venerdì 21 maggio 2021

UTOPIA21 - MAGGIO 2021: IL MONDO CHE AVRETE, PER AIME-FAVOLE-REMOTTI

La recensione del saggio di tre antropologi sulla crisi planetaria e pandemica.

 

Sommario:

-       sospensione, accecamento, Antropocene

-       confini, socialita’, riti

-       che fare?

-       valutazioni personali sulla questione dei “giovani”

 

 

Il testo di Aime Favole e Remotti “IL MONDO CHE AVRETE – Virus, Antropocene, Rivoluzione” 1 tende ad impostare una critica allo stato delle cose presenti – ed in particolare nella fase pandemica – ed una conseguente proposta di azione socio-politica, utilizzando gli strumenti dell’antropologia: cioè proponendo elementi di comparazione con culture differenti, nello spazio e nel tempo, e comunque cercando di guardare i comportamenti sociali con un occhio in qualche misura ‘esterno’, perché abituato a tali confronti remoti.

 

Gli autori, in quanto antropologi, rivendicano la capacità di ‘sospendersi’ dalla società a cui appartengono, e richiamano il precedente dei filosofi scettici, nell’antichità Greca, ed in particolare la “epoché” (cioè “sospensione del giudizio”) elaborata da Pirrone (pare ispirato anche dal contatto con i sapienti indiani, al seguito della spedizione bellica di Alessandro Magno verso Oriente): pertanto si pongono come tessitori di una “cultura SULL’Antropocene”, alternativa alla cultura dominante che è invece “cultura DELL’Antropocene”

 

 

SOSPENSIONE, ACCECAMENTO, ANTROPOCENE

 

Mi sembra che il tentativo sia riuscito maggiormente nel primo capitolo (a cura di Francesco Remotti, intitolato “sospensione, accecamento, Antropocene”), dove l’insaziabile voracità della cultura occidentale è posta a confronto con assetti culturali/religiosi che invece contemplano i concetti di “pausa” ed anche di “limite”, tra cui:

-       l’ebraismo, che disponeva sia il sabato come astensione settimanale dal lavoro, dedicata a Dio, sia l’anno sabbatico con il riposo delle colture ed anche la remissione dei debiti e la liberazione degli schiavi (per debito);

-       le popolazioni BaNande (nel nord del Congo), che per la loro abituale pratica agricola, fondata sulla de-forestazione, prevede sia limiti spaziali (alcune parti della foresta devono permanere, per non sfrattarne totalmente i correlativi spiriti divini), sia limiti temporali, in occasione della morte del capo-tribù (attorno alle cui spoglie esposte in cima ad una collina sacra sorgerà ex-novo un piccolo bosco) e per il tempo – indefinito – necessario alla nomina del nuovo capo;

-       numerosi popoli che imponevano o impongono ai giovani riti di iniziazione che li escludono temporaneamente dal contesto sociale e li costringono a confrontarsi con angoscia e pericolo (salvo ritualizzare, come per una popolazione dell’Uganda, anche il rientro aggressivo e rivendicativo dei giovani che superano le prove, autorizzati anche ad insultare gli anziani ed i capi della tribù).

 

In tali esperienze la scarsità di risorse, i pericoli e le catastrofi costituiscono cardini della formazione e del sentire comune, mentre nella nostra cultura (a partire ancora dall’ebraismo, sotto l’aspetto del dominio dell’uomo sulla natura, e poi attraverso cristianesimo e illuminismo, e quindi rivoluzione industriale e capitalismo, ma così anche per la variante comunista) la concezione di una conquista illimitata dello spazio e nel tempo (un uomo padrone della terra, e che si fa Dio) è tutt’uno con la cecità verso le catastrofi.

 

Mentre il concetto stesso di “progresso” o “sviluppo” risulta assente nella cultura e nella lingua di altri popoli (comunque poi in gran parte travolti o assimilati dal dominio occidentale): ad esempio in una popolazione dell’odierno Camerun si traducono con “il sogno del bianco”.

 

Il testo di Remotti cita opportunamente – oltre a Gunther Anders ed a Yuval Noah Harari - Serge Latouche e la sua ragionevole considerazione ‘fisica’ sulla impossibilità di una crescita infinita in un ambiente finito, nonché Greta Thumberg e Davi Kopenawa (esponente delle popolazioni amazzoniche).

 

 

CONFINI, SOCIALITA’, RITI

 

Meno pregnante, come approccio antropologico, ho trovato il secondo capitolo (a cura di Adriano Favole, dal titolo “Confini, socialità, riti”), che descrive – dopo la prima ondata della Pandemia – le principali trasformazioni indotte dal Covid-19 nelle abitudini e nei comportamenti sociali (in occidente), con qualche divagazione interessante su:

-       i concetti di confine e confinamento (ad esempio, nelle società coloniali, mediante imposizioni militari, ma anche con animo benefico, come per le “reducciones” per i nativi sudamericani protetti dai Gesuiti),

-       i rapporti tra malattie e segregazioni (le motivazioni sanitarie delle espulsioni dei poveri dai centri urbani, ma anche in parte per l’Apartheid sudafricana),

-       i vecchi e nuovi riti (dal caso dei polinesiani di Tikopia, che salutano e abbandonano i vecchi Dei, perché incapaci di proteggerli dalle malattie portate dai coloni cristiani, alla difficoltà – pur in una società secolarizzata – di abbandonare i riti del lutto nell’Italia della Pandemia).

Però mi sembra che le osservazioni sull’Occidente Pandemizzato, sull’isolamento e sulle distanze (fisiche e sociali), non differiscano molto da quelle di diversi altri autori, anche non antropologi, che abbiamo potuto in questi mesi leggere o ascoltare sui vari mezzi di comunicazione (ed anche da quanto da noi riportato od elaborato su Utopia21).

 

 

CHE FARE?

