Marco
Revelli in “Finale di Partito” - Einaudi 2012, pagg. 117 - svolge una analisi approfondita e di taglio
scientifico sul fenomeno della crisi dei partiti, andando oltre i facili
scandalismi sulla “casta” ed oltre le schermaglie quotidiane del chiacchiericcio
politico-giornalistico.
Benché
ricco di note e citazioni, in quanto ancorato ad un vasto repertorio di dati
elettorali e connessi nonché ad un solido retroterra di letture storiche e
sociologiche (che includono alcuni degli
autori recensiti nel mio blog, da Luciano Gallino a Zigmunt Bauman e che sono
comparate criticamente, come anche a me piace fare), il libro risulta agile
e leggibile, anche perché scritto con indubbie capacità narrative.
Il
testo prende le mosse, con un’apparenza di “instant book”, dagli “tsunami”
elettorali del 2012 in Grecia (politiche
ripetute) ed in Italia (amministrative), ma – pur non potendo prevedere i
successivi sviluppi italiani del 2013 (recupero
di Berlusconi e straripamento di Grillo alle politiche in febbraio, con
successivi sgonfiamenti alle amministrative di maggio-giugno; “mancata
vittoria” del PD a febbraio e sua tenuta, ma con perdita di voti assoluti,
nelle comunali) - conserva la validità delle sue considerazioni di fondo
sulla crisi dei partiti nella società occidentale post-moderna (rispetto al
secondo Novecento), che si possono così schematizzare:
in
un quadro sociale caratterizzato da:
o
globalizzazione
(e crisi)
o
salto
tecnologico dei media e delle comunicazioni
o
scolarizzazione
di massa
o
diffusione
e poi incertezza del benessere
o
frammentazione
sociale e individualismo
si
manifesta un inevitabile parallelismo tra crisi del modello produttivo
“fordista” e del sistema statuale “burocratico-weberiano” e crisi dei partiti
di massa in quanto “fabbrica della decisione e del consenso”, con crescenti
manifestazioni di intolleranza da parte della base elettorale verso le
espressioni oligarchiche del potere formalmente “democratico”.
L’intreccio
tra impresa fordista, burocrazia moderna e partiti di massa è indagato da
Revelli fin dal suo sorgere, nel primo Novecento, con il supporto tra l’altro
del pensiero di Antonio Gramsci; nell’insieme queste forme organizzative
tendono a “combinare un insieme complesso di uomini e di tecniche secondo un
piano di perfetta razionalità, in modo tale da massimizzare i risultati
minimizzando i costi”: economie di scala, specializzazione delle mansioni, gigantismo, integrazione
verticale (fare tutto all’interno dell’azienda ovvero dell’organizzazione); sul
finire del secolo invece, data l’insostenibilità dei costi fissi dell’impresa
fordista a fronte della saturazione parziale e della volatilità dei mercati, emergerà il “toyotismo”, puntando invece su
decentramento, delocalizzazione, esternalizzazione, “reti lunghe” e
“autonomazione”, e arrivando a sostituire quindi la mano visibile dell’organizzazione
(che faceva tutto in proprio con costi crescenti) con la “mano invisibile del
mercato” (dove tutto può essere acquistato a prezzi decrescenti).
La
“necessaria” deriva oligarchica dei partiti è descritta da Revelli appoggiandosi (a mio avviso su questo con
limitato distacco critico), alle tesi espresse nel 1911-12 di Roberto Michels, intellettuale e attivista
proveniente dalla socialdemocrazia tedesca, poi approdato al fascismo italiano
passando, come Mussolini, dall’esperienza dell’anarco-sindacalismo di Sorel (e
subendo l’influenza di Pareto e Mosca e delle loro teorie cinico-conservatrici
sulla formazione e riproduzione delle élites).
Secondo
Michels, in accordo con lo scientismo del suo tempo, esiste una “ferrea” legge
che determina, dato l’alto numero dei simpatizzanti e militanti di base (e la
assoluta ininfluenza che può esprimere l’azione di ciascuno di essi senza
l’organizzazione), la necessità di una articolazione piramidale del partito,
con organismi centrali in grado di controllare le strutture di servizio
(finanziamento, stampa, sicurezza), le cariche elettive nelle istituzioni, e di
assumere le decisioni, strategiche e tattiche, con la dovuta rapidità.
L’aspetto
rigido dell’organizzazione si accentua per i partiti rivoluzionari od antagonisti.
Sulla
gerarchia funzionale tra base, quadri intermedi e vertice nazionale, si
innestano tipici comportamenti psicologici, sia da parte delle masse (delega
fideista e tendenziale culto della personalità) sia da parte dei capi, che –
sulla scorta della professionalità acquisita -
tendono inesorabilmente a considerarsi insostituibili e quindi
rafforzano le loro posizioni con meccanismi di cooptazione.
(Silvano
Andriani recentemente su “l’Unità”, appoggiando il tentativo di rifondazione
del PD da parte di Fabrizio Barca, liquidava le tesi di Michels come
non-attuali: potrei condividere questo
giudizio, se venisse però dettagliatamente dimostrato, come Andriani non fa; lo
stesso Barca nel suo documento “Un partito nuovo per un buon governo”, pur
richiamando più volte il testo di Revelli