giovedì 9 maggio 2013

GRAEBER, 5000 ANNI DI DEBITI E CONFLITTI

Attirato dalla favorevole recensione sull’Unità di Alessandro Bertante (luglio 2012), dopo il pamphlet contro la democrazia occidentale (vedi mio Post “Graeber, critica anarchica alla democrazia”), mi sono applicato a leggere anche la più impegnativa opera di David Graeber “DEBITO - I PRIMI 5000 ANNI” (Il Saggiatore, pagg. 521 – di cui 150 di note - € 23).

Mi ha interessato il testo dell’antropologo americano, sia perché l’Autore è considerato un ispiratore del movimento Occupy Wall Street, sia perché il tema del debito appare centrale nell’attuale fase di crisi economica e sociale (vedi anche Finanzcapitalismo di Gallino, da me recensito in uno specifico Post, nonché, sempre in questo Blog, in PAGINE, PARTE 1^).
Come osserva Bertante, Graeber propone “un affascinante viaggio nella storia delle diverse civiltà”, entro cui ”pone in serio dubbio l’esistenza stessa del baratto come modello di rapporto commerciale dominante” e quindi l’astrattezza del concetto di “mercato” (come scambio teoricamente tra eguali), su cui si fondano le discipline economiche e nel suo insieme la cultura egemone dell’Occidente (sia nella variante neo-liberista che – secondo  Graeber – nelle modalità subalterne fatte proprie dal “movimento operaio”).

L’Autore soprattutto impiega il suo sapere antropologico, riferito sia alle civiltà antiche sia alle tribù primordiali esplorate negli ultimi decenni, per dimostrare quanto il baratto risulti marginale (limitato a parte degli scambi esterni alle comunità) rispetto ad assetti sociali impostati sulla comunanza delle risorse, sulla autorità “morale” e sugli incroci di “doveri” non quantificabili, ovvero di “debiti impagabili” (dall’amore materno/paterno/filiale alla riconoscenza per chi ti ha salvato la vita), che presentano pesanti smagliature solo nel trattamento da riservare al “nemico” (estraneo alla tribù), il quale può anche divenire schiavo ed essere considerato, conteggiato e scambiato come “numero” e non come “persona” (in tal modo, tra l’altro, lo schiavismo europeo nell’Africa nera riuscì ad avvalersi delle strutture tribali – al tempo stesso destabilizzandole - per approvvigionarsi di schiavi)
Graeber definisce tali società  “econome umane”, cui contrappone (schematizzo) le economie dello scambio, soprattutto se monetario, in cui prevale la spersonalizzazione dei rapporti, la quantificazione dei debiti e il venir meno del criterio di onorabilità per l’accesso al credito.
Mi sembra meno convincente (per la forse eccessiva ricerca di paralleli  e convergenze)  l’ampio affresco storico con raffronti internazionali sull’intero pianeta, così riassumibile:
-          Antichità, in cui tra l’altro, in Mesopotamia, come estensione del tempio e del palazzo, fondati sull’amministrazione dei beni comuni e sugli scambi di lavoro e cibo, emergono attorno al 3000 avanti Cristo anche i mercati ed i mercanti (nonché il prestito ad interesse), soprattutto in funzione del “commercio estero”, mentre ai margini si organizzano tribù di pastori/predoni antagonisti (inclusi coloro che sfuggono dalle città per evitare la servitù per debito);
-          Imperi assiali (quasi contemporaneamente, dall’800 avanti Cristo al 600 dopo Cristo, nel Mediterraneo, in India, in Cina), caratterizzati da militarismo, schiavismo, monete coniate in metalli preziosi (per il soldo agli eserciti e la spendibilità immediata anche in luoghi remoti e tra sconosciuti) e dallo sviluppo di pensieri “speculativi” (sia nel senso di una filosofia laica, sia in quello del calcolo di convenienza);     
-          Periodi “medievali” successivi, con forme statali ed economiche più labili e “locali”, in cui le antiche monete restano comunità di conto, ma non circolano, e si diffondono invece forme cartacee di regolazione di debiti e crediti, mentre le grandi religioni (ed anche le rivolte contadine, in Cina) mettono in discussione schiavitù ed usura, con il grande sviluppo dei mercati e mercanti mussulmani, attorno all’Oceano Indiano, liberi dalle ingerenze dello stato ed operanti sulla fiducia e l’assenza di prestiti ad interesse e viceversa con lo sviluppo pre-capitalistico dei grandi templi buddisti, imprese collettive e tesaurizzatrici;
-          Imperi coloniali e capitalistici “moderni” (dal 1450 d.C.), con il ritorno dei grandi eserciti, della monetazione metallica e della schiavitù (riservata, per i cristiani, alle razze inferiori ed esercitata in prevalenza fuori Europa) e con il progressivo “sdoganamento” dell’usura (sia per gli Ebrei che per i Cristiani, con le Riforme protestanti a fare da traino), fino all’affermarsi del paradigma indiscusso della presenza costante del prestito d interesse (e più modernamente con il connesso dogma della “crescita del PIL”); interessante vedere l’inizio della globalizzazione, dal 16^ secolo, con il flusso massiccio di argento dall’Europa e dall’Africa, e poi dalle Americhe, verso la Cina, bisognosa di moneta metallica ed esportatrice di merci pregiate;
-          Età contemporanea o dell’incertezza (parole mie) ovvero “L’inizio di qualcosa ancora da definire”, a partire dall’abbandono americano della convertibilità dollaro-oro (1971) e dalla diffusione del debito privato (che i poveri però devono vivere come “colpa”, mentre banchieri e speculatori si fano rimborsare dagli stati) e pubblico, questo causato e ad un tempo  e sorretto – per gli USA – dall’esercizio della loro forza militare mondiale.

