il costo marginale di numerosi beni e servizi sarà quasi azzerato, rendendo gli uni e gli altri praticamente gratuiti, abbondanti e non più soggetti alle forze del mercato, bensì “beni comuni”.
L’avvio della “T.R.I.”, secondo Rifkin, garantirà a medio termine un incremento complessivo dell’occupazione, anche nei paesi occidentali, sottraendo il settore delle energie rinnovabili alle leggi economiche  prevalenti (che a mio avviso invece spingono all’incremento della produttività in tutti i settori, con appropriazione da parte delle imprese e difficilmente a vantaggio del lavoro, costretto a breve termine  comunque alla subordinazione e precarietà), perché tutte o quasi le negatività dell’attuale modello di sviluppo, per Rifkin, derivano dalla natura fossile delle risorse energetiche che hanno connotato la prima e la seconda rivoluzione industriale (carbone e petrolio).
Sulla profezia della fine del lavoro, avanzata da Rifkin già nel 1995 (ed in parte condivisa, tra gli altri, da Paul Mason 31 – vedi recensione su UTOPIA21 di marzo 1917), non concordano sociologi a mio parere più documentati, come ad esempio Manuel Castells 32.
Tra gli argomenti tipici di Rifkin vi è inoltre l’affermazione che non c’è più distinzione tra destra e sinistra, ma la spiegazione di tale assioma consiste soprattutto in aneddoti, come ad esempio il fatto che il sindaco di Roma Alemanno ha assegnato allo stesso Rifkin una consulenza sul futuro della città eterna, mentre il leader laburista inglese Milliband lo ha ricevuto sbrigativamente e sgarbatamente.
Poco utili, ma significative, sono a mio avviso le proiezioni futuribili di Rifkin e associati sullo specifico urbano (ad esempio master plan per la biosfera di Roma al 2050), che mischiano opzioni già note sui fabbricati eco-energetici e sull’agricoltura peri-urbana, con improbabili riconversioni di quartieri ed aree commerciali dismesse in orti urbani, mantenendone però in piedi - a scopo ornamentale - le sole facciate lungo le strade.


L’OTTIMISMO TECNOLOGICO:  “SMART CITIES” OVVERO I RISCHI DI UN ECCESSO DI INTELLIGENZA

Un’altra versione dell’ottimismo tecnologico è quella che punta sulle tecnologie informatiche, soprattutto sulla conoscenza interattiva in tempo reale tra diversi attori su una pluralità di indicatori, resi disponibili dallo stesso sviluppo tecnologico (ad esempio la localizzazione e l’utilizzo dei telefoni cellulari oppure la localizzazione dinamica di veicoli tramite GPS), per prospettare una gestione più consapevole e virtuosa dei comportamenti e dei consumi urbani.
Tra queste spicca la spettacolarità delle simulazioni effettuate dal SENSEable City Lab del Massachusetts Institute of Technology, diretto da Carlo Ratti, 33 su cui condivido il giudizio critico di Daniela De Leo 34:
-           “Si tratta di progetti attraversati dal ‘mito dell’instantaneità’ e dalla convinzione che una maggior disponibilità di dati consente di decidere insieme oltre che meglio ----
una straordinaria dose di ottimismo e fiducia nelle possibilità dell’innovazione tecnologica di garantire un futuro migliore e più sostenibile alle città del mondo, che non sembra , però, confortata dai trend attuali ----
le innovazioni tecnologiche, da sole non sono affatto sufficienti a cambiare lo stato attuale delle cose o a potenziare la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche pubbliche ---
la forte valorizzazione estetica delle rappresentazioni dei dati digitali finiscono con il ricondurre gli abitanti al ruolo (passivo) di spettatori, oltre che di fornitori di dati su consumi e comportamenti.”
Di mio aggiungo solo che una città “’smart’ è indubbiamente meglio di una città ‘non-smart’, ma che la raccolta di immensi apporti di dati istantanei assomiglia alquanto al paradosso ‘borgesiano’ della carta geografica in scala 1:1, che impedisce di fatto una effettiva conoscenza del territorio rappresentato.35


