THOMAS PIKETTY
TRA CAPITALE E IDEOLOGIE
di Aldo
Vecchi
Una poderosa ricerca,
che allarga l’orizzonte del precedente “Il Capitale nel XXI secolo” nella
conoscenza della storia delle disuguaglianze sociali e le intreccia con
l’analisi delle ideologie che le hanno “giustificate”; con una ambiziosa ma
discutibile conclusione propositiva per una Società Giusta.
Sommario:
-
premessa
-
la lunga storia delle
disuguaglianze
-
gli antichi regimi
“tri-funzionali”: nobilta’, clero e terzo stato
-
colonialismo e
schiavismo
-
i regimi proprietari
-
la fase
socialdemocratica
-
la parabola del
socialismo reale
-
l’onda neo-liberista
-
l’analisi sociologica
dei flussi elettorali
-
le proposte per una
societa’ giusta
-
commento conclusivo
(in corsivo anche gli
altri elementi più soggettivi della recensione)
NOTA:Le virgolette doppie “…..” indicano citazioni testuali
o sintetiche dal testo recensito, quelle semplici ‘….’ invece appartengono al
linguaggio del recensore)
PREMESSA
“Capitale
e ideologia”1 si sviluppa sulla scia del grande successo de “Il
capitale nel XXI secolo”2,3, edito nel 2014, anche per le
sollecitazioni che l’Autore ha recepito durante la diffusione mondiale di tale
‘best-seller” (ed anche grazie all’apertura di alcuni archivi alla curiosità
dei ricercatori del World Inequality Lab[A], per effetto di tale
successo), con l’ambizione di:
-
allargare
la narrazione storica sulle diseguaglianze, nello spazio e nel tempo,
-
intrecciare
le vicende socio-economiche della accumulazione con la evoluzione delle
ideologie con cui le disuguaglianze hanno cercato e/o trovato una adeguata
“giustificazione” nei diversi contesti sociali,
e
introdurre così nella parte finale del testo una articolata proposta di (ri-)
fondazione di una “società giusta” (a scala pressoché planetaria).
Se
nel “Capitale del XXI secolo” Piketty intendeva soprattutto smuovere i confini
tra una disciplina economica autocompiaciuta di suoi tecnicismi (fino a non
vedere la realtà della crisi non solo finanziaria dal 2008) e le scienze
storiche e sociali, per illuminare la realtà misconosciuta della nuova
polarizzazione delle ricchezze, nel nuovo libro (2019, e quindi ante-pandemia),
l’Autore mira ad aprire la speranza verso possibili trasformazioni radicali
dell’economia e della società:
-
sia
dimostrando che non vi sono nel passato correlazioni deterministiche tra
livello di sviluppo e regimi proprietari (bensì sempre si aprono “biforcazioni”
e traiettorie specifiche),
-
sia
postulando che divenga oggi indispensabile, per un futuro diverso, approntare
una adeguata proiezione teorica, in direzione egualitaria: perché non esistono
assetti socio-politici senza una adeguata predisposizione ideologica.
Comune
ai due testi è il linguaggio chiaro e comprensibile, anche nelle note e
nell’apparato statistico numerico/grafico (allargabile ad ulteriori tabelle nel
sito internet connesso); inoltre nel nuovo volume Piketty dichiara
esplicitamente la necessità, cui spesso già sopperisce, di interpretare la stratificazione
dei “decili” e “centili” dei più ricchi o dei meno ricchi come una immagine
astratta dei concreti soggetti sociali, che invece sono caratterizzati anche da
ben altri attributi storici, soggettivi ed “ideologici”, oltre la nuda evidenza
statistica e numerica.
LA LUNGA STORIA DELLE
DISUGUAGLIANZE
Le
parti prima, seconda e terza di “Capitale e ideologia” – con qualche (forse incongrua) anticipazione
‘progettuale’ in materia fiscale ai capitoli 11 e 13 - estendono la storia
delle disuguaglianze ben prima del XVIII secolo (dove partiva il precedente
libro di Piketty) e al di fuori dell’Occidente ‘atlantico’, ovunque la
curiosità intellettuale dell’Autore (che
non pare interessato alla storia antica né a quella medievale[B])
si incontra con una sufficiente disponibilità di dati quantitativi per
misurare i divari di reddito, di ricchezze, di classificazioni sociali.
In
particolare Piketty illustra le trasformazioni attraverso questi passaggi”: gli
antichi regimi; colonialismo e schiavismo; i regimi “proprietaristi”; la fase
socialdemocratica; la parabola del comunismo; l’onda neo-liberista (con una qualità comunicativa che – a mio
avviso – dovrebbe farlo assumere – per questi capitoli storici - come testo di
formazione consigliata per ogni cittadino istruito e obbligatoria almeno per
gli aspiranti ‘quadri politici’):
GLI ANTICHI REGIMI
“TRI-FUNZIONALI”: NOBILTA’, CLERO E TERZO STATO
Le
società tradizionali sono definite “tri-funzionali” o “ternarie”. L’esempio
meglio censito (benché al momento del suo tramonto) è quello dei “tre stati”
francesi ante-Rivoluzione, e cioè Nobiltà, Clero e “Terzo Stato”. L’aristocrazia
“combattente” giustificava il suo predominio con il compito di “difendere” le
comunità (inizialmente ‘locali’) e la chiesa giustificava i suoi privilegi con
il ruolo di guida spirituale ed educativa; con importanti variazioni storiche e
geografiche:
o
ad
esempio in Svezia vi erano 4 Ordini (la borghesia urbana distinta dai contadini),
in Spagna il clero era più consistente (e l’aristocrazia a lungo motivata dalla
“riconquista” anti-islamica);
o
il
clero cattolico aveva la peculiarità del celibato, per cui lo “stato”
ecclesiastico si riproduceva per lo più cooptando sistematicamente nuovi membri
tra i cadetti dell’aristocrazia, per l’ “alto clero” e dai ceti popolari, per
il “basso clero”;
o
fuori
d’Europa, nel mondo musulmano solo il clero sciita ha assunto un ruolo
rilevante (fino alla recente repubblica teocratica in Iran), in India la
divisione in caste (almeno come censita e cristallizzata dai dominatori
inglesi) era comunque più complessa e articolata, in Cina il ceto
laico/confuciano dei mandarini sostituiva
in qualche modo il ruolo del clero (che invece si riscontrava in Giappone
similmente alla media europea);
COLONIALISMO E
SCHIAVISMO
Contemplando
la conquista coloniale di gran parte del mondo da parte delle potenze europee, Piketty
mette in evidenza, oltre alle ideologie di superiorità, con matrice spesso
religiosa[C] e con i noti risvolti
nelle tecnologie militari, la maggior centralizzazione dei nascenti stati
nazionali (anche in virtù delle molteplici rivalità secolari reciproche)
rispetto agli assetti socio-politici dei territori sottomessi o dominati, anche
qualora costituti da grandi imperi.