 

Più ambizioso, ma forse non altrettanto convincente, mi è parso il terzo capitolo (a cura di Marco Aime: “Che fare?”), dove, riprendendo l’introduzione collettiva dei 3 Autori, si tende a delineare una prospettiva (di “rivoluzione culturale”) che – facendo tesoro della crisi pandemica per evidenziare l’insostenibilità del mito dello “sviluppo” – contrapponga alle ulteriori spinte tecnologiche alla artificializzazione del mondo (in particolare con le nano-tecnologie), ed al connesso rischio della estinzione della specie umana, un diverso paradigma di pensiero e di relazioni tra gli uomini e tra uomini e natura: “creare un altro mito, i cui valori non siano più l’eccesso, il dominio rovinoso della Terra … un mito che sostituisca la razionalità con la ragionevolezza, l’io con il noi, la competizione con la convivenza”, anche recuperando i valori di pausa e di  limite dalle culture tradizionali oggi minoritarie.

 

Constatando l’evanescenza delle ideologie tra le attuali aggregazioni politiche e sindacali, Aime&C. individuano i “giovani” come nuovo soggetto, che sia in grado di articolare un progetto di futuro (una nuova e valida ideologia), fondato sui principi di responsabilità e di solidarietà (non solo tra gli uomini, ma anche tra uomini e ogni altro elemento naturale).

L’aspettativa verso i “giovani” si fonda sugli embrioni di movimenti come i Friday For Future, ma anche su una analisi sociologica che richiama i fenomeni di costume degli anni ’60 e l’insorgere in essi di una sorta di “presa di coscienza” della “classe giovanile”.

 

 

VALUTAZIONI PERSONALI SULLA QUESTIONE DEI “GIOVANI”

 

Anche se il “cambio di paradigma” e l’attenzione ai movimenti sono temi cari a Utopia21, così come la diffidenza verso proposte meramente tecnologiche di superamento della crisi climatica, non mi sono molto riconosciuto nelle (premesse e) conclusioni di Aime-Favole-Remotti, per diversi motivi, che tento di sviluppare meglio nell’articolo “Autocoscienza dell’Antropocene”, in questo stesso numero di Utopia 21, mentre qui  mi limito alla questione dei “giovani”:

 

-       l’interesse specifico dei giovani rispetto alla crisi climatica è palese, ma non mi pare che possano individuarsi precise cesure, per cui chi oggi ha più di 30 anni, ad esempio, non sia oggettivamente toccato dai probabili effetti del riscaldamento globale nel 2050 (quando cioè avrà 60 anni); la tendenza ad una maggior consapevolezza soggettiva da parte dei più giovani sfuma, a mio avviso, in una più generale (ed ovvia) constatazione sulla maggior propensione dei giovani ai cambiamenti socio-politici, che probabilmente risale al mondo antico (chi erano gli Argonauti oppure i coloni verso le nuove terre della Magna Grecia), ma ha trovato notevoli conferme nelle moderne rivoluzioni, anche escludendo le fasi in cui i giovani sono stati tirati in mezzo dalla coscrizione di leva (come nella rivoluzione francese e seguito napoleonico e nei rivolgimenti connessi alle due guerre mondiali e relativi dopo-guerra): penso ad esempio all’età dei Carbonari, dei Garibaldini e dei Mazziniani (“Giovine Italia”), agli interventisti “sorelliani” prima del 1915 (anche se allora i giovani non costituivano categoria sociologica né target consumistico), e poi al ’68, alle “Primavere di Praga” ed alle “Primavere arabe”…

 

-       viceversa starei sempre un poco attento alle visioni interclassiste, non perché i giovani occidentali più ricchi si possano esentare dai rischi climatici (anche se certamente sapranno approfittare delle risorse familiare per attenuarne gli effetti), ma perché comunque finora movimenti come i FFF sono ben lungi dall’intercettare il disagio dei poveri-del-mondo, magari già sommersi dall’innalzamento dei mari o affamati dalla desertificazione (in ambedue i casi senza distinzione di età), ma assai lontani dai FFF e simili come linguaggio, priorità, auto-rappresentazione (aspetti che dovrebbero essere preminenti proprio per gli antropologi). A me pare che tendano a manifestare i loro problemi tentando di emigrare – per lo più come individui o famiglie – verso paesi più ricchi e più sicuri, anziché (pur con tutto il rispetto) marinare la scuola il venerdì.

 

 

aldovecchi@hotmail.it

 

Fonti:

1.    Marco Aime, Adriano Favole, Francesco Remotti - IL MONDO CHE AVRETE. VIRUS, ANTROPOCENE, RIVOLUZIONE – Utet, Torino 2020


UTOPIA21 - MAGGIO 2021: AUTOCOSCIENZA DELL’ANTROPOCENE?

 


Qualche riflessione sulle radici storiche e antropologiche del dominio dell’uomo sulla natura, sulla secolarizzazione e sulle trasformazioni delle ideologie

 

Sommario:

-       dal neolitico al predominio dell’occidente

-       consapevolezza antropocenica e permanenza del sacro

-       una nuova razionalita’ universalista?

-       ideologie calanti e crescenti

 

 

DAL NEOLITICO AL PREDOMINIO DELL’OCCIDENTE

 

In una recente intervista sul supplemento “Robinson” di “La Repubblica” 1, il grande scrittore e studioso indiano Amitav Ghosh riassume il suo pensiero a proposito della corsa sfrenata dell’uomo al consumo delle risorse del Pianeta attribuendo grande responsabilità di innesco all’occidente colonialista (imitato ora da paesi come Cina India e Indonesia che – dice Ghosh –  “si autocolonializzano”, in particolare riguardo alle popolazioni indigene), perché i “nativi” spesso erano estranei e refrattari rispetto “alla cultura del desiderio”, che ora invece viene imposta alle masse.

 

Anche se come lettore ho spesso apprezzato Ghosh2 e altri autori “anti-coloniali”, indiani e no, come Vikram Chandra3, Arundaty Roy4 e Pramoedya Ananta Toer5 (ma anche la cruda verità sul colonialismo espressa da autori occidentali, come Jared Diamond6, oppure – ad esempio – Ennio Flaiano7), ho qualche dubbio riguardo al circoscrivere i guasti umani verso la biosfera in un Antropocene scaturito dalla rivoluzione industriale dell’Occidente Illuminista.

