venerdì 21 maggio 2021

UTOPIA21 - MAGGIO 2021: AUTOCOSCIENZA DELL’ANTROPOCENE?

 


Qualche riflessione sulle radici storiche e antropologiche del dominio dell’uomo sulla natura, sulla secolarizzazione e sulle trasformazioni delle ideologie

 

Sommario:

-       dal neolitico al predominio dell’occidente

-       consapevolezza antropocenica e permanenza del sacro

-       una nuova razionalita’ universalista?

-       ideologie calanti e crescenti

 

 

DAL NEOLITICO AL PREDOMINIO DELL’OCCIDENTE

 

In una recente intervista sul supplemento “Robinson” di “La Repubblica” 1, il grande scrittore e studioso indiano Amitav Ghosh riassume il suo pensiero a proposito della corsa sfrenata dell’uomo al consumo delle risorse del Pianeta attribuendo grande responsabilità di innesco all’occidente colonialista (imitato ora da paesi come Cina India e Indonesia che – dice Ghosh –  “si autocolonializzano”, in particolare riguardo alle popolazioni indigene), perché i “nativi” spesso erano estranei e refrattari rispetto “alla cultura del desiderio”, che ora invece viene imposta alle masse.

 

Anche se come lettore ho spesso apprezzato Ghosh2 e altri autori “anti-coloniali”, indiani e no, come Vikram Chandra3, Arundaty Roy4 e Pramoedya Ananta Toer5 (ma anche la cruda verità sul colonialismo espressa da autori occidentali, come Jared Diamond6, oppure – ad esempio – Ennio Flaiano7), ho qualche dubbio riguardo al circoscrivere i guasti umani verso la biosfera in un Antropocene scaturito dalla rivoluzione industriale dell’Occidente Illuminista.

 

Ne ho già discusso su queste pagine con Fulvio Fagiani, Anna Maria Vailati e Franck Raes, avanzando l’ipotesi che il passaggio dal paleolitico dei cacciatori/raccoglitori al neolitico degli allevatori/coltivatori – pur non influendo ancora pesantemente sui ‘saldi’ degli scambi biosferici (CO2 ecc.) – abbia costituito un complesso salto di fase, di fatto irreversibile (non mi risultano significative retrocessioni alle culture paleolitiche) verso un assetto caratterizzato da:

-       tendenza all’espansione, sia demografica che geografica, nel senso di superfici coltivate o comunque sfruttate e antropizzate, e nella direzione di una dispersione crescente degli insediamenti umani (mentre le popolazioni paleo-litiche, se ho ben capito, pur migrando, faticavano a riprodursi e non modificavano significativamente il proprio habitat, come d’altronde per lo più le altre specie di primati)

-       aumento delle differenze sociali, dalla divisione del lavoro alla accumulazione di risorse, fino alla formazione di piramidi gerarchiche di dimensioni imperiali (il fenomeno dell’imperialismo connota il mondo antico, in particolare dalle ‘età dei metalli’ in gran parte dei continenti, in particolare tra Medio Oriente e Mediterraneo, tra India Cina Mongolia e Sud-Est asiatico, in Sud-America: fasi politiche ‘non-estrattive’ e pacifiche – pur presenti, ma minoritarie – fanno per l’appunto notizia, come segnalato da Graeber e da Diamond); e le conquiste imperiali più poderose, nei successivi secoli, non hanno avuto origine solo in Europa: vedi impero Persiano, espansione mussulmana musulmana, Gengis Khan, Giappone 1930/40).

 

Con le dovute eccezioni, connesse soprattutto alla sopravvivenza di culture pre-agricole, anche i popoli colonizzati dall’Occidente nell’ultimo millennio (rammentando le crociate prima delle grandi conquiste intercontinentali) a mio avviso hanno conosciuto strutturalmente sia le aristocrazie estrattive e la cupidigia del lusso come modello culturale dominante (anche se non per questo facilmente imitabile) sia le connesse tendenze allo sfruttamento intensivo delle risorse naturali ed alla espansione territoriale delle singole entità statuali (o tendenzialmente tali): tendenze che corrispondono in qualche  misura ad una prassi dinamica delle colture e della storia, in contrasto con l’ideologia statica della conservazione sociale (comunque necessaria ai regimi aristocratici) e con il tradizionalismo del mondo contadino.