Ad
esempio, confrontando l’incidenza della “spesa pubblica statale”, in prevalenze
militare, di regni come Francia e Gran Bretagna nei secoli XVI-XVIII, prossima
al 10% delle risorse nazionali, con quella degli imperi ottomano e cinese, che
in quei secoli si aggirava sul 2-3%, essendo molte funzioni gestite in modo
decentrato – come in precedenza in Europa, con eserciti a reclutamento feudale.
L’Autore
sottolinea in particolare:
o
la
questione della schiavitù che – mai pienamente soppressa in Europa, in
particolare nella forma ‘attenuata’ della “servitù della gleba”, sopravvissuta
in Russia fino al XIX secolo – trovò nuovo slancio ideologico nella supremazia
razziale, in particolare verso i neri africani (spesso già tratti in schiavitù
dalle dinamiche locali e/o dalle predazioni arabe); e che – quando fu superata,
almeno formalmente e con poderose resistenze (vedi guerra di secessione U.S.A.
1861-1865) - a partire dai riflessi della Rivoluzione francese nelle colonie
caraibiche, lasciò un lungo strascico di debiti, a carico degli stessi schiavi
“liberati”, per indennizzare i padroni “espropriati”, da Haiti (alla fine
tributario degli U.S.A.) alla Russia zarista[D];
o
la
diversa traiettoria dei territori dominati o subalterni, ad esempio tra India,
Cina e Giappone, con quest’ultimo che – pur costretto ad aprire i porti al
commercio internazionale grazie alle cannoniere del nuovo colonialismo U.S.A. –
per reazione accelerò la trasformazione dall’antico assetto feudale ed investì
risorse nella formazione dei nuovi quadri tecnici (e militari) di un moderno
stato ‘anti-coloniale’ (salvo assumere precocemente il profilo di un suo nuovo
imperialismo nel Pacifico);
o
l’importanza
quantitativa dei trasferimenti di risorse in favore delle nazioni dominanti,
soprattutto Francia e Gran Bretagna, grazie allo sfruttamento economico da
parte delle imprese private, mentre le tasse estorte nei territori coloniali (spesso affiancate da
corvées di lavoro forzato) andavano per lo più a pareggiare le spese di
mantenimento delle amministrazioni coloniali, cioè soprattutto a pagare gli
stipendi di funzionari e contingenti militari (stipendi molto più alti di
quelli offerti alla manodopera locale,
quando impiegata), con scarsa erogazione di servizi – ad es. scolastici – per
le popolazioni colonizzate;
o
l’impraticabilità
dei tentativi di assimilazione delle colonie ai territori ‘metropolitani’, non
appena si dovette affrontare il problema della parità dei diritti civili,
politici ed elettorali con i popoli dominati (Francia/Algeria e Francia/Unione
Africana), mentre il Commonwealth inglese, mai paritario, ha lasciato
strascichi di difficile gestione riguardo alla fase di libera migrazione dalla
colonie alla Gran Bretagna.
I REGIMI PROPRIETARISTI
La
formazione delle “società proprietarie” si compie, secondo Piketty, pur
attraverso passaggi complessi e controversi, nel secolo XIX in Francia, U.S.A.
e Gran Bretagna (e poi si estende a gran parte delle nazioni non colonizzate:
ben documentato il caso della Svezia), con affermazioni formali di uguaglianza
nei diritti dei cittadini (se proprietari: si veda in particolare la
limitazione “per censo” del diritto di voto, poi esteso ipocritamente ai maschi
alfabeti, nascondendo la natura di classe dello stesso analfabetismo) e
soprattutto di libertà di azione economica delle imprese capitalistiche; qui la
spiegazione delle disuguaglianze socio-economiche e delle narrazioni che le giustificano ricalca in parte “Il capitale
nel XXI secolo” (con le tabelle su redditi e successioni e con i riferimenti ai
romanzi di Jane Austen e di Honoré de Balzac), evidenziando in particolare:
o
la
specifica pretesa “egualitaria” dei regimi repubblicani e post-rivoluzionari di
Francia e U.S.A., dove aleggiava la leggenda di uguali possibilità di ricchezza
per i cittadini affrancati dal peso degli antichi privilegi, senza indagare
sugli effetti concreti di alcuni decenni di sviluppo capitalistico affiancato
da tassazioni proporzionali (o capitarie) e NON progressive;
o
le
premesse della crisi irreversibile di questo modello di polarizzazione patrimoniale,
pervenuto all’apice – con la “prima globalizzazione” - nella cosiddetta “belle
epoque” (dopo la crisi attorno al 1880 e fino alla prima guerra mondiale), sia
nelle tensioni sociali (con il crescente protagonismo dei movimenti operai e
socialisti, nonché femministi) ed a fronte delle spinte indipendentiste dei
popoli colonizzati; sia nella contrapposizione militarista tra i divergenti
interessi nazionali delle potenze coloniali od aspiranti tali (anzi, Piketty si spinge a considerare, in
una sorta di discutibile ‘verifica anti-fattuale’, che – anche senza la prima
guerra mondiale – gli stessi nodi sarebbero venuti comunque al pettine).
