venerdì 21 maggio 2021

UTOPIA21 - MAGGIO 2021: IL MONDO CHE AVRETE, PER AIME-FAVOLE-REMOTTI

La recensione del saggio di tre antropologi sulla crisi planetaria e pandemica.

 

Sommario:

-       sospensione, accecamento, Antropocene

-       confini, socialita’, riti

-       che fare?

-       valutazioni personali sulla questione dei “giovani”

 

 

Il testo di Aime Favole e Remotti “IL MONDO CHE AVRETE – Virus, Antropocene, Rivoluzione” 1 tende ad impostare una critica allo stato delle cose presenti – ed in particolare nella fase pandemica – ed una conseguente proposta di azione socio-politica, utilizzando gli strumenti dell’antropologia: cioè proponendo elementi di comparazione con culture differenti, nello spazio e nel tempo, e comunque cercando di guardare i comportamenti sociali con un occhio in qualche misura ‘esterno’, perché abituato a tali confronti remoti.

 

Gli autori, in quanto antropologi, rivendicano la capacità di ‘sospendersi’ dalla società a cui appartengono, e richiamano il precedente dei filosofi scettici, nell’antichità Greca, ed in particolare la “epoché” (cioè “sospensione del giudizio”) elaborata da Pirrone (pare ispirato anche dal contatto con i sapienti indiani, al seguito della spedizione bellica di Alessandro Magno verso Oriente): pertanto si pongono come tessitori di una “cultura SULL’Antropocene”, alternativa alla cultura dominante che è invece “cultura DELL’Antropocene”

 

 

SOSPENSIONE, ACCECAMENTO, ANTROPOCENE

 

Mi sembra che il tentativo sia riuscito maggiormente nel primo capitolo (a cura di Francesco Remotti, intitolato “sospensione, accecamento, Antropocene”), dove l’insaziabile voracità della cultura occidentale è posta a confronto con assetti culturali/religiosi che invece contemplano i concetti di “pausa” ed anche di “limite”, tra cui:

-       l’ebraismo, che disponeva sia il sabato come astensione settimanale dal lavoro, dedicata a Dio, sia l’anno sabbatico con il riposo delle colture ed anche la remissione dei debiti e la liberazione degli schiavi (per debito);

-       le popolazioni BaNande (nel nord del Congo), che per la loro abituale pratica agricola, fondata sulla de-forestazione, prevede sia limiti spaziali (alcune parti della foresta devono permanere, per non sfrattarne totalmente i correlativi spiriti divini), sia limiti temporali, in occasione della morte del capo-tribù (attorno alle cui spoglie esposte in cima ad una collina sacra sorgerà ex-novo un piccolo bosco) e per il tempo – indefinito – necessario alla nomina del nuovo capo;

-       numerosi popoli che imponevano o impongono ai giovani riti di iniziazione che li escludono temporaneamente dal contesto sociale e li costringono a confrontarsi con angoscia e pericolo (salvo ritualizzare, come per una popolazione dell’Uganda, anche il rientro aggressivo e rivendicativo dei giovani che superano le prove, autorizzati anche ad insultare gli anziani ed i capi della tribù).

 

In tali esperienze la scarsità di risorse, i pericoli e le catastrofi costituiscono cardini della formazione e del sentire comune, mentre nella nostra cultura (a partire ancora dall’ebraismo, sotto l’aspetto del dominio dell’uomo sulla natura, e poi attraverso cristianesimo e illuminismo, e quindi rivoluzione industriale e capitalismo, ma così anche per la variante comunista) la concezione di una conquista illimitata dello spazio e nel tempo (un uomo padrone della terra, e che si fa Dio) è tutt’uno con la cecità verso le catastrofi.

 

Mentre il concetto stesso di “progresso” o “sviluppo” risulta assente nella cultura e nella lingua di altri popoli (comunque poi in gran parte travolti o assimilati dal dominio occidentale): ad esempio in una popolazione dell’odierno Camerun si traducono con “il sogno del bianco”.

 

Il testo di Remotti cita opportunamente – oltre a Gunther Anders ed a Yuval Noah Harari - Serge Latouche e la sua ragionevole considerazione ‘fisica’ sulla impossibilità di una crescita infinita in un ambiente finito, nonché Greta Thumberg e Davi Kopenawa (esponente delle popolazioni amazzoniche).

 

 

CONFINI, SOCIALITA’, RITI

 

Meno pregnante, come approccio antropologico, ho trovato il secondo capitolo (a cura di Adriano Favole, dal titolo “Confini, socialità, riti”), che descrive – dopo la prima ondata della Pandemia – le principali trasformazioni indotte dal Covid-19 nelle abitudini e nei comportamenti sociali (in occidente), con qualche divagazione interessante su:

-       i concetti di confine e confinamento (ad esempio, nelle società coloniali, mediante imposizioni militari, ma anche con animo benefico, come per le “reducciones” per i nativi sudamericani protetti dai Gesuiti),

-       i rapporti tra malattie e segregazioni (le motivazioni sanitarie delle espulsioni dei poveri dai centri urbani, ma anche in parte per l’Apartheid sudafricana),

-       i vecchi e nuovi riti (dal caso dei polinesiani di Tikopia, che salutano e abbandonano i vecchi Dei, perché incapaci di proteggerli dalle malattie portate dai coloni cristiani, alla difficoltà – pur in una società secolarizzata – di abbandonare i riti del lutto nell’Italia della Pandemia).