IL PESSIMISMO ANTROPOLOGICO DI LA CECLA, CONTRO L’URBANISTICA E CONTRO L’URBANESIMO

L’antropologo Franco La Cecla, in “Contro l’urbanistica. La cultura delle città”, 13 prende spunto dai movimenti delle masse che in anni recenti hanno occupato piazze e parchi, in Egitto, Turchia, Hong Kong e U.S.A. (con una qualche sopravvalutazione, a mio avviso, di tali movimenti, ed in particolare di Occupy Wall Street), per evidenziarne la “corporeità”, in contrasto con i teorici di una realtà sociale ormai solo virtuale e “smart”.
L’argomento più rilevante, esplicitato nei capitoli centrali del libro (che forse andava intitolato ”Contro l’urbanesimo”, se non sembrasse nostalgia di Bottai), è però quello della crescita tendenziale degli insediamenti urbani, che l’organizzazione dell’ONU HABITAT presenta come inevitabile ed auspicabile, fonte di universale prosperità, mentre La Cecla, anche sulla scorta dei divergenti rapporti di altri organismi internazionali (e più in generale appoggiandosi, senza svilupparlo, al pensiero alternativo di correnti come TERRA MADRE), non ritiene invece:
-           né ineluttabile, perché incentivato dalle politiche di sostegno all’agricoltura capitalistica monocolturale che espelle di continuo i piccoli agricoltori dalle campagne (espulsione accentuata dai mutamenti climatici indotti dallo stesso sviluppo agri-intensivo ed urbano-centrico),
-           né positivo, perché l’incremento della popolazione inurbata, nella maggior parte delle aree metropolitane, va solo ad ingrossare gli “slums”  e la povertà di massa.
Nella sua urbano-clastia, La Cecla sbeffeggia le teorie e le consulenze di Richard Florida 36 sulla cresta dell’onda delle “classi creative”, secondo La Cecla   travolte inesorabilmente dalla crisi iniziata nel 2007, e stigmatizza più in generale tutta la competizione verso il “marketing urbano” delle “città mondiali”, sul modello drogato di Barcellona/Olimpiadi   (e qui secondo me va ascoltato solo in parte, perché guardando a Torino/Olimpiadi ed a Milano/Expo, pur nutrendo molti dubbi sul rapporto costi-benefici, caricando sui costi non solo gli investimenti, ma anche l’innegabile consumo di suolo agricolo o forestale, resta da valutare un indubbio salto di quantità e di qualità permanente riguardo ai flussi turistici acquisito, nel bene e nel male, dalle due città).
Inoltre La Cecla si spinge a censurare gli studi di Saskia Sassen 10 , a suo avviso troppo spinti verso la previsione di una tendenziale prevalenza delle metropoli, anche se in realtà la Sassen ne ipotizza il successo in contrapposizione al declino degli Stati nazionali, e richiama l’attenzione alle nuove disuguaglianze ed alle aree di povertà interne alle metropoli, in sostanziale consonanza con le argomentazioni dello stesso La Cecla. 
Perché comunque è proprio nella vitalità degli slums, ed in generale nelle componenti corporali ed informali del vivere urbano (ad esempio elogiando il cibo di strada, la cui qualità è garantita dall’immediato giudizio dell’utenza popolare – argomento a mio avviso non scevro da un certo liberismo -), che La Cecla vede i materiali di una vera cultura delle città, contro le mortificazioni dei regolamenti di igiene e polizia e contro le colpevoli acquiescenze degli urbanisti verso gli interessi del capitale immobiliare.
Non illuminata dalla capacità di ascolto e dalla curiosità girellona degli antropologi, l’urbanistica, che è l’esplicito bersaglio del testo di La Cecla, si sforza invano di interpretare la realtà urbana, usando statistiche, grafici e paradigmi astratti; e – quando è costretta ad esperire la “partecipazione” – la stinge in modalità edulcorate ed inautentiche, dimenticando le lezioni di Jane Jacobs 37 e i meriti storici di alcuni precursori (in Italia: Doglio, De Carlo) e non seguendo l’esempio di “Architecture for Humanity”, organizzazione non profit di progettisti di architetture al servizio dei bisogni delle comunità locali, finanziata mediante lasciti e donazioni di fondazioni filantropiche (non importa se emanazioni di imprese multinazionali).
Soprattutto in Italia, dove si manifesta resistenza ad introdurre lo strumento nord-europeo della Valutazione di Impatto Sociale, che verrebbe disciolta nella più generica valutazione ambientale (La Cecla, pur cogliendo giustamente una certa strumentalità rutinaria nelle applicazioni della Valutazione Ambientale Strategica per i Piani ed i Programmi,  non si misura con la vigente normativa sulla VAS, che ben ne delineerebbe anche le componenti sociale ed economica e la fondamentale chiave partecipativa, e da ultimo gli obblighi di terzietà nel procedimento, rispetto agli autori dei piani).