LA FASE
SOCIALDEMOCRATICA
Piketty
denomina nell’insieme “società socialdemocratiche” (malgrado l’eterogeneità delle
conduzioni politiche e delle normative socio-economiche), l’insieme delle
evoluzioni dei regimi proprietaristi per
lunga parte del Novecento perché caratterizzate – anche in contrapposizione ed
in concorrenza alla rivoluzione comunista a partire dall’URSS e per il
concomitante conflitto, non solo militare, con il nazi-fascismo – da una forte
compressione dell’accumulazione capitalista, in varie forme, di cui l’Autore
lamenta la mancanza di una sedimentazione comune (a mio avviso invece naturale corollario di esperienze guidate da forze
politiche assai differenti, dai “popolari” e democristiani - e gollisti - alle
diverse famiglie socialiste europee, fino ai democratici americani):
o
l’intervento
degli Stati nell’economia, sia come controllo macro-economico e sui movimenti
di capitale, sia come imprenditoria pubblica;
o
la
tassazione a forte progressività sui redditi e/o sui capitali, con punte
particolarmente elevate in relazione ai debiti accumulati nelle due guerre
mondiali – disciolti però in parte dalla più iniqua inflazione (in danno anche
ai salari ed ai piccoli risparmiatori) –; l’Autore sottolinea la maggior
convinzione ideologica in tale campo, di ispirazione democratico-egualitaria,
proprio in Gran Bretagna ed in U.S.A. [E] (sia per applicazione in
patria, sia nell’imporla temporaneamente alle nazioni sconfitte, quali Germania
e Giappone), cioè nell’area anglosassone che è oggi nettamente orientata in
direzione opposta;
o
la
fondazione dei principali istituti del “welfare”: istruzione (di base), sanità,
pensioni, indennità di disoccupazione; talché la spesa pubblica dei principali
paesi euro-atlantici (con l’area scandinava in testa) salirà stabilmente verso
il 30-40-50% del reddito nazionale complessivo;
o
l’esperimento
– confinato nelle aree germaniche e scandinave – della “cogestione”, ovvero
della compartecipazione di rappresentanti eletti dai lavoratori nella
‘governance’ delle principali imprese private (esperienza che l’Autore valuta
positivamente, contrapponendola all’attardamento della sinistra francese,
socialista e comunista, sino agli anni ’80 del novecento, sull’obiettivo della
nazionalizzazione, rivelatosi nei fatti perdente ai tempi della prima
presidenza di Mitterand).[F]
LA PARABOLA DEL
SOCIALISMO REALE
Mentre Piketty mi
appare dialettico ed esaustivo nell’esaminare le trasformazioni delle nazioni
occidentali (e coloniali), più rigido e stringato mi sembra nell’analisi del
“socialismo reale”, limitato ai fondamentali casi russo e cinese, i cui
fallimenti (fino a Gorbaciov ed a Mao-tse-tung, Piketty imputa soprattutto alla
nazionalizzazione totale e centralizzata dell’economia (che non riesce a
soddisfare la crescita e mutevolezza dei bisogni, e non coinvolge attivamente i
lavoratori), senza misurarsi a mio
avviso:
-
con i successi comunque
raggiunti dal socialismo reale, non solo riguardo all’egualitarismo (Piketty rileva
contenuti dislivelli retribuitivi, ma segnala che la ‘nomenclatura’ godeva di
diversi tipi di privilegi “non monetari”)
in termini di accumulazione primaria e industrializzazione di territori ancora
fermi all’agricoltura feudale, con l’instaurazione di primarie forme di welfare,
ed anche di compattezza sociale nelle grandi sfide della guerra anti-nazista
(per l’URSS) e dell’indipendenza nazionale (per Cina, ma anche Vietnam, Cuba,
ecc.);
-
e – viceversa – con gli
insuccessi comunque e dovunque raccolti – non solo con le forme di
collettivismo esasperate (esempi tragici della Cambogia e del Nord-Corea) – ma
anche con i tentativi di conciliare – in taluni luoghi e fasi - la
pianificazione statale (e il dispotismo del partito unico) con l’autonomia
delle piccole imprese, dall’Ungheria a Cuba, o con i tentativi di
‘autogestione’ in Yugoslavia.
Ritengo invece che si
debba concordare con
la conclusione di Piketty sulla caduta del
“socialismo reale” e sulla repentina trasformazione del regime russo in
uno dei più coerenti esperimenti di ultra-liberismo anti-egualitario (definita
da Piketty “una deriva oligarchica e cleptocratica”; quasi solo in Russia si
applica la “flat tax” con uguale aliquota per tutti i redditi), quale faro del
‘pensiero unico’ iper-capitalista ed ingombrantissima disillusione per i
progressisti del mondo intero (in quanto dimostrazione che una alternativa
socialista è impossibile).
A
ciò concorre anche la svolta cinese (e vietnamita) post-maoista, che ha dato
origine ad una forma inedita e specifica di iper-capitalismo temperato dai
poteri dello Stato/Partito, su cui a mio
avviso occorrerebbero ben altri approfondimenti (resi difficili a Piketty dalla
mancanza di adeguate statistiche su redditi e patrimoni [G]),
anche per il rilievo geo-politico della gigantesca accumulazione di potere
finanziario tecnologico e militare dell’odierna Cina.[H]
Per brevità di
recensione tralascio
l’analisi specifica di Piketty sulla diversa evoluzione dei paesi ex-comunisti
dell’Est Europa, segnalando solo il ruolo quasi neo-coloniale dei capitali
franco-tedeschi in questi territori, con il flusso dei profitti in uscita che
sopravanza i trasferimenti monetari dall’Unione Europea ai corrispondenti Stati
(Polonia, Ungheria, Slovacchia, ecc.).