 

Questa dialettica tra ‘dinamismo oggettivo’ e ‘staticità soggettiva’ merita a mio avviso ulteriori riflessioni, per capire dove e come si collochi l’innegabile salto in avanti dell’Occidente Predatorio, con la sua ‘industrializzazione del dominio’ e con il mito del progresso tecnico.

 

Nel testo di Aime-Favole-Remotti, che recensisco su questo stesso numero di Utopia21, ho apprezzato il riferimento al pensiero di Simon L. Lewis e Mark A. Maslin, secondo i quali il passaggio alla civiltà agricola fu premessa irrevocabile per il successivo sviluppo verso l’Antropocene, materializzato con la rivoluzione industriale dal secolo XVIII e poi con la “grande accelerazione” di metà novecento.

 

 

CONSAPEVOLEZZA ANTROPOCENICA E PERMANENZA DEL SACRO

 

Mi sembra invece piuttosto scoperta la questione delle consapevolezza collettiva di questa inarrestabile tendenza: se con Emanuele Severino consideriamo la filosofia greca come matrice del Pensiero Occidentale (che separa la cultura dalla natura, all’opposto della compenetrazione presente in altre culture, come recentemente ricapitolato dall’antropologo Philippe Descola9, richiamato anche nel saggio di Adriano Favole), quando e come si verifica invece la rottura nel pensiero religioso giudaico-cristiano (ed anche separatamente, dopo Cristo[A], in ambito ebraico ed in ambito cristiano), che pure formalmente ha (hanno) continuato a contemplare – ad esempio - i riposi settimanali ed una concezione uomo/natura non sempre così ‘padronale’ (si vedano le basi teologiche dell’enciclica “Laudato-sì”, con l’uomo custode del creato)?

 

Possono venirci in aiuto forse Max Weber o Paolo Prodi6,10, Jared Diamond6 e Giovanni Arrighi10, ma la questione non è solo storica o filologica: si tratta di capire meglio la struttura per l’appunto antropologica della ‘secolarizzazione’[B] della società occidentale (e quindi le radici culturali del tecno-capitalismo, che di fatto ci pervade).

Per parte sua Papa Francesco (anche con l’enciclica Fratelli tutti) ha dato un importante contributo, aprendo in campo cattolico una strada diversa dalla consueta antropologia individualista del ‘peccato originale’ (e anche del peccato come colpa puramente personale[C]), che assolveva di fatto i popoli cristiani dalle responsabilità politiche ed ambientali, proponendo invece – a fianco della salvezza eterna – la ricerca di una salvezza collettiva anche su questa terra.

Ma la positiva svolta del Papa e di una parte delle chiese cristiane non influisce più di tanto sulla cultura dominante in occidente, che negli ultimi secoli ha marginalizzato la religione, coltivando “nuovi miti e nuovi riti” (successo, competizione, consumo); e sviluppando comportamenti diffusi, come  ad esempio il maschilismo da bar, il familismo clientelare, lo sciovinismo da stadio, che hanno forse radici romano-barbariche (il miles gloriosus, il pater familias, l’onore cavalleresco) e non giudaico-cristiane, e che sono il retroterra dell’egoismo sociale (non solo nei ranghi sovranisti); tendenze poco consone ai principi di limite e di pausa, e di attenzione alle altre specie viventi.