Però mi sembra che le osservazioni sull’Occidente Pandemizzato, sull’isolamento e sulle distanze (fisiche e sociali), non differiscano molto da quelle di diversi altri autori, anche non antropologi, che abbiamo potuto in questi mesi leggere o ascoltare sui vari mezzi di comunicazione (ed anche da quanto da noi riportato od elaborato su Utopia21).

 

 

CHE FARE?

 

Più ambizioso, ma forse non altrettanto convincente, mi è parso il terzo capitolo (a cura di Marco Aime: “Che fare?”), dove, riprendendo l’introduzione collettiva dei 3 Autori, si tende a delineare una prospettiva (di “rivoluzione culturale”) che – facendo tesoro della crisi pandemica per evidenziare l’insostenibilità del mito dello “sviluppo” – contrapponga alle ulteriori spinte tecnologiche alla artificializzazione del mondo (in particolare con le nano-tecnologie), ed al connesso rischio della estinzione della specie umana, un diverso paradigma di pensiero e di relazioni tra gli uomini e tra uomini e natura: “creare un altro mito, i cui valori non siano più l’eccesso, il dominio rovinoso della Terra … un mito che sostituisca la razionalità con la ragionevolezza, l’io con il noi, la competizione con la convivenza”, anche recuperando i valori di pausa e di  limite dalle culture tradizionali oggi minoritarie.

 

Constatando l’evanescenza delle ideologie tra le attuali aggregazioni politiche e sindacali, Aime&C. individuano i “giovani” come nuovo soggetto, che sia in grado di articolare un progetto di futuro (una nuova e valida ideologia), fondato sui principi di responsabilità e di solidarietà (non solo tra gli uomini, ma anche tra uomini e ogni altro elemento naturale).

L’aspettativa verso i “giovani” si fonda sugli embrioni di movimenti come i Friday For Future, ma anche su una analisi sociologica che richiama i fenomeni di costume degli anni ’60 e l’insorgere in essi di una sorta di “presa di coscienza” della “classe giovanile”.

 

 

VALUTAZIONI PERSONALI SULLA QUESTIONE DEI “GIOVANI”

 

Anche se il “cambio di paradigma” e l’attenzione ai movimenti sono temi cari a Utopia21, così come la diffidenza verso proposte meramente tecnologiche di superamento della crisi climatica, non mi sono molto riconosciuto nelle (premesse e) conclusioni di Aime-Favole-Remotti, per diversi motivi, che tento di sviluppare meglio nell’articolo “Autocoscienza dell’Antropocene”, in questo stesso numero di Utopia 21, mentre qui  mi limito alla questione dei “giovani”:

 

-       l’interesse specifico dei giovani rispetto alla crisi climatica è palese, ma non mi pare che possano individuarsi precise cesure, per cui chi oggi ha più di 30 anni, ad esempio, non sia oggettivamente toccato dai probabili effetti del riscaldamento globale nel 2050 (quando cioè avrà 60 anni); la tendenza ad una maggior consapevolezza soggettiva da parte dei più giovani sfuma, a mio avviso, in una più generale (ed ovvia) constatazione sulla maggior propensione dei giovani ai cambiamenti socio-politici, che probabilmente risale al mondo antico (chi erano gli Argonauti oppure i coloni verso le nuove terre della Magna Grecia), ma ha trovato notevoli conferme nelle moderne rivoluzioni, anche escludendo le fasi in cui i giovani sono stati tirati in mezzo dalla coscrizione di leva (come nella rivoluzione francese e seguito napoleonico e nei rivolgimenti connessi alle due guerre mondiali e relativi dopo-guerra): penso ad esempio all’età dei Carbonari, dei Garibaldini e dei Mazziniani (“Giovine Italia”), agli interventisti “sorelliani” prima del 1915 (anche se allora i giovani non costituivano categoria sociologica né target consumistico), e poi al ’68, alle “Primavere di Praga” ed alle “Primavere arabe”…

 

-       viceversa starei sempre un poco attento alle visioni interclassiste, non perché i giovani occidentali più ricchi si possano esentare dai rischi climatici (anche se certamente sapranno approfittare delle risorse familiare per attenuarne gli effetti), ma perché comunque finora movimenti come i FFF sono ben lungi dall’intercettare il disagio dei poveri-del-mondo, magari già sommersi dall’innalzamento dei mari o affamati dalla desertificazione (in ambedue i casi senza distinzione di età), ma assai lontani dai FFF e simili come linguaggio, priorità, auto-rappresentazione (aspetti che dovrebbero essere preminenti proprio per gli antropologi). A me pare che tendano a manifestare i loro problemi tentando di emigrare – per lo più come individui o famiglie – verso paesi più ricchi e più sicuri, anziché (pur con tutto il rispetto) marinare la scuola il venerdì.

 

 

aldovecchi@hotmail.it

 

Fonti:

1.    Marco Aime, Adriano Favole, Francesco Remotti - IL MONDO CHE AVRETE. VIRUS, ANTROPOCENE, RIVOLUZIONE – Utet, Torino 2020


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