L’ONDA NEO-LIBERISTA
L’esposizione
storica di Piketty si conclude, riprendendo ancora in parte i contenuti del
“Capitale nel XXI secolo”, con la descrizione della fase del (l’apparente)
trionfo mondiale del neo-liberismo, con la svolta anglosassone Thatcher-Reagan
degli anni 80 e poi la suddetta caduta del comunismo; l’Autore evidenzia, oltre
alle trasformazioni concrete relative alla globalizzazione del movimento delle
merci e dei capitali, alle ondate di “liberalizzazioni” e privatizzazioni, agli
attacchi ai sindacati ed al welfare, al capovolgimento delle politiche fiscali
in senso anti-progressivo, soprattutto i seguenti aspetti:
-
la
vigorosa battaglia ideologica che ha preceduto e accompagnato la svolta, per
cercare e trovare nuove giustificazioni alle nuove (e vecchie) disuguaglianze;
-
i
limiti e le debolezze soggettive delle socialdemocrazie[I], soprattutto riguardo alla
questione fiscale (emblematici gli arretramenti della stessa socialdemocrazia
svedese, dopo la crisi bancaria degli anni 90 ed un breve periodo di governo
conservatore), alle questioni di identità nazionale connesse ai nuovi flussi
migratori post-coloniali, al nodo dell’istruzione superiore, che rimane di
fatto preclusa ad una parte consistente dei ceti subalterni, mentre gli stessi
elettorati dei partiti di centro-sinistra risultano storicamente trasformati in
“partiti dei laureati” (senza battersi però per il superamento di tale
specifico privilegio)[J];
-
le
contraddizioni specifiche dell’Unione Europea, che Piketty non vede come una
proiezione organica dell’ “ordo-liberalismo”12 o del liberalismo alla
Hajek, ma di fatto pesantemente condizionata su tale versante, soprattutto per
l’asimmetria istituzionale tra le materie soggette a maggioranza semplice nel
Consiglio (dove sono rappresentati i 28
governi nazionali), tra cui quanto riguarda la concorrenza tra le
imprese, e le materie subordinate all’unanimità, tra cui le questioni sociali e
fiscali (il che consente a singoli stati, come l’Irlanda, il Lussemburgo o i
Paesi Bassi, di praticare un sistematico “dumping fiscale” in favore delle
imprese multinazionali, con riflessi negativi a cascata a danno dei bilanci
degli altri stati); a maggioranza delibera anche la Banca Centrale Europea,
sopperendo in parte con la politica monetaria alle incapacità dei Governi
nell’imporre adeguate tassazioni (Piketty
si mostrava preoccupato a lungo termine, già nel 2019, per la continua crescita
del debito delle Banche Centrali, e non poteva ancora sapere cosa sta
succedendo ora con la Pandemia);
-
l’estensione
delle disuguaglianze alle questioni ambientali, che però mi sembra che Piketty limiti alla – pur rilevante –
problematica del cambio climatico e delle emissioni di CO2, senza affrontare le
altre dinamiche (intrinseche alla crescita iper-capitalista), quali
l’accaparramento ed inquinamento delle risorse naturali e la perdita di
bio-diversità; in altra parte del testo l’Autore accenna – di passaggio – alla
scorrettezza concettuale del “prodotto interno lordo”, che non considera le
contestuali perdite di “capitale naturale”, ma senza sviluppare a fondo tale
riflessione, che – se si assegnasse alle risorse naturali un prezzo adeguato –
ridurrebbe a ben poca cosa l’effettiva umana creazione di nuove ricchezze.
L’ANALISI SOCIOLOGICA DEI FLUSSI ELETTORALI
Nella
quarta e ultima parte del volume, Piketty, affrontando le contraddizioni del
presente ed esplicitando le sue proposte per una ”società giusta”, si occupa
largamente degli andamenti elettorali nei principali stati democratici, basando
le sue valutazioni sui rapporti tra ideologie e disuguaglianze soprattutto
sulle indagini demoscopiche post-elettorali, che rivelano le sovrapposizioni
tra le preferenze elettorali appena manifestate e le condizioni
socio-economiche di validi campioni statistici dell’elettorato, indicandone
livello di reddito e professionale, caratterizzazioni etniche e religiose, ecc.
(con maggior e minor precisione spostandosi nei luoghi e nei tempi, tempi
comunque successivi alla seconda guerra mondiale e con inizio nei soli paesi
anglosassoni).
La disponibilità di
siffatti dati quantitativi è un invito a nozze per Piketty, che può quindi
combinarli con i suoi abituali “decili e centili di reddito e di ricchezza”
(anche se il testo è ricco altresì di riferimenti a romanzi, film e narrazioni
politiche).