 

Ne ho già discusso su queste pagine con Fulvio Fagiani, Anna Maria Vailati e Franck Raes, avanzando l’ipotesi che il passaggio dal paleolitico dei cacciatori/raccoglitori al neolitico degli allevatori/coltivatori – pur non influendo ancora pesantemente sui ‘saldi’ degli scambi biosferici (CO2 ecc.) – abbia costituito un complesso salto di fase, di fatto irreversibile (non mi risultano significative retrocessioni alle culture paleolitiche) verso un assetto caratterizzato da:

-       tendenza all’espansione, sia demografica che geografica, nel senso di superfici coltivate o comunque sfruttate e antropizzate, e nella direzione di una dispersione crescente degli insediamenti umani (mentre le popolazioni paleo-litiche, se ho ben capito, pur migrando, faticavano a riprodursi e non modificavano significativamente il proprio habitat, come d’altronde per lo più le altre specie di primati)

-       aumento delle differenze sociali, dalla divisione del lavoro alla accumulazione di risorse, fino alla formazione di piramidi gerarchiche di dimensioni imperiali (il fenomeno dell’imperialismo connota il mondo antico, in particolare dalle ‘età dei metalli’ in gran parte dei continenti, in particolare tra Medio Oriente e Mediterraneo, tra India Cina Mongolia e Sud-Est asiatico, in Sud-America: fasi politiche ‘non-estrattive’ e pacifiche – pur presenti, ma minoritarie – fanno per l’appunto notizia, come segnalato da Graeber e da Diamond); e le conquiste imperiali più poderose, nei successivi secoli, non hanno avuto origine solo in Europa: vedi impero Persiano, espansione mussulmana musulmana, Gengis Khan, Giappone 1930/40).

 

Con le dovute eccezioni, connesse soprattutto alla sopravvivenza di culture pre-agricole, anche i popoli colonizzati dall’Occidente nell’ultimo millennio (rammentando le crociate prima delle grandi conquiste intercontinentali) a mio avviso hanno conosciuto strutturalmente sia le aristocrazie estrattive e la cupidigia del lusso come modello culturale dominante (anche se non per questo facilmente imitabile) sia le connesse tendenze allo sfruttamento intensivo delle risorse naturali ed alla espansione territoriale delle singole entità statuali (o tendenzialmente tali): tendenze che corrispondono in qualche  misura ad una prassi dinamica delle colture e della storia, in contrasto con l’ideologia statica della conservazione sociale (comunque necessaria ai regimi aristocratici) e con il tradizionalismo del mondo contadino.

 

Questa dialettica tra ‘dinamismo oggettivo’ e ‘staticità soggettiva’ merita a mio avviso ulteriori riflessioni, per capire dove e come si collochi l’innegabile salto in avanti dell’Occidente Predatorio, con la sua ‘industrializzazione del dominio’ e con il mito del progresso tecnico.

 

Nel testo di Aime-Favole-Remotti, che recensisco su questo stesso numero di Utopia21, ho apprezzato il riferimento al pensiero di Simon L. Lewis e Mark A. Maslin, secondo i quali il passaggio alla civiltà agricola fu premessa irrevocabile per il successivo sviluppo verso l’Antropocene, materializzato con la rivoluzione industriale dal secolo XVIII e poi con la “grande accelerazione” di metà novecento.

 

 

CONSAPEVOLEZZA ANTROPOCENICA E PERMANENZA DEL SACRO

 

Mi sembra invece piuttosto scoperta la questione delle consapevolezza collettiva di questa inarrestabile tendenza: se con Emanuele Severino consideriamo la filosofia greca come matrice del Pensiero Occidentale (che separa la cultura dalla natura, all’opposto della compenetrazione presente in altre culture, come recentemente ricapitolato dall’antropologo Philippe Descola9, richiamato anche nel saggio di Adriano Favole), quando e come si verifica invece la rottura nel pensiero religioso giudaico-cristiano (ed anche separatamente, dopo Cristo[A], in ambito ebraico ed in ambito cristiano), che pure formalmente ha (hanno) continuato a contemplare – ad esempio - i riposi settimanali ed una concezione uomo/natura non sempre così ‘padronale’ (si vedano le basi teologiche dell’enciclica “Laudato-sì”, con l’uomo custode del creato)?

 

Possono venirci in aiuto forse Max Weber o Paolo Prodi6,10, Jared Diamond6 e Giovanni Arrighi10, ma la questione non è solo storica o filologica: si tratta di capire meglio la struttura per l’appunto antropologica della ‘secolarizzazione’[B] della società occidentale (e quindi le radici culturali del tecno-capitalismo, che di fatto ci pervade).

Per parte sua Papa Francesco (anche con l’enciclica Fratelli tutti) ha dato un importante contributo, aprendo in campo cattolico una strada diversa dalla consueta antropologia individualista del ‘peccato originale’ (e anche del peccato come colpa puramente personale[C]), che assolveva di fatto i popoli cristiani dalle responsabilità politiche ed ambientali, proponendo invece – a fianco della salvezza eterna – la ricerca di una salvezza collettiva anche su questa terra.

Ma la positiva svolta del Papa e di una parte delle chiese cristiane non influisce più di tanto sulla cultura dominante in occidente, che negli ultimi secoli ha marginalizzato la religione, coltivando “nuovi miti e nuovi riti” (successo, competizione, consumo); e sviluppando comportamenti diffusi, come  ad esempio il maschilismo da bar, il familismo clientelare, lo sciovinismo da stadio, che hanno forse radici romano-barbariche (il miles gloriosus, il pater familias, l’onore cavalleresco) e non giudaico-cristiane, e che sono il retroterra dell’egoismo sociale (non solo nei ranghi sovranisti); tendenze poco consone ai principi di limite e di pausa, e di attenzione alle altre specie viventi.