 

Tra i capisaldi culturali del ‘tecno-capitalismo’ vi è indubbiamente la fiducia acritica nella scienza e nella tecnica, che è stata scossa in parte dalla corrente Pandemia, sia per l’impreparazione delle strutture sanitarie, sia per i battibecchi tra epidemiologi[D] (molto meno di quanto sia stata scosso però il suo contrario, e cioè la sfiducia complottistica e apriorista): ma mi sembra scorretta una lettura storica meccanicista, che identifichi lo scientismo occidentale (dal Medioevo agli ultimi cinque o sei secoli) con i suoi frutti più malati, come la presunzione di supremazia della razionalità dell’uomo bianco ‘civilizzatore’ e non ne veda il nesso invece con le nuove scienze critiche che tale razionalità hanno vivisezionato e messo in crisi, dalla sociologia (marxismo compreso) alla psicanalisi, dalle neuroscienze alla stessa antropologia (emancipata dall’etnografia colonialista): per non parlare delle rivoluzioni interne alle stesse ‘scienze dure’, che ne hanno più volte ribaltato i presupposti, liberandole da concezioni lineari e deduttive.

 

La pretesa di universalità dell’illuminismo ha a mio avviso diverse facce, tra cui due negative:

-       l’imposizione di un modello culturale cosmopolita che ignora e disprezza le altrui culture (ma già nel mondo antico i ‘barbari’ erano sempre gli altri, e gli altri sempre ‘barbari’)

-       l’ipocrisia con cui spesso divorzia dalla prassi, commisurando con due pesi e due misure le nefandezze proprie rispetto a quelle altrui

e due facce invece positive:

-       la curiosità scientifica verso tutto ciò che è nuovo e diverso (compresi gli abissi della psiche, le tendenze irrazionaliste e le culture antagoniste)

-       il fondamentale principio dell’uguaglianza dei diritti di tutti gli esseri umani (e l’apertura verso i diritti degli altri esseri viventi).

 

 

UNA NUOVA RAZIONALITA’ UNIVERSALISTA?

 

La svolta culturale che è necessaria per realizzare una seria “transizione ecologica”, anche come cosciente limitazione dei consumi affluenti dei ceti medio-alti, deve fare appello ad una consapevolezza dei limiti delle risorse e della necessaria solidarietà distributiva, ma non credo sia particolarmente utile né possibile che avvenga ripiegando su concezioni statiche e cicliche della civiltà, ormai estranee all’uomo secolarizzato (ma anche al cristiano Bergogliano), e comunque inadeguate alla crescita demografica tuttora in atto in diversi continenti.

Dalla critica alla razionalità tecno-capitalista, a partire dai suoi evidenti fallimenti, a mio avviso si può e deve uscire con una nuova razionalità, che incorpori la indispensabile ‘ragionevolezza’ e faccia tesoro anche delle emozioni e dei miti.

In questo senso è forse più utile il neo-illuminismo di Marc Augé12,13 che passa appunto per la fratellanza universale, rispetto ad una ipotesi di anti-illuminismo, riscontrabile anche nel testo di Aime&C8.

Cioè progettare la ‘decrescita’ come nuova forma di “progresso”, non solo tecnologico, ma ‘umano’ (vedi anche Aldo Schiavone14,15) e non come trionfo del ‘regresso’.

E’ un po’ quello che in parte cerca di fare l’Europa, pur con molte contraddizioni (come ci racconta molto bene Fulvio Fagiani16,17); anche se forse gli Europei ancora non hanno ben capito.

 

IDEOLOGIE CALANTI E CRESCENTI

Infatti mi pare che stia crescendo un divario tra le ideologie politiche presenti nei ‘mercati elettorali’ nazionali (soprattutto in Italia) e le effettive visioni che orientano i gruppi dirigenti a scala europea (e mondiale): divario a mio avviso non ancora ben percepito da diversi osservatori.

Ad esempio il già citato Aime si ferma alla lettura del declino delle ideologie tradizionali, il che mi sembra ben si attagli al caso italiano:

-       sia per la pallidezza del PD (con riserva di capire meglio le tendenze della segreteria Letta e dei suoi tentativi di consultazione di massa) e l’inconsistenza di quel che resta alla sua sinistra,

-       sia per lo specifico fenomeno ‘post-ideologico’ (e assai confusionario) dei 5Stelle,

-       sia ancora per le ambiguità e contraddizioni dello schieramento populista/sovranista del centro-destra[E].