Tralasciando
– per brevità di recensione – di
riferire dettagliatamente sul lungo e complesso caso dei comportamenti
elettorali in U.S.A.[K] (con la conversione – in
un secolo - dei Democratici da partito sudista/segregazionista a forza
moderatamente egualitaria nel secondo Novecento, e poi viceversa con
l’insediamento dei Repubblicani sia tra i nostalgici sudisti sia tra gli operai
scontenti dell’identificazione dei Democratici con i “laureati” e con l’establishment – quest’ultimo per altro
molto a suo agio anche con i Repubblicani…-) ed altri, mi pare che il caso più
paradigmatico illustrato da Piketty sia quello della Francia, soprattutto nel
passaggio delle presidenziali del 2017, in cui l’incrocio tra le questioni
“sociali” e le questioni “nazionali ed etniche” ha di fatto determinato la
suddivisione dell’elettorato in “quattro blocchi”, che l’Autore ha così
denominato:
-
“internazionalista
egualitario”, con le sinistre di Mélenchon e Hamon, moderatamente favorevole
agli immigrati (solo il 32% dei suoi elettori ritiene che gli immigrati
siano “troppi”, contro una media nazionale del 56%, ed una punta del 91%
all’estrema destra) e affezionato alla ridistribuzione del benessere –
oggettivamente con istruzione medio-alta e però redditi medio-bassi;
-
“internazionalista
inegualitario”, guidato dall’attuale presidente Macron, oggettivamente con
istruzione alta e redditi e patrimoni elevati (emblematica per Piketty è la
scelta del 2018 di abbattere l’imposta patrimoniale “sulla fortuna”
e le aliquote sugli alti redditi, finanziata di fatto dall’aumento della
tassazione “ecologica” sui carburanti, che ha innescato la protesta dei
cosiddetti “gilet gialli”);
-
“nativista
inegualitario”, con candidato Fillon, rappresentante del tradizionale
centro-destra (borghese e cattolico), orientato contro l’immigrazione e con una
base elettorale abbastanza istruita e piuttosto ricca;
-
“nativista
egualitario”, con le liste della destra sovranista di Marine LePen e DupontAignan, fortemente
anti-immigrati (ed anti-Europa), che ha recentemente assunto posizioni a favore
della soppressa tassa “sulla fortuna” (per derivando da formazioni storicamente
anti-tasse, come il Poujadismo, dove esordì LePen padre): l’elettorato, poco
scolarizzato e con bassi redditi, presenta però ricchezze patrimoniali
leggermente più elevate;
-
(Piketty
segnala anche un quinto blocco, gli astensionisti, pari al 22% degli elettori
potenziali, con istruzione e redditi nettamente bassi e patrimonio ancor più
basso, ma reticenti a pronunciarsi sui temi dell’immigrazione come della
ridistribuzione della ricchezza).
Secondo
Piketty tale quadri-partizione (instabile per il futuro) costituisce l’approdo
(temporaneo) “di un lungo processo di destrutturazione del sistema di divisione
in classi e delle categorie sinistra/destra, tipiche del periodo 1950-80”: a
questo punto secondo l’Autore sono possibili diverse “biforcazioni”, tra cui
quella più temuta da lui (ed ovviamente
anche da me) è quella della “trappola del social-nativismo”, e cioè che le
forze sovraniste imparino a rappresentare anche le istanze di uguaglianza
sociale, come tatticamente ha iniziato a fare il Front National di Marine
LePen, schiacciando le sinistre su posizioni elitarie, ed incapaci di
districarsi sulle questioni di identità etnica e nazionale e del processo
dell’unificazione europea.
LE PROPOSTE PER UNA
SOCIETA’ GIUSTA
Mentre francamente non
ho ben capito le proposte di Piketty sulla questione migratoria (oltre ad
indicarne la pericolosa ingovernabilità e ad auspicarne la soluzione tramite
nuovi più equi rapporti trasnazionali), la parte finale del libro è chiarissima sulle
sue proposte in materia fiscale, economica e federal-europeista, che di seguito
brevemente riassumo (tralasciando i
dettagli, di aliquote, procedure, ecc., che ai miei occhi appaiono abbastanza ‘prematuri’)
-
generalizzare
– con opportune gradualità (e con esenzione per le micro-imprese) - la
partecipazione, tendenzialmente maggioritaria, dei lavoratori negli organi di
governo aziendale ed incentivare ogni forma di auto-gestione;
-
concentrare
la tassazione – estinguendo le imposte sui consumi (salvo una tassa
sull’emissione di CO2, che però Piketty vorrebbe anch’essa “progressiva” sui
consumi più intensi) – sui seguenti pilastri (con una preliminare trasparenza
statistica e fiscale, che attualmente è carente per comprensibili motivi):
o
tassazione
fortemente progressiva sui redditi (di tutti i tipi, compresi quelli da
capitale), anche per finanziare un reddito di base a tutti i cittadini
sprovvisti;
o
tassazione
permanente e parimenti progressiva sui patrimoni (di tutti i tipi, e non solo
immobiliari; Piketty evidenzia che con le attuali tecnologie, basterebbe
obbligare gli intermediari finanziari a comunicare i dati per costituire un
catasto di tutte le ricchezze finanziarie nel globo, emarginando e svuotando i
“paradisi fiscali”);
o
tassazione
progressiva sulle successioni ereditarie, in particolare finalizzata a
conferire a tutti i “giovani adulti”, ovvero al compimento del 25° anno, una
dote patrimoniale (dell’ordine dei 100.000 € per i paesi occidentali [L], ma da ridurre
notevolmente se estesa al “terzo mondo”), da utilizzare eventualmente anche per
un recupero di deficit formativi;
-
rafforzare
il welfare, in particolare nel campo dell’istruzione, con il contrasto alla
povertà educativa e l’ingresso dei giovani meno abbienti anche nelle scuole più
prestigiose (mediante “quote” simili a quelle sperimentate in India in favore
delle ex-caste più basse);
-
avviare
un vero federalismo europeo, superando – ad esempio tramite cooperazioni
rafforzate tra i principali paesi dell’Euro, ed in particolare costituendo un
Assemblea mista tra parlamentari europei e parlamentari nazionali di tali paesi
(anche qui con ricchezza, o forse
eccesso, di dettagli, quasi che tal riforma fosse immediatamente assumibile)–
la regola dell’unanimità tra governi per le decisioni fiscali e sociali,
offrendo quindi un supporto internazionale alle scelte socio-economiche di cui
sopra – più avanti generalizzabile nel mondo, un po’ per imitazione, un po’ per
un uso ‘progressista’ dei trattati commerciali bilaterali (con i quali moderare
la globalizzazione delle merci e limitare la iper-mobilità dei capitali).