 

Tra i capisaldi culturali del ‘tecno-capitalismo’ vi è indubbiamente la fiducia acritica nella scienza e nella tecnica, che è stata scossa in parte dalla corrente Pandemia, sia per l’impreparazione delle strutture sanitarie, sia per i battibecchi tra epidemiologi[D] (molto meno di quanto sia stata scosso però il suo contrario, e cioè la sfiducia complottistica e apriorista): ma mi sembra scorretta una lettura storica meccanicista, che identifichi lo scientismo occidentale (dal Medioevo agli ultimi cinque o sei secoli) con i suoi frutti più malati, come la presunzione di supremazia della razionalità dell’uomo bianco ‘civilizzatore’ e non ne veda il nesso invece con le nuove scienze critiche che tale razionalità hanno vivisezionato e messo in crisi, dalla sociologia (marxismo compreso) alla psicanalisi, dalle neuroscienze alla stessa antropologia (emancipata dall’etnografia colonialista): per non parlare delle rivoluzioni interne alle stesse ‘scienze dure’, che ne hanno più volte ribaltato i presupposti, liberandole da concezioni lineari e deduttive.

 

La pretesa di universalità dell’illuminismo ha a mio avviso diverse facce, tra cui due negative:

-       l’imposizione di un modello culturale cosmopolita che ignora e disprezza le altrui culture (ma già nel mondo antico i ‘barbari’ erano sempre gli altri, e gli altri sempre ‘barbari’)

-       l’ipocrisia con cui spesso divorzia dalla prassi, commisurando con due pesi e due misure le nefandezze proprie rispetto a quelle altrui

e due facce invece positive:

-       la curiosità scientifica verso tutto ciò che è nuovo e diverso (compresi gli abissi della psiche, le tendenze irrazionaliste e le culture antagoniste)

-       il fondamentale principio dell’uguaglianza dei diritti di tutti gli esseri umani (e l’apertura verso i diritti degli altri esseri viventi).

 

 

UNA NUOVA RAZIONALITA’ UNIVERSALISTA?

 

La svolta culturale che è necessaria per realizzare una seria “transizione ecologica”, anche come cosciente limitazione dei consumi affluenti dei ceti medio-alti, deve fare appello ad una consapevolezza dei limiti delle risorse e della necessaria solidarietà distributiva, ma non credo sia particolarmente utile né possibile che avvenga ripiegando su concezioni statiche e cicliche della civiltà, ormai estranee all’uomo secolarizzato (ma anche al cristiano Bergogliano), e comunque inadeguate alla crescita demografica tuttora in atto in diversi continenti.

Dalla critica alla razionalità tecno-capitalista, a partire dai suoi evidenti fallimenti, a mio avviso si può e deve uscire con una nuova razionalità, che incorpori la indispensabile ‘ragionevolezza’ e faccia tesoro anche delle emozioni e dei miti.

In questo senso è forse più utile il neo-illuminismo di Marc Augé12,13 che passa appunto per la fratellanza universale, rispetto ad una ipotesi di anti-illuminismo, riscontrabile anche nel testo di Aime&C8.

Cioè progettare la ‘decrescita’ come nuova forma di “progresso”, non solo tecnologico, ma ‘umano’ (vedi anche Aldo Schiavone14,15) e non come trionfo del ‘regresso’.

E’ un po’ quello che in parte cerca di fare l’Europa, pur con molte contraddizioni (come ci racconta molto bene Fulvio Fagiani16,17); anche se forse gli Europei ancora non hanno ben capito.

 

IDEOLOGIE CALANTI E CRESCENTI

Infatti mi pare che stia crescendo un divario tra le ideologie politiche presenti nei ‘mercati elettorali’ nazionali (soprattutto in Italia) e le effettive visioni che orientano i gruppi dirigenti a scala europea (e mondiale): divario a mio avviso non ancora ben percepito da diversi osservatori.

Ad esempio il già citato Aime si ferma alla lettura del declino delle ideologie tradizionali, il che mi sembra ben si attagli al caso italiano:

-       sia per la pallidezza del PD (con riserva di capire meglio le tendenze della segreteria Letta e dei suoi tentativi di consultazione di massa) e l’inconsistenza di quel che resta alla sua sinistra,

-       sia per lo specifico fenomeno ‘post-ideologico’ (e assai confusionario) dei 5Stelle,

-       sia ancora per le ambiguità e contraddizioni dello schieramento populista/sovranista del centro-destra[E].

Non mi sembra invece che sia attualmente valido per altre realtà occidentali, dalle sinistre iberiche al persistere (e innovarsi) delle socialdemocrazie scandinave, dagli elementi di novità dei Democratici USA (vedi proposte di Biden sul fisco, nazionale e mondiale) agli assetti ‘centristi’ delle forze tuttora egemoni nell’Unione Europea (cioè Macron, Merkel, ma anche la SPD) che convergono di fatto su temi e programmi tradizionalmente “Verdi” (anche se i Verdi Europei sono formalmente esterni alla maggioranza politica che ha eletto Ursula Von Der Leyen alla guida della Commissione Europea).

Sul tema delle ideologie nel contesto contemporaneo ho letto recentemente su “Domani” anche Gianfranco Pasquino, che ritiene tuttora valido lo schema destra/sinistra di Norberto Bobbio e non pone attenzione alle complicazioni “Verdi”, ed un contributo più aggiornato di Nadia Urbinati (con Carlo Invernizzi Accetti, altro professore italiano in USA) che – nell’attribuire a Biden una rapida patente di ”socialdemocratico” (dimenticando però che le aliquote fiscali che il nuovo Presidente USA ora propone sono da tempo vigenti in buona parte d’Europa, o meglio nelle parti buone dell’Europa) – colgono sì  la convergenza centrista dell’Unione Europea sui temi “Verdi”, ma classificandola come “tecno-populista”, perché priva di una chiara tensione politica progressista: .