Non mi sembra invece che sia attualmente valido per altre realtà occidentali, dalle sinistre iberiche al persistere (e innovarsi) delle socialdemocrazie scandinave, dagli elementi di novità dei Democratici USA (vedi proposte di Biden sul fisco, nazionale e mondiale) agli assetti ‘centristi’ delle forze tuttora egemoni nell’Unione Europea (cioè Macron, Merkel, ma anche la SPD) che convergono di fatto su temi e programmi tradizionalmente “Verdi” (anche se i Verdi Europei sono formalmente esterni alla maggioranza politica che ha eletto Ursula Von Der Leyen alla guida della Commissione Europea).

Sul tema delle ideologie nel contesto contemporaneo ho letto recentemente su “Domani” anche Gianfranco Pasquino, che ritiene tuttora valido lo schema destra/sinistra di Norberto Bobbio e non pone attenzione alle complicazioni “Verdi”, ed un contributo più aggiornato di Nadia Urbinati (con Carlo Invernizzi Accetti, altro professore italiano in USA) che – nell’attribuire a Biden una rapida patente di ”socialdemocratico” (dimenticando però che le aliquote fiscali che il nuovo Presidente USA ora propone sono da tempo vigenti in buona parte d’Europa, o meglio nelle parti buone dell’Europa) – colgono sì  la convergenza centrista dell’Unione Europea sui temi “Verdi”, ma classificandola come “tecno-populista”, perché priva di una chiara tensione politica progressista: .

Secondo me si può convenire su tale immagine sia pensando a Macron, sia all’esperimento “interinale” del governo Draghi, ma mi sembra erroneo attribuirlo alla Merkel ed all’insieme della “Maggioranza Ursula”, perché

-       la prima usa lo “stato di necessità” per giustificare un duplice enorme strappo rispetto ai canoni ordo-liberisti tipici del suo partito, e cioè il passaggio al deficit di bilancio, e addirittura al “Debito Comune Europeo” su cui si fonda il Next Generation EU, e l’abbandono tendenziale del dogma della concorrenza in favore di corposi aiuti di Stato in un disegno di politica industriale continentale: ma intanto compie tali gravosi passi;

-       la seconda è composita e però ricca di tensioni politiche ed ideologiche che si palesano sia nel Parlamento Europeo sia nei singoli paesi, e che probabilmente ancor più si mostreranno proprio in Germania nelle prossime elezioni di settembre, con l’addio al governo da parte della suddetta Angela Merkel; ed è comunque nel contempo nettamente antagonista alle sirene sovraniste (così come Biden è alternativo al Trumpismo).

 

L’affermarsi di una ideologia euro-verde e progressista (nel senso dell’attenzione – finalmente – alle disuguaglianze), seppure venata di tecnicismo, a mio avviso è un elemento positivo: il rischio peggiore è che resti ‘pura ideologia’, nascondendo di fatto le resistenze di molte forze aziendali e corporative alle trasformazioni profonde, come hanno recentemente segnalato su "La Repubblica" sia Carlin Petrini che Mario Calderini, con la preoccupazione che l’occasione irripetibile della svolta climatica (ecc.) vada perduta.

 

aldovecchi@hotmail.it

 

Fonti:

1.    Carlo Pizzati – GUARIREMO SALVANDO L’ANIMA DEL MONDO – su “Robinson” di “La Rerpubblica”, 17 aprile 2021

2.    Amitav Ghosh - MARE DI PAPAVERI - Neri Pozza - Vicenza, 2008

3.    Vikram Chandra - TERRA ROSSA E PIOGGIA SCROSCIANTE – Instar libri - Torino, 1998

4.    Arundaty Roy - IL DIO DELLE PICCOLE COSE – TEA - Milano, 2010

5.    Pramoedya Ananta Toer - FIGLIO DI TUTTI I POPOLI – Il Saggiatore – Milano 2000

6.    Recensioni su Diamond, Prodi, Graeber, in QUADERNO n° 2 di Utopia21, settembre 2018 

7.    Ennio Flaiano - TEMPO DI UCCIDERE – Longanesi - Milano, 1947

8.    Marco Aime, Adriano Favole, Francesco Remotti - IL MONDO CHE AVRETE. VIRUS, ANTROPOCENE, RIVOLUZIONE – Utet, Torino 2020