Tali
proposte di riforma nell’insieme configurano, in un tempo lungo, una radicale
mutazione del capitalismo ed una concezione temporanea e sociale della
proprietà (limitando drasticamente l’accumulazione delle ricchezze private),
pur confermando una “economia di mercato” senza pianificazione centralizzata
(il che secondo l’Autore dovrebbe assicurare una continua crescita economica,
sull’esempio del trentennio 1945-75 con le sue elevate aliquote impositive).
Un
assetto socio-economico che Piketty denomina “socialismo partecipato”, per
conseguire il quale – per via pacifica e parlamentare - vanno altresì
sviluppate due ipotesi di correzione ‘anti-plutocratica’
dei partiti e dei media:
-
sostituire
al finanziamento privato dei partiti un finanziamento pubblico non automatico,
ma subordinato al gradimento degli elettori (un po’ come l’italico 2x1000, ma
non proporzionale ai redditi): ad ogni cittadino verrebbe assegnato un bonus
fiscale in cifra fissa, devolvibile al partito preferito (importo che in
assenza di preferenza rimane nelle casse dello stato);
-
affidare
la proprietà dei media ad una sorta di fondazioni, in cui l’influsso dei
finanziatori è attenuato da una soglia massima individuale, piuttosto bassa (un
po’ come avviene nelle banche cooperative).
Piketty
si mostra consapevole sia dei tempi
lunghi necessari per tradurre queste idee in realtà, sia delle possibili
resistenze (ma esplicitamente si preoccupa solo della composizione
conservatrice delle varie Corti Supreme), sia della diversità tra previsioni
libresche ed effettivo compimento delle svolte storiche, attraverso crisi e
“biforcazioni”, ma ripone una illuministica
fiducia nell’importanza della definizione di un organico programma (come già da
lui tracciato in questo volume) in quanto ideologia alternativa
all’iper-capitalismo.
COMMENTO CONCLUSIVO
Oltre alle critiche
puntuali che ho già disseminato in questa recensione, a fronte delle proposte
conclusive di Piketty mi sembra doveroso segnalare che il poderoso (ed
apprezzabile) volume non tratta (ma avrebbe dovuto – almeno a grandi linee -
trattare):
-
delle peculiari
caratteristiche, non solo finanziarie, dell’attuale ‘tecno-capitalismo’, in
termini di ri-organizzazione e ri-subordinazione del lavoro, manuale ed
intellettuale, e della parallela alienazione sia dei produttori che dei
consumatori 15;
-
dei limiti alla
crescita che sono intrinseci alla crisi ambientale della bio-sfera, non solo
per il cambiamento climatico, ma per il tendenziale esaurimento delle risorse
naturali e della bio-diversità 16;
-
delle suddette problematiche
ambientali come elemento di ulteriore scomposizione (già in atto) dei
tradizionali schieramenti politici (e posizionamenti elettorali)17,
ma anche di possibile ricomposizione, necessariamente “internazionalista”,
perché il sovranismo non è oggettivamente in grado di affrontare problemi
globali come il cambio climatico e l’economia circolare;
-
del tragitto politico
necessario per tradurre una serie di idee in un programma politico di un qualche
soggetto organizzato. Anzi: Quale soggetto, tra attuali sinistre estreme e
“partiti dei laureati” socialdemocratici? Con quale ruolo per i nuovi movimenti
e per le tematiche ecologiste?
-
del conseguente
percorso per raggiungere un consenso maggioritario, non solo vincente alle
elezioni, ma come sostanziale egemonia sociale, capace di contrastare i prevedibili
“bassi colpi” degli interessi colpiti (ben oltre i conservatori nelle Corti
Supreme);
-
della crisi del
linguaggio politico tradizionale delle sinistre, compreso il linguaggio di
Piketty, chiarissimo per i “progressisti laureati”, ma forse non altrettanto per
i Gilet Gialli (ad esempio);
-
della insufficienza dei
sondaggi socio-elettorali per comprendere a fondo i risvolti antropologici
delle “ideologie”, che – ad esempio - riescono a convincere un operaio a votare
Berlusconi; sintomatico in proposito mi sembra il rifiuto di Piketty di usare
la categoria del “populismo”, che ‘Autore tende a ridurre ad un esorcismo
utilizzato dalle forze dominanti per screditare i nuovi oppositori (di destra e
di sinistra), al fine di nascondere l’effettiva contesa sulla ripartizione
della ricchezza; mentre secondo me la categoria “populismo” è connotata anche
da specifiche forme di comunicazione, esaltate dai moderni social media, che
aiutano a creare “isole di linguaggio” dove si
nasconde sì l’effettiva contesa sulla ripartizione della ricchezza, però
proprio a cura delle forze populiste (di destra, ma anche di sinistra, quando
ad esempio si persegue l’aumento del debito pubblico – e non la tassazione dei patrimoni e/o dei consumi
di lusso e/o energivori – per soddisfare le richieste degli esclusi)18,19,20,21,22.
Piketty non utilizza la
parola “utopia”, e probabilmente non a caso, perché sembra piuttosto convinto
del realismo delle sue concretissime proposte, mentre a mio avviso manca del
realismo che è necessario nell’inquadrare le disuguaglianze sociali in un
contesto più ampio, di temi e di forze; quadro più ampio rispetto al quale
l’utopia è tanto più utile – a mio avviso – quanto più si è consapevoli del suo
carattere utopico23.
Fonti:
1.
Thomas
Piketty – CAPITALE E IDEOLOGIE – La Nave di Teseo, Milano 2020
2.