Secondo me si può convenire su tale immagine sia pensando a Macron, sia all’esperimento “interinale” del governo Draghi, ma mi sembra erroneo attribuirlo alla Merkel ed all’insieme della “Maggioranza Ursula”, perché

-       la prima usa lo “stato di necessità” per giustificare un duplice enorme strappo rispetto ai canoni ordo-liberisti tipici del suo partito, e cioè il passaggio al deficit di bilancio, e addirittura al “Debito Comune Europeo” su cui si fonda il Next Generation EU, e l’abbandono tendenziale del dogma della concorrenza in favore di corposi aiuti di Stato in un disegno di politica industriale continentale: ma intanto compie tali gravosi passi;

-       la seconda è composita e però ricca di tensioni politiche ed ideologiche che si palesano sia nel Parlamento Europeo sia nei singoli paesi, e che probabilmente ancor più si mostreranno proprio in Germania nelle prossime elezioni di settembre, con l’addio al governo da parte della suddetta Angela Merkel; ed è comunque nel contempo nettamente antagonista alle sirene sovraniste (così come Biden è alternativo al Trumpismo).

 

L’affermarsi di una ideologia euro-verde e progressista (nel senso dell’attenzione – finalmente – alle disuguaglianze), seppure venata di tecnicismo, a mio avviso è un elemento positivo: il rischio peggiore è che resti ‘pura ideologia’, nascondendo di fatto le resistenze di molte forze aziendali e corporative alle trasformazioni profonde, come hanno recentemente segnalato su "La Repubblica" sia Carlin Petrini che Mario Calderini, con la preoccupazione che l’occasione irripetibile della svolta climatica (ecc.) vada perduta.

 

aldovecchi@hotmail.it

 

Fonti:

1.    Carlo Pizzati – GUARIREMO SALVANDO L’ANIMA DEL MONDO – su “Robinson” di “La Rerpubblica”, 17 aprile 2021

2.    Amitav Ghosh - MARE DI PAPAVERI - Neri Pozza - Vicenza, 2008

3.    Vikram Chandra - TERRA ROSSA E PIOGGIA SCROSCIANTE – Instar libri - Torino, 1998

4.    Arundaty Roy - IL DIO DELLE PICCOLE COSE – TEA - Milano, 2010

5.    Pramoedya Ananta Toer - FIGLIO DI TUTTI I POPOLI – Il Saggiatore – Milano 2000

6.    Recensioni su Diamond, Prodi, Graeber, in QUADERNO n° 2 di Utopia21, settembre 2018 

7.    Ennio Flaiano - TEMPO DI UCCIDERE – Longanesi - Milano, 1947

8.    Marco Aime, Adriano Favole, Francesco Remotti - IL MONDO CHE AVRETE. VIRUS, ANTROPOCENE, RIVOLUZIONE – Utet, Torino 2020

9.    Philippe Descola - OLTRE NATURA E CULTURA - Raffaello Cortina Editore- Milano, 2005-2021

10. Recensioni su Prodi e Arrighi in QUADERNO N° 12 di Utopia21, settembre 2019 

11. Stefano Levi della Torre – DIO – Bollati Boringhieri, Milano 2020

12. Marc Augé - UN ALTRO MONDO È POSSIBILE - Torino, Codice edizioni, 2017

13. Aldo Vecchi – UN ALTRO MONDO È POSSIBILE, PER MARC AUGÈ – SU UTOPIA21, gennaio  2018 - https://drive.google.com/file/d/15pVwRQGfv1YgVwfggi8FofhkUeQZY8qx/view

14. Aldo Schiavone – PROGRESSO – Il Mulino, Bologna 2020

15. Aldo Vecchi - ALDO SCHIAVONE E IL PROGRESSO – U21nov 20




[A] o meglio: dopo la cacciata degli ebrei dalle loro terre da parte dell’Impero romano, ed i successivi secoli di oppressione e segregazione da parte dei cristiani (e, meno, dei mussulmani), che hanno spesso privato gli ebrei dal possesso di qualsivoglia terra; e credo sia difficile esercitare la ‘sospensione delle colture’ se non si ha la possibilità di coltivare, ed altri pertanto diventano i parametri del lavoro e della ricchezza.

[B] Il tema della secolarizzazione, ma anche delle opposte tendenze nell’ultimo secolo, è ben approfondito nel saggio “Dio” di Stefano Levi della Torre11: mi pare di poter osservare però che nei tempi lunghi a Occidente (ma non solo) la secolarizzazione risulti prevalente sul ritorno al sacro.

[C] Il teorico della transizione ecologica Grael Giraud (propugnatore in particolare della necessità di rottamare gli enormi asset finanziari che si fondano sulle energie fossili), divenuto gesuita dopo una carriera come consulente finanziario, svincolandosi in una recente intervista dall’ennesima domanda sulle presunte radici gesuitiche del pensiero economico di Mario Draghi (fondate solamente sul liceo da lui frequentato), evidenziava invece la felice e non casuale contaminazione tra gesuiti e francescani in Papa Bergoglio, rivendicando in particolare ai gesuiti un ‘ottimismo antropologico’ sulla capacità dell’uomo di migliorare questo mondo, connesso ad una assenza di ostinazione dei gesuiti stessi verso la sessualità come peccato.

Come testimonianza personale, immagino che tali tendenze dei gesuiti siano però piuttosto recenti, perché a cavallo degli anni 50-60 rammento delle vigorose campagne di predicatori gesuiti quanto mai sessuofobiche (ed anche anticomuniste, se è lecito introdurre una riflessione su un’altra svolta nel tardo Novecento del pur ammirevole ordine religioso fondato da Sant’Ignazio).

[D]   E’ pur vero che la ricerca scientifica procede nel furore della battaglia tra le diverse scuole e attraverso la verificazione oppure falsificazione delle ipotesi: però il divismo mediatico cui hanno accondisceso diversi scienziati pandemici mi sembra appartenere piuttosto alla categoria deteriore “informazione spettacolare” 

[E] Occorre forse prestare attenzione al localismo anti-globalizzazione, che potrebbe coniugarsi con insidiose nostalgie corporative ‘sangue e terra’, di un qualche richiamo ecologico-sovranista (che propone una apparente riconciliazione tra uomo e natura e tra padroni ed operai), noncurante però delle dimensioni globali dei problemi da risolvere, dai flussi di energia e gas climalteranti ai flussi migratori.