Fonti:
1.    Maurizio Pallante “LA DECRESCITA FELICE” - Edizioni per la decrescita felice, Roma 2011
2.    Peter Droege “LA CITTÀ RINNOVABILE” - Edizioni ambiente, Milano 2008
3.    Peter Hall “LE CITTÀ MONDIALI” - Il saggiatore, Milano 1966
4.    Jean Gottmann “MEGALOPOLI – funzioni e relazioni di una pluri-città” - Einaudi, Torino 1967
5.    Francoise Choai “LA CITTÀ: UTOPIE E REALTÀ” – Einaudi, Torino 1973
6.    Paolo Perulli “VISIONI DI CITTÀ. Le forme del mondo spaziale” Einaudi, Torino 2009
7.    Neil Brenner “STATO, SPAZIO, URBANIZZAZIONE” - Guerini scientifica, Milano 2016
8.    Francesco Indovina (2014) “LA METROPOLI EUROPEA. Una prospettiva” - Franco Angeli, Milano 2014
10. Saskia Sassen  “LA CITTÀ NELL’ECONOMIA GLOBALE” - Il Mulino, Bologna 2010
11. Eugenio Turri “LA MEGALOPOLI PADANA” – Marsilio, Padova 2000
12. AA.VV., a cura di Aldo Bonomi “LA CITTÀ INFINITA” - Bruno Mondadori, Milano 2004
13. Franco La Cecla “CONTRO L’URBANISTICA. La cultura delle città” – Einaudi, Torino 2015
14. Marco Bagliani, Fiorenzo Ferlaino, Salvatore Procopio (2001) “L’IMPRONTA ECOLOGICA: Analisi regionale e settoriale” - IRES Piemonte, Working Paper N. 152, Ottobre 2001
15. Luciano Gallino “FINANZCAPITALISMO” - Einaudi, Torino 2008
16. Manuel Castells  “LA CITTÀ DELLE RETI” – Marsilio, Padova 2004
17. Joseph Stiglitz  “Globalizzazione” Donzelli, Roma 2011
18. Serge Latouche “DECRESCITA, DISUGUAGLIANZE E POVERTÀ” intervista rilasciata a Paolo Ventura in “AL” n° 482 del 2011
19. Serge Latouche  “PER UN’ABBONDANZA FRUGALE: malintesi e controversie sulla decrescita“ - Bollati Boringhieri, Torino 2012
20. Wolfgang Sachs e Tilman Santarius  (2007) “PER UN FUTURO EQUO. Conflitti sulle risorse e giustizia globale” Feltrinelli, Milano 2007
21. Wolfgang Sachs e Marco Morosini (2011) “FUTURO SOSTENIBILE” Edizioni Ambiente, Milano 2011
22.  Guido Viale “LE SBERLE DELL’ECONOMIA” su “Il Manifesto” quotidiano del 18-06-2011; anche sul sito www.eddyburg.it
23. Guido Viale “I SEI PILASTRI DELLA CONVERSIONE” su “Il Manifesto” quotidiano del 02-02-2012; anche sul sito www.eddyburg.it
24. Paolo Cacciari “CARO VIALE, LA DECRESCITA È NECESSARIA” su “Il Manifesto”
quotidiano del 18-06-2011; anche sul sito www.eddyburg.it
25. Eugenio Montale “OSSI DI SEPPIA”  (“Non chiederci la parola”) - Gobetti, Torino 1925, ripubblicato variamente ed in antologie
26. Maria Berrini e Andrea Poggio “GREEN LIFE” - Edizioni Ambiente, Milano 2010
27. AA.VV. a cura di Maria Berrini e Aldo Colonetti “GREEN LIFE. Costruire città sostenibili.“ Catalogo della mostra (Milano, 5 febbraio-28 marzo 2010) - Editore: Compositori, Milano 2010
29. Jeremy Rifkin “LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE” – Mondadori, Milano 2011
30. Jeremy Rifkin “LA SOCIETÀ A COSTO MARGINALE ZERO. L'Internet delle cose, l'ascesa del Commons collaborativo e l'eclissi del capitalismo” - Oscar Mondadori, Milano 2015
31. Paul Mason “POSTCAPITALISMO. Una guida al nostro futuro” – Saggiatore, Milano 2015
32. Manuel Castells “LA NASCITA DELLA SOCIETÀ IN RETE” - EGEA  UniBocconi, Milano 2002
33. Anna Frisa, Carlo Ratti “PROGETTARE LA CITTÀ: COME?” Dipartimento Interateneo Territorio, Politecnico di Torino - School of Architecture and Planning, MIT, 2001 www.senseable.mit.edu/.../20011116_Frisa_Ratti_ProgettareCitta_Proceedings CittaDiffusa
34. AA.VV. a cura di Daniela De Leo  “FUTURECITIES/CITTÀ FUTURE?” in Urbanistica informazioni n° 238 del 2011
35. Jorge Luis Borges “DEL RIGORE NELLA SCIENZA”, in “L'artefice” - Adelphi, Milano 1984
36. Richard Florida  "LA NASCITA DELLA NUOVA CLASSE CREATIVA" – Mondadori, Milano 2002

37. Jane Jacobs “VITA E MORTE DELLE GRANDI CITTÀ” - Einaudi, Torino 1969

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