Thomas
Piketty – IL CAPITALE NEL XXI SECOLO – Bompiani, Milano 2014
3.
Aldo
Vecchi - PIKETTY: IL CAPITALE NEL XXI SECOLO (E PRECEDENTI).
su UTOPIA21, novembre 2017 - https://drive.google.com/file/d/1WZmz9PbHh5jhkCufdzqQM05Ud4MNDalq/view
4.
David
Graeber – DEBITO: I PRIMI 5 MILA ANNI – Il Saggiatore, Milano 2012
5.
Aldo
Vecchi - DEBITO E DEMOCRAZIA SECONDO DAVID GRAEBER – su UTOPIA21, luglio 2018 https://drive.google.com/file/d/1KNHwvYRdA-OgatgudIQMBtJt5Q3shSWl/view?usp=sharing
6.
Giovanni
Arrighi - IL LUNGO XX SECOLO. DENARO, POTERE E LE ORIGINI DEL NOSTRO TEMPO – Il
Saggiatore, Milano 2014
7.
Aldo
Vecchi - IL LUNGO XX SECOLO DI GIOVANNI ARRIGHI – su UTOPIA21, novembre 2018 https://drive.google.com/file/d/18ZwQ9iRH2IOfuDRTcfRqaM6D5AjFASU_/view
8.
Paolo
Prodi – SETTIMO NON RUBARE – FURTO E MERCATO NELLA STORIA DELL'OCCIDENTE – Il
Mulino, Bologna 2009
9.
Aldo
Vecchi - “PAOLO PRODI: 7° NON RUBARE” su UTOPIA21, settembre 2018 https://drive.google.com/file/d/1yhn8fOy9AWX1zXrx1LjcxtqaMJ2opsHk/view
10.
Jared
Diamond – ARMI, ACCIAIO, MALATTIE - BREVE STORIA DEGLI ULTIMI TREDICIMILA ANNI
– Einaudi, Torino 1997
11.
Aldo
Vecchi - “ARMI, ACCIAIO E MALATTIE” NELLA STORIA MONDIALE DI JARED DIAMOND – su
UTOPIA21, maggio 2017 https://drive.google.com/file/d/0BzaFw8WEAEgYWjV1dkNlVVlOM0k/view?usp=sharing
12.
Andrea
Kalajzic - ORDOLIBERALISMO ED ECONOMIA SOCIALE DI MERCATO – Quaderno n° 8 di
UTOPIA21, settembre 2018 https://drive.google.com/file/d/1BJ9pizgChYG10KkPAjFrndmH6PJBNP9r/view?usp=sharing
13.
Forum
Disuguaglianze Diversità – 15 PROPOSTE PER LA GIUSTIZIA SOCIALE – 2019 - https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/proposte-perla-giustiziasociale/
14.
Aldo
Vecchi - COME COMBATTERE LE DISUGUAGLIANZE: LE 15 PROPOSTE DEL “FORUM” – su
UTOPIA21, maggio 2020 - https://drive.google.com/file/d/1udb1x44_L_Y6pCywG5ccSxK4PQEkCYot/view
15.
Aldo
Vecchi e Fulvio Fagiani - IL DIALOGO TRA FERRARIS E DEMICHELIS SU
TECNICA E UMANITA’ – su UTOPIA21, novembre 2019
-
https://drive.google.com/file/d/1piUV1BaaiW5qcyiSecmY9MsdBPyJGE8E/view
16. Fulvio
Fagiani - LE EMERGENZE AMBIENTALI: CLIMA E BIODIVERSITÀ - Quaderno n° 13 di
UTOPIA21, settembre 2019 - https://drive.google.com/file/d/1p87vwSWWYoSs77J2fQG1K6jR9CtrqBkE/view?usp=sharing
17.
Aldo
Vecchi - INGLEHART E LA POST-MODERNITA’” su UTOPIA 21, novembre
2018 https://drive.google.com/file/d/1e23dr6OMPGRzhpDWegKWdhrz6h4DAcIt/view
18.Aldo Vecchi - IL TERZO SPIRITO DEL
CAPITALISMO, INDAGATO DA
BOLTANSKI E CHIAPELLO – su UTOPIA21, gennaio
2018 - https://drive.google.com/file/d/18rOwVEv0UvuYPjmBw7OdeXY4aKczbyg/view
19.
Ferruccio
Capelli – IL FUTURO ADDOSSO. L’INCERTEZZA, LA PAURA E IL
FARMACO POPULISTA – Guerini e Associati, Milano
2018
20.
Fulvio
Fagiani - CONVERSAZIONE-INTERVISTA CON FERRUCCIO CAPELLI, DIRETTORE DELLA CASA
DELLA CULTURA DI MILANO – su UTOPIA21 – maggio 2019
https://drive.google.com/file/d/1_aaUMDL_zGS48uIm4BY-MHHkBcAjSeM/view
21.
Fulvio
Fagiani - CAPIRE IL POPULISMO. UNA RASSEGNA COMMENTATA DI RIFLESSIONI – su
UTOPIA2, luglio 2019 - https://drive.google.com/file/d/1mCbXRn6J0LFVRZNxjWMDCT8E_Q8960J/view?usp=sharing.
22.
Fulvio
Fagiani –Aldo Vecchi – DEMOCRAZIE, POPULISMI ED UTOPIE - su UTOPIA21, novembre 2019 –
https://drive.google.com/file/d/17frHnO85GX3GKyp3WaGOzNSUHiu4T1r7/view
23.
Aldo
Vecchi – L’ELOGIO DELL’UTOPIA DA PARTE DI ROBERTO MORDACCI – su UTOPIA21, marzo
2020 - https://drive.google.com/file/d/1FBd_mhTAYIX2_RSTLN4dGxn22FhvnaEM/view?usp=sharing.