UTOPIA21 - MAGGIO 2021: IL B.E.S. COMPIE 10 ANNI (MA PASSA INOSSERVATO)

 

Il rapporto ISTAT “BES 2020”, alla ricerca degli indicatori del Benessere Equo e Sostenibile, tra tendenze di lungo periodo e crisi pandemica.

 

Sommario:

-       il rapporto BES 2020

-       la sintesi del presidente Blangiardo

-       rapporto BES e rapporto ASviS

-       l’ombra dell’inesorabile PIL (e le sue possibili evoluzioni)

appendice: : alcuni grafici e commenti dal rapporto BES 2020

 

 

IL RAPPORTO B.E.S. 2020

 

Negli ultimi anni, ed ancor più dall’inizio della Pandemia Covid-19, l’opinione pubblica si è spesso occupata - almeno “a parole” - di BENESSERE (sia psicofisico che socioeconomico), di EQUITA’ (dal fisco alle priorità vaccinali) e di SOSTENIBILITA’ (che inizia ad essere in gran voga, persino tra i peggio inquinatori); tuttavia lo sforzo compiuto prima nel dibattito tra intellettuali illuminati e poi dalle stesse Istituzioni[1], dagli Istituti di Statistica ai Governi, per affiancare (non solo in Italia) al famigerato indice economico “PIL”, Prodotto Interno Lordo, una serie di indicatori “BES” (per l’appunto Benessere Equo e Solidale) non ha finora forato lo schermo del disinteresse del mondo politico-giornalistico italiano: anche se il rapporto annuale BES, elaborato dall’ISTAT, figura come allegato della legge Finanziaria dal 2017 e se con il 2020 si compie il primo di decennio di vita del BES.

 

La recente pubblicazione del rapporto ISTAT “BES 2020 – Il Benessere Equo e Sostenibile in Italia”1 offre l’occasione per conoscere la materia ed anche forse per comprendere le ragioni di una certa qual sordità nei suoi confronti.

Il rapporto consta di circa 240 pagine, invero di assai facile lettura, pur nel rigore scientifico della statistica, ed illustra i dati relativi a oltre 150 indicatori, raggruppati in dodici “domini”:

 

 

 

1. Salute

2. Istruzione e formazione

3. Lavoro e conciliazione dei tempi di vita

4. Benessere economico

5. Relazioni sociali

6. Politica e istituzioni

7. Sicurezza

8. Benessere soggettivo

9. Paesaggio e patrimonio culturale

10. Ambiente

11. Innovazione, ricerca e creatività

12. Qualità dei servizi.

 

Per ciascuno di questi temi il rapporto presenta e motiva gli indicatori selezionati e ne racconta succintamente i risultati – sviluppati anche in tabelle e grafici – , spesso estesi anche al confronto con gli altri 26 paesi dell’Unione Europea, ed in gran parte articolati nelle 26 articolazioni territoriali (regioni, province autonome e grandi ripartizioni geografiche).

 

Si tratta per lo più di dati “oggettivi”, ma anche di inchieste campionarie relative a valutazioni “soggettive”, riguardo – ad esempio – al benessere ovvero alla sicurezza “percepita”: il che avvicina i contenuti ed il linguaggio del Rapporto a quelle più “sociologici” dei “Rapporti Censis” od anche delle inchieste demoscopiche dei vari Diamanti, Piepoli, IPSOS, ecc.

 

Rilevo inoltre che – a diversità degli approcci più neutrali e burocratici cui l’ISTAT ci ha abituato in decenni di censimenti e annuari – l’impostazione complessiva del documento riflette, ed in alcuni passi anche esplicitamente, la “visione del mondo verde-progressiva” che accomuna in qualche misura gli Obiettivi socio-ambientali ONU/2030 (SDGoals), il programma “Ursula” dell’Unione Europea e l’assetto culturale del Next Generation EU ovvero Recovery Fund.

 

In questo scenario, il rapporto BES 2020 assume però un carattere particolare in funzione della Pandemia Covid-19 e si sviluppa pertanto, quasi puntualmente, su un duplice versante:

-       la misurazione delle trasformazioni consolidate nel decennio 2010-2019 (in gran parte negative, nell’ottica politico-culturale di cui sopra, ma con alcune vistose eccezioni)

-       la “foto-in-movimento” delle conseguenze della Pandemia (e soprattutto della cosiddetta “prima ondata”, perché la Seconda/Terza si è verificata con il testo ormai configurato).

 

 

LA SINTESI DEL PRESIDENTE BLANGIARDO

 

Per una valutazione sintetica di questo duplice andamento -  sia nella realtà sociale che nelle modalità di lettura di questa da parte dell’ISTAT - riporto alcune citazioni dalla “Presentazione” del Rapporto 2020 da parte del presidente dell’ISTAT, Giancarlo Blangiardo 2:

 

 

-       RIGUARDO AL METODO DI INDAGINE: “… non vi è dubbio che l’eccezionalità del momento, cui nessuno era preparato, ha fatto emergere nuovi bisogni e ha acuito antiche e nuove disuguaglianze. In occasione di questo Rapporto Bes, l’improvviso cambiamento del contesto ha reso necessario un lavoro di arricchimento del quadro concettuale entro cui ci si è mossi nelle fasi di raccolta e di trattamento dei dati statistici. In particolare, si è intervenuti tanto sulle fonti, con nuovi quesiti nelle indagini che forniscono il materiale a supporto degli indicatori, quanto sulla tempestività degli aggiornamenti, con la scelta di misure più sensibili al cambiamento nel breve periodo. L’interazione tra i nostri ricercatori e gli esperti di settore ci ha anche portato ad aggiungere alcuni indicatori al framework tradizionale e a sostituirne altri.