Mi sembra molto valido il punto di vista non-euro-centrico dell’intero panorama geo-storico e l’approccio dialettico, che evidenzia i conflitti e le crisi, opponendosi a visioni tradizionali di sviluppo lineare e di progressismo ottimista e superando lo schematismo del Marx di “Forme economiche precapitalistiche” (da correlare però alle limitate conoscenze storiche ed archeologiche del tempo).
Meno valida invece la spiegazione della svolta capitalistica dell’Occidente cristiano (aggravata del traduttore che propone “avarizia” in luogo di “avidità”, probabilmente “greed” nel testo originale) che – anche prima della legittimazione luterana e calvinista del prestito ad interesse - ha visto svilupparsi nel suo ambito il successo economico e politico-militare dei banchieri (a partire da Firenze e Genova) e  nonché forti correnti di imperialismo predatorio già prima del Rinascimento, con l’intreccio tra Crociate e repubbliche marinare/corsare, e poi – anche in piena area cattolica -  con l’imperialismo coloniale. 

Ancor meno convincente mi è sembrata la parte finale, che – forse anche per un’ottica nord-americana, che contempla sindacati deboli, proletari militaristi e indebitamento di massa – sottovaluta di fatto la contraddizione tra lavoro salariato e capitale (non solo in Occidente, ma nelle nuove città-fabbriche dell’ex “terzo mondo”), evidenziando - a mio avviso eccessivamente - gli sconfinamenti del primo nel ritorno allo schiavismo e del secondo nella pura rapina “a mano armata” (nel senso del sostegno politico-militare), e privilegiando la questione del debito, non tanto come struttura macro-economica (vedi Gallino), ma soprattutto a livello antropologico: la ricchezza come dono di Dio e il debito come colpa da espiare
Ad esempio evidenzia l’iniquità dei debiti di studio per gli studenti universitari anglo-sassoni, proponendo come via d’uscita (destabilizzante) l’azzeramento dei debiti stessi e non considerando altre alternative nell’ambito della ridistribuzione del reddito, quali la rivendicazione di salari più alti per i genitori oppure di borse di studio e/o gratuità degli studi superiori (perché comunque il capitalismo non potrebbe soddisfare richieste universaliste, senza andare in crisi).

“Debitori di tutto il mondo unitevi” sembra essere la parola d’ordine per la rivolta anticapitalista ed anti-statuale tratteggiata da Graeber, per ora solo in negativo: per l’Autore è preliminare demolire il paradigma culturale del baratto e del debito;  dove andremo lo si scoprirà poi; forse a partire dall’Irak, dove il prestito ad interesse è stato inventato nel 4000 a.C. e poi sospeso per mille anni dai mussulmani; forse altrove.
L’insieme del messaggio mi sembra molto stimolante sotto il profilo culturale, come sollecitazione a rivisitare molte categorie del pensiero corrente esercitando una sorta di “microfisica del potere economico”; poco convincente sotto il profilo della proposta politica, perché se è vero che non si vedono in campo valide alternative di riformismo radicale adeguate alle dimensioni della crisi del finanz-capitalismo (vedi mia nota ai limiti della linea Gallino), pare difficile generalizzare come modello la rivolta dei contadini-debitori che incendiano il municipio con li registro dei debiti, oppure accontentarsi di un anarchismo de-costruttore, rinviando ad un domani imprecisato gli indirizzi per ricucire il tessuto sociale, cioè accelerare la crisi, in quanto ineluttabile, e prepararsi culturalmente alle bellezze di un nuovo medioevo.

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