9.    Philippe Descola - OLTRE NATURA E CULTURA - Raffaello Cortina Editore- Milano, 2005-2021

10. Recensioni su Prodi e Arrighi in QUADERNO N° 12 di Utopia21, settembre 2019 

11. Stefano Levi della Torre – DIO – Bollati Boringhieri, Milano 2020

12. Marc Augé - UN ALTRO MONDO È POSSIBILE - Torino, Codice edizioni, 2017

13. Aldo Vecchi – UN ALTRO MONDO È POSSIBILE, PER MARC AUGÈ – SU UTOPIA21, gennaio  2018 - https://drive.google.com/file/d/15pVwRQGfv1YgVwfggi8FofhkUeQZY8qx/view

14. Aldo Schiavone – PROGRESSO – Il Mulino, Bologna 2020

15. Aldo Vecchi - ALDO SCHIAVONE E IL PROGRESSO – U21nov 20




[A] o meglio: dopo la cacciata degli ebrei dalle loro terre da parte dell’Impero romano, ed i successivi secoli di oppressione e segregazione da parte dei cristiani (e, meno, dei mussulmani), che hanno spesso privato gli ebrei dal possesso di qualsivoglia terra; e credo sia difficile esercitare la ‘sospensione delle colture’ se non si ha la possibilità di coltivare, ed altri pertanto diventano i parametri del lavoro e della ricchezza.

[B] Il tema della secolarizzazione, ma anche delle opposte tendenze nell’ultimo secolo, è ben approfondito nel saggio “Dio” di Stefano Levi della Torre11: mi pare di poter osservare però che nei tempi lunghi a Occidente (ma non solo) la secolarizzazione risulti prevalente sul ritorno al sacro.

[C] Il teorico della transizione ecologica Grael Giraud (propugnatore in particolare della necessità di rottamare gli enormi asset finanziari che si fondano sulle energie fossili), divenuto gesuita dopo una carriera come consulente finanziario, svincolandosi in una recente intervista dall’ennesima domanda sulle presunte radici gesuitiche del pensiero economico di Mario Draghi (fondate solamente sul liceo da lui frequentato), evidenziava invece la felice e non casuale contaminazione tra gesuiti e francescani in Papa Bergoglio, rivendicando in particolare ai gesuiti un ‘ottimismo antropologico’ sulla capacità dell’uomo di migliorare questo mondo, connesso ad una assenza di ostinazione dei gesuiti stessi verso la sessualità come peccato.

Come testimonianza personale, immagino che tali tendenze dei gesuiti siano però piuttosto recenti, perché a cavallo degli anni 50-60 rammento delle vigorose campagne di predicatori gesuiti quanto mai sessuofobiche (ed anche anticomuniste, se è lecito introdurre una riflessione su un’altra svolta nel tardo Novecento del pur ammirevole ordine religioso fondato da Sant’Ignazio).

[D]   E’ pur vero che la ricerca scientifica procede nel furore della battaglia tra le diverse scuole e attraverso la verificazione oppure falsificazione delle ipotesi: però il divismo mediatico cui hanno accondisceso diversi scienziati pandemici mi sembra appartenere piuttosto alla categoria deteriore “informazione spettacolare” 

[E] Occorre forse prestare attenzione al localismo anti-globalizzazione, che potrebbe coniugarsi con insidiose nostalgie corporative ‘sangue e terra’, di un qualche richiamo ecologico-sovranista (che propone una apparente riconciliazione tra uomo e natura e tra padroni ed operai), noncurante però delle dimensioni globali dei problemi da risolvere, dai flussi di energia e gas climalteranti ai flussi migratori.

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