Dei 152 indicatori che compongono il nuovo set, ben 33 rappresentano una novità e integrano otto dei dodici domini del Bes. Tale revisione è stata realizzata con particolare attenzione e coerenza rispetto alle linee fondamentali del programma #NextGenerationEU.

In questa nuova edizione del Rapporto, si è dato corso all’arricchimento del panorama informativo sui temi che più di altri hanno impatto oggi sul benessere dei cittadini: la salute e i servizi sanitari, le risorse digitali, il cambiamento climatico e il capitale umano, quest’ultimo sia in termini di formazione che di potenziale produttivo. Le valorizzazioni e gli approfondimenti tematici sono stati costruiti in modo da offrire riferimenti oggettivi per orientare l’azione di policy con la quale l’Europa intende attuare la propria visione strategica per l’inclusione e la crescita. “

 

-       RIGUARDO ALLE TRASFORMAZIONI NEL DECENNIO, NEGATIVE… :”A dieci anni dall’avvio del progetto, gli indicatori proposti mostrano chiaramente come i cambiamenti nel profilo del benessere in Italia siano stati molti: tanto nella direzione del progresso, quanto nella persistenza di aree di criticità, anche profonde.

Per effetto dei tagli continui lungo tutto il decennio, il nostro sistema sanitario è arrivato a disporre di meno posti letto, di medici di età mediamente più elevata, per il blocco del turnover, con l’effetto complessivo di una maggiore disuguaglianza nell’accesso alle cure. I bambini iscritti al nido e i giovani che si laureano sono ancora troppo pochi, e il divario con l’Europa sull’istruzione continua ad allargarsi.

La distanza dagli altri partner europei non diminuisce nemmeno per gli investimenti in ricerca e sviluppo, che restano troppo bassi, né, malgrado i progressi, per l’incidenza di lavoratori della conoscenza. Nel contempo si è accresciuto il numero di ragazzi che non studiano, non lavorano e non sono inseriti in programmi di formazione professionale.

La qualità del lavoro in Italia resta critica, e l’incidenza della povertà assoluta, che per sette anni si era mantenuta su livelli doppi rispetto ai valori del 2009, solo nel 2019 mostra, per la prima volta, una leggera flessione, per poi aumentare nuovamente nel 2020.

Quanto alla digitalizzazione, l’uso di internet è cresciuto, ma permane lo svantaggio del Mezzogiorno, delle donne e dei più anziani.

Gli investimenti per la tutela e la valorizzazione di beni e attività culturali, già storicamente inadeguati, sono in diminuzione.

Sul fronte dell’ambiente, molti sono i segnali di allarme: crescono infatti le criticità sulle risorse idriche, resta allarmante la qualità dell’aria, avanza il consumo di suolo e l’abusivismo edilizio torna a livelli preoccupanti nel Mezzogiorno.”

 

 

… E POSITIVE : “Dal lato delle buone notizie, dopo anni di declino, l’interesse dei cittadini per i temi civici e politici ha mostrato segnali di ripresa e la loro sensibilità per i cambiamenti climatici continua ad aumentare. La presenza delle donne nei luoghi decisionali ha fatto passi in avanti, sebbene lentamente. La criminalità è andata progressivamente riducendosi. Alcuni indicatori ambientali, come quelli che monitorano la gestione dei rifiuti, hanno mostrato un andamento favorevole.”

 

NONCHE’ SPECIFICAMENTE RIGUARDO ALLA PANDEMIA DEL 2020: “La pandemia ha rappresentato una frenata, o addirittura un arretramento, in più di un settore. Gli indicatori del Bes hanno registrato impatti particolarmente violenti su alcuni progressi raggiunti in dieci anni sul fronte della salute, annullati in un solo anno. L’emergenza sanitaria ha avuto conseguenze pesanti su un mercato del lavoro già poco dinamico e segmentato e ha imposto una battuta di arresto nella partecipazione culturale. In questo contesto, aumentano comprensibilmente i timori dei cittadini per la propria situazione futura e resta bassa la quota di persone molto soddisfatte per la vita.”

 

Una sintesi meno compressa si può leggere nelle trenta pagine del capitolo iniziale “Dieci anni di Bes”, curato da Maria Cozzolino e Alessandra Tinto (già richiamato nella nota A), oppure ascoltando il video della Direttora dell’ISTAT Linda Laura Sabbadini 3, documenti ai quali rimando.

 

Riproduco inoltre in APPENDICE alcuni assaggi dei grafici (e qualche altro dato e/o commento) che ho trovato più interessanti leggendo il Rapporto.

 

 

RAPPORTO BES E RAPPORTO ASVIS

 

Appare abbastanza evidente una significativa sovrapposizione tra le tematiche e gli indicatori del BES e quelli della ricerca dell’ASviS sulle tendenze di attuazione degli Obiettivi 

socio-ambientali ONU/2030 (SDGoals), che ho riassunto nel precedente numero di Utopia21 4; il che non stupisce, considerando anche la presenza di Enrico Giovannini (attuale ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibile) sia tra gli ideatori del BES (quando era presidente dell’ISTAT) sia tra i promotori dell’Alleanza per lo sviluppo Sostenibile ASviS.

La stessa ASviS, commentando il Rapporto BES 2020 ha anzi pubblicato la seguente tabella di raffronto relativa a 62 dei 152 indicatori utilizzati dall’ISTAT, che corrispondono ad altrettanti indicatori ASviS, ridistribuiti però diversamente tra i “domini” dell’uno ed i “goals” dell’altra:

 

 TABELLA: VEDI SU https://www.universauser.it/utopia21.html


Però, aldilà della problematica della scelta e delle aggregazione degli indicatori, la differenza fondamentale di approccio e di metodo tra Rapporto BES e Rapporto ASviS risiede nel tentativo del secondo di utilizzare i “panieri” di indicatori per combinarli, tramite algoritmi numerici, in un minor numero di indici sintetici (che poi si traducano nei “semaforini” verde/rosso/giallo), mentre il BES si limita ad essere una sorta di “diorama” statistico-descrittivo, sì dinamico e non ‘neutrale’, ma senza pretese di sintesi algoritmiche (e forse per questo più intellettualmente ‘onesto’).

 

 

L’OMBRA DELL’INESORABILE PIL (E LE SUE POSSIBILI EVOLUZIONI)

 

Ambedue gli strumenti restano comunque analitici e multidimensionali e quindi assai lontani dal divenire competitivi con il PIL, Prodotto Interno Lordo, che è costituito anch’esso da un complesso di rilevazioni e di stime non sempre lineari, ma che ha il grande pregio (che nel contempo è anche un grande difetto) di commisurare tutto in €, il denaro, “equivalente universale” (secondo Marx); il che dimostra però, inequivocabilmente quanto la nostra società sia “attaccata al denaro”.

Come accennavo in nota al precedente articolo sull’ASviS, è in corso di definizione a livello ONU [2] la proposta di un nuovo PIL comprensivo delle variazioni in più e in meno del patrimonio ambientale: sostanzialmente si tratta di attribuire un ‘prezzo fittizio’ ai beni ambientali non ancora pienamente assoggettati al mercato, quali aria, acqua, aree naturali e connessi popolamenti, accettandone quindi una sorta di ‘monetizzazione virtuale’.

Il che – a mio avviso – resta abbastanza astratto, e quindi anche impreciso sotto il profilo della quantificazione[3], fino a che il potere statuale non avrà la forza e la volontà di imporre tali ‘valori’ come tassazione (nella direzione già in atto per le emissioni di CO2 e le varie ipotesi di ‘carbon tax’, a partire dalle ‘accise’ sui carburanti [4]), rendendo così concretamente ‘monetari’ i valori stessi, e quindi internalizzati nel mitico PIL (a tal punto la esatta misurazione dei ‘valori’ diverrebbe una variabile del ‘mercato politico’ assai più che non delle scienze statistiche).

Anche se in tal modo ancora una volta il denaro emergerebbe come misura di tutte le cose[5].

 

La constatazione che il BES non è “un indice”, che possa soppiantare il PIL, bensì un metodo di lettura sistematica delle trasformazioni e dei bisogni sociali, non giustifica però la disattenzione del mondo politico e giornalistico, che ho denunciato in premessa.

La lettura delle 240 pagine del Rapporto BES (o almeno delle sintesi di cui ho detto sopra) mi sembra infatti assai istruttiva, come illustro per assaggi anche nella successiva APPENDICE.

 PER L'APPENDICE E RELATIVE IMMAGINI VEDI https://www.universauser.it/utopia21.html

aldovecchi@hotmail.it

 

Fonti:

1.    Istituto Nazionale di Statistica – RAPPORTO BES 2020: IL BENESSERE EQUO E SOSTENIBILE IN ITALIA - https://www.istat.it/it/archivio/254761

2.    IDEM, PRESENTAZIONE DEL PRESIDENTE, GINACARLO BLANGIARDO https://www.istat.it/it/files//2021/03/Presentazione.pdf

3.    IDEM, SINTESI DELLA DIRETTORA LAURA LINDA SABBADINI

https://www.istat.it/it/files//2021/03/Programma-Bes-10.pdf

4.    Aldo Vecchi - I RAPPORTI ASVIS 2020 E I TERRITORI – su UTOPIA21, marzo 2021 – https://drive.google.com/file/d/1ah-wVbDE_u-1DBMIet-ouSfLvoZnCB6-/view.

5.    Aldo Vecchi - https://drive.google.com/file/d/1hTCkTv9CJUUV2JLYKGZ4AGWYCu-VGF0P/view.



[1] Per la genesi del BES rimando alle prime pagine del capitolo introduttivo “Dieci anni di BES”, all’interno del rapporto ISTAT BES 2020

[2] COMUNICATO ONU DEL 3 MARZO 2021 “La sostenibilità accanto alla produzione, i dati ambientali accanto a quelli economici: le Nazioni Unite provano a inaugurare una nuova concezione della ricchezza globale e dopo oltre 50 anni dal celebre discorso di Robert Kennedy sul Pil con il capo economista Elliott Harris presentano alla stampa un nuovo indicatore che includerà allo stesso tempo dati economici e ambientali, e che dovrebbe essere recepito dai lavori della Commissione Statistica delle Nazioni Unite questa settimana. L’obiettivo – auspica il Palazzo di Vetro – è aprire una nuova era in cui in cui misurare il benessere non più soltanto servendosi dei parametri del Prodotto Interno Lordo, ma allargando la rilevazione anche ai temi ambientali, con l’obiettivo di portare il tema della sostenibilità al centro del delle scelte politiche dei singoli Paesi.

Nel suo famoso discorso all’Università del Kansas nel marzo del 1968 Robert Kennedy dichiarò: “Non possiamo misurare i successi del paese sulla base del prodotto interno lordo…..il Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana”. Ora l’Onu compie un passo in questa direzione con l’adozione del nuovo sistema di contabilità SEEA EA, acronimo di System of Environmental-Economic Accounting-Ecosystem Accounting con l’obiettivo -sottolinea- di avere “un impatto significativo sugli sforzi per affrontare le emergenze ambientali come il cambiamento climatico e il declino della biodiversità”.

[3] Il problema si pone anche a proposito dell’analogo tentativo – in atto tra gli studiosi di urbanistica e risparmio di suolo - per attribuire un valore monetario ai ‘servizi eco-sistemici’, resi ad esempio dalle ‘aree interne’ in favore delle ricche metropoli. 5

[4] Accise che si sono storicamente stratificate a partire da motivazioni non-ecologiche, come la guerra d’Etiopia oppure terremoti e alluvioni. Più mirata in senso salutistico e/o moralistico, invece, la storia delle accise su tabacco e alcoolici.

[5] D’altronde sarebbe a mio avviso un disastro se l’alternativa fosse un unico indice di ‘benessere percepito’ (del tipo ‘misuratori della felicità’ di cui ci siamo più volte occupati su Utopia21), con il pesante rischio di un populismo cosmico (ancorché probabilmente pure ‘sovranista’).