[A]
Il W.I.L. è un raggruppamento internazionale di ricercatori indipendenti, tra
cui lo scomparso Atkinson e lo stesso Piketty; recentemente la Norvegia ha
consentito a teli ricercatori di incrociare i dati fiscali nazionali con le
rivelazioni dei cosiddetti Panama Papers, il che ha portato ad individuare
evasori fiscali (fino al 30%), concentrati nel solo “centile” più ricco tra i
contribuenti norvegesi.
[B] Mentre autori come Graeber4,5 e
Arrighi6,7 (citati da Piketty), oppure Paolo Prodi8,9 e
Jared Diamond10,11 (non citati) attingono largamente alle fasi
precedenti della storia dell’umanità per cercare di comprendere le svolte della
‘modernità’.
[C]
L’Autore segnala specificamente che dalla documentazione dell’epoca
(riesaminata di recente), l’impresa portoghese guidata da Vasco de Gama verso
l’Oriente (passando a sud dell’Africa) era stata pensata, alla fine del XV
secolo, come prosecuzione della ‘reconquista’ anti-islamca, ed in particolare nel
tentativo di raggiungere i mitici “cristiani del Prete Gianni” (ovvero i copti
della valle del Nilo) per aggirare e aggredire l’Islam tra due fuochi (con
conseguenti equivoci etno-geografici, nel contatto effettivo con i popoli
Indiani). Le successive esplorazioni coloniali promosse dalle ‘compagnie delle
indie’ (francesi, olandesi ed inglesi) furono invece da subito smaccatamente
predatorie, senza infingimenti religiosi: emblematico dell’ideologia e
organizzazione giuridica del colonialismo olandese, è per Piketty (ma anche per me), la saga letteraria
scritta da Pramoedya Ananta Toer .
[D] Piketty
riferisce che Lincoln, prima del precipitare della Guerra di Secessione, aveva
ipotizzato di indennizzare i padroni degli schiavi in U.S.A., calcolando un
esborso superiore di 4 volte a quello che fu poi il debito per la guerra, il
cui esito in favore dei nordisti cancellò tale prospettiva indennizzatoria (ma
di fatto in cambio del tacito permanere delle discriminazioni e dello
sfruttamento sistematico degli ex-schiavi neri negli Stati del Sud); mentre fu
presto dimenticata dai vincitori nordisti la promessa di assegnare un podere
“ed un mulo” a ciascuno degli schiavi liberati
[E]
Contraddizioni del Partito Democratico, segregazionista al sud ed
anti-monopolista al nord; influenza del People Party, benché sempre
minoritario.
[F]
Anche se Piketty, in un capitolo
successivo, segnala la coincidenza tra il “glorioso trentennio” 1945-75 con il
permanere di una ideologia maschilista e con il concreto confinamento delle
donne in ruoli familiari subalterni, nell’insieme a mio avviso sottovaluta
altre arretratezze che pesavano in quei decenni, in cui la freccia positiva del
progresso (e della speranza nel progresso) coesisteva con l’eredità materiale
delle disuguaglianze dei decenni (e secoli) precedenti, dal diritto del lavoro
(ad esempio in Italia lo Statuto dei lavoratori viene conseguito solo verso al
fine del periodo) all’autoritarismo
scolastico (fino al ’68).
[G] pare
anzi che la lamentela di Piketty in merito a tale opacità, esplicitata in
“Capitale e Ideologia”, stia comportando problemi di censura per la
pubblicazione del suo nuovo libro in Cina, mentre “Il Capitale nel XXI secolo”
era stato ben accolto dal regime cinese
[H] Come ben rilevato da Arrighi 6,7.
Piketty prende sul serio la propaganda cinese contro il parlamentarismo
occidentale, in quanto subordinato alle pressioni economiche e mediatiche delle
lobbies (argomento invero in se meritevole a prescindere dai suggerimenti cinesi
del “Global Times”), ma non indaga sulla specificità intrinseca dell’ideologia
post-maoista, che – vista da lontano - mi sembra aver abbandonato Hegel e Marx
per contemplare – seguendo Confucio – una sorta di corporativismo
post-classista, più autoritario che totalitario; sarebbe però forse interessante
confrontarlo – senza intenti offensive – con le teorie corporative sviluppate
in occidente da fascismo e nazismo.
[I]
A mio avviso Piketty invece non
approfondisce la componente endogena della crisi degli anni ’70, per
l’esaurirsi della validità di alcuni istituti keynesiani (da cui la crescita
eccessiva dell’inflazione), nonché in sostanza per il potere crescente degli
stessi sindacati, contemporaneo all’inaridirsi degli afflussi di risorse dai
paesi ex-coloniali.
[J] Nei
successivi capitoli sui flussi elettorali, Piketty dimostra come
l’allontanamento dei lavoratori meno istruiti dal voto a sinistra (spesso
spostandosi verso l’astensione) precede l’insorgere del nodo xenofobo connesso
all’emancipazione dei neri negli U.S.A. ed all’immigrazione (soprattutto se
musulmana) in Europa; non approfondisce
però a mio avviso il percorso sociologico degli elettori di sinistra attraverso
il ricambio generazionale (la mia impressione è che gran parte degli attuali
“laureati di sinistra” siano anche i figli degli antichi “operai di sinistra”).
[K] Anche se
i prossimi sviluppi del caso, con la sfida Biden-Trump, potrà avere effetti
rilevanti per le sorti dell’intera umanità
[L]
L’importo corrisponde circa a metà del patrimonio medio nei paesi sviluppati. La proposta mi sembra più credibile di
quella analoga, mutuata da Atkinson da parte del Forum D&D (Fabrizio Barca
&C.)13,14, che ipotizza una dote di soli 15.000 €, anticipata ai
18 anni.
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