La recensione del
saggio di tre antropologi sulla crisi planetaria e pandemica.
Sommario:
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sospensione,
accecamento, Antropocene
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confini, socialita’,
riti
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che fare?
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valutazioni personali sulla questione dei “giovani”
Il
testo di Aime Favole e Remotti “IL MONDO CHE AVRETE – Virus, Antropocene,
Rivoluzione” 1 tende ad impostare una critica allo stato delle cose
presenti – ed in particolare nella fase pandemica – ed una conseguente proposta
di azione socio-politica, utilizzando gli strumenti dell’antropologia: cioè
proponendo elementi di comparazione con culture differenti, nello spazio e nel
tempo, e comunque cercando di guardare i comportamenti sociali con un occhio in
qualche misura ‘esterno’, perché abituato a tali confronti remoti.
Gli
autori, in quanto antropologi, rivendicano la capacità di ‘sospendersi’ dalla
società a cui appartengono, e richiamano il precedente dei filosofi scettici, nell’antichità
Greca, ed in particolare la “epoché” (cioè “sospensione del giudizio”)
elaborata da Pirrone (pare ispirato anche dal contatto con i sapienti indiani,
al seguito della spedizione bellica di Alessandro Magno verso Oriente):
pertanto si pongono come tessitori di una “cultura SULL’Antropocene”,
alternativa alla cultura dominante che è invece “cultura DELL’Antropocene”
SOSPENSIONE,
ACCECAMENTO, ANTROPOCENE
Mi sembra che il
tentativo sia riuscito maggiormente nel primo capitolo (a cura di Francesco
Remotti, intitolato “sospensione, accecamento, Antropocene”), dove
l’insaziabile voracità della cultura occidentale è posta a confronto con
assetti culturali/religiosi che invece contemplano i concetti di “pausa” ed
anche di “limite”, tra cui:
-
l’ebraismo,
che disponeva sia il sabato come astensione settimanale dal lavoro, dedicata a
Dio, sia l’anno sabbatico con il riposo delle colture ed anche la remissione
dei debiti e la liberazione degli schiavi (per debito);
-
le
popolazioni BaNande (nel nord del Congo), che per la loro abituale pratica
agricola, fondata sulla de-forestazione, prevede sia limiti spaziali (alcune
parti della foresta devono permanere, per non sfrattarne totalmente i correlativi
spiriti divini), sia limiti temporali, in occasione della morte del capo-tribù
(attorno alle cui spoglie esposte in cima ad una collina sacra sorgerà ex-novo
un piccolo bosco) e per il tempo – indefinito – necessario alla nomina del
nuovo capo;
-
numerosi
popoli che imponevano o impongono ai giovani riti di iniziazione che li
escludono temporaneamente dal contesto sociale e li costringono a confrontarsi
con angoscia e pericolo (salvo ritualizzare, come per una popolazione dell’Uganda,
anche il rientro aggressivo e rivendicativo dei giovani che superano le prove,
autorizzati anche ad insultare gli anziani ed i capi della tribù).
In
tali esperienze la scarsità di risorse, i pericoli e le catastrofi
costituiscono cardini della formazione e del sentire comune, mentre nella
nostra cultura (a partire ancora dall’ebraismo, sotto l’aspetto del dominio
dell’uomo sulla natura, e poi attraverso cristianesimo e illuminismo, e quindi
rivoluzione industriale e capitalismo, ma così anche per la variante comunista)
la concezione di una conquista illimitata dello spazio e nel tempo (un uomo
padrone della terra, e che si fa Dio) è tutt’uno con la cecità verso le
catastrofi.
Mentre
il concetto stesso di “progresso” o “sviluppo” risulta assente nella cultura e
nella lingua di altri popoli (comunque poi in gran parte travolti o assimilati
dal dominio occidentale): ad esempio in una popolazione dell’odierno Camerun si
traducono con “il sogno del bianco”.
Il
testo di Remotti cita opportunamente – oltre a Gunther Anders ed a Yuval Noah
Harari - Serge Latouche e la sua ragionevole considerazione ‘fisica’ sulla
impossibilità di una crescita infinita in un ambiente finito, nonché Greta
Thumberg e Davi Kopenawa (esponente delle popolazioni amazzoniche).
CONFINI, SOCIALITA’,
RITI
Meno pregnante, come
approccio antropologico, ho trovato il secondo capitolo (a cura di Adriano Favole,
dal titolo “Confini, socialità, riti”), che descrive – dopo la prima ondata
della Pandemia – le principali trasformazioni indotte dal Covid-19 nelle
abitudini e nei comportamenti sociali (in occidente), con qualche divagazione
interessante su:
-
i
concetti di confine e confinamento (ad esempio, nelle società coloniali,
mediante imposizioni militari, ma anche con animo benefico, come per le
“reducciones” per i nativi sudamericani protetti dai Gesuiti),
-
i
rapporti tra malattie e segregazioni (le motivazioni sanitarie delle espulsioni
dei poveri dai centri urbani, ma anche in parte per l’Apartheid sudafricana),
-
i
vecchi e nuovi riti (dal caso dei polinesiani di Tikopia, che salutano e abbandonano
i vecchi Dei, perché incapaci di proteggerli dalle malattie portate dai coloni
cristiani, alla difficoltà – pur in una società secolarizzata – di abbandonare
i riti del lutto nell’Italia della Pandemia).
Però mi sembra che le
osservazioni sull’Occidente Pandemizzato, sull’isolamento e sulle distanze
(fisiche e sociali), non differiscano molto da quelle di diversi altri autori,
anche non antropologi, che abbiamo potuto in questi mesi leggere o ascoltare
sui vari mezzi di comunicazione (ed anche da quanto da noi riportato od
elaborato su Utopia21).
CHE FARE?
Più ambizioso, ma forse
non altrettanto convincente, mi è parso il terzo capitolo (a cura di Marco Aime: “Che
fare?”), dove, riprendendo l’introduzione collettiva dei 3 Autori, si tende a
delineare una prospettiva (di “rivoluzione culturale”) che – facendo tesoro
della crisi pandemica per evidenziare l’insostenibilità del mito dello
“sviluppo” – contrapponga alle ulteriori spinte tecnologiche alla
artificializzazione del mondo (in particolare con le nano-tecnologie), ed al
connesso rischio della estinzione della specie umana, un diverso paradigma di
pensiero e di relazioni tra gli uomini e tra uomini e natura: “creare un altro
mito, i cui valori non siano più l’eccesso, il dominio rovinoso della Terra …
un mito che sostituisca la razionalità con la ragionevolezza, l’io con il noi,
la competizione con la convivenza”, anche recuperando i valori di pausa e
di limite dalle culture tradizionali
oggi minoritarie.
Constatando
l’evanescenza delle ideologie tra le attuali aggregazioni politiche e
sindacali, Aime&C. individuano i “giovani” come nuovo soggetto, che sia in
grado di articolare un progetto di futuro (una nuova e valida ideologia),
fondato sui principi di responsabilità e di solidarietà (non solo tra gli
uomini, ma anche tra uomini e ogni altro elemento naturale).
L’aspettativa
verso i “giovani” si fonda sugli embrioni di movimenti come i Friday For
Future, ma anche su una analisi sociologica che richiama i fenomeni di costume
degli anni ’60 e l’insorgere in essi di una sorta di “presa di coscienza” della
“classe giovanile”.
VALUTAZIONI PERSONALI SULLA QUESTIONE DEI “GIOVANI”
Anche se il “cambio di
paradigma” e l’attenzione ai movimenti sono temi cari a Utopia21, così come la
diffidenza verso proposte meramente tecnologiche di superamento della crisi
climatica, non mi sono molto riconosciuto nelle (premesse e) conclusioni di
Aime-Favole-Remotti, per diversi motivi, che tento di sviluppare meglio nell’articolo
“Autocoscienza dell’Antropocene”, in questo stesso numero di Utopia 21, mentre
qui mi limito alla questione dei
“giovani”:
-
l’interesse specifico
dei giovani rispetto alla crisi climatica è palese, ma non mi pare che possano
individuarsi precise cesure, per cui chi oggi ha più di 30 anni, ad esempio,
non sia oggettivamente toccato dai probabili effetti del riscaldamento globale
nel 2050 (quando cioè avrà 60 anni); la tendenza ad una maggior consapevolezza
soggettiva da parte dei più giovani sfuma, a mio avviso, in una più generale
(ed ovvia) constatazione sulla maggior propensione dei giovani ai cambiamenti
socio-politici, che probabilmente risale al mondo antico (chi erano gli
Argonauti oppure i coloni verso le nuove terre della Magna Grecia), ma ha
trovato notevoli conferme nelle moderne rivoluzioni, anche escludendo le fasi
in cui i giovani sono stati tirati in mezzo dalla coscrizione di leva (come
nella rivoluzione francese e seguito napoleonico e nei rivolgimenti connessi
alle due guerre mondiali e relativi dopo-guerra): penso ad esempio all’età dei
Carbonari, dei Garibaldini e dei Mazziniani (“Giovine Italia”), agli
interventisti “sorelliani” prima del 1915 (anche se allora i giovani non
costituivano categoria sociologica né target consumistico), e poi al ’68, alle “Primavere
di Praga” ed alle “Primavere arabe”…
-
viceversa starei sempre
un poco attento alle visioni interclassiste, non perché i giovani occidentali
più ricchi si possano esentare dai rischi climatici (anche se certamente
sapranno approfittare delle risorse familiare per attenuarne gli effetti), ma
perché comunque finora movimenti come i FFF sono ben lungi dall’intercettare il
disagio dei poveri-del-mondo, magari già sommersi dall’innalzamento dei mari o
affamati dalla desertificazione (in ambedue i casi senza distinzione di età),
ma assai lontani dai FFF e simili come linguaggio, priorità,
auto-rappresentazione (aspetti che dovrebbero essere preminenti proprio per gli
antropologi). A me pare che tendano a manifestare i loro problemi tentando di
emigrare – per lo più come individui o famiglie – verso paesi più ricchi e più
sicuri, anziché (pur con tutto il rispetto) marinare la scuola il venerdì.
Fonti:
1.
Marco
Aime, Adriano Favole, Francesco Remotti - IL MONDO CHE AVRETE. VIRUS,
ANTROPOCENE, RIVOLUZIONE – Utet, Torino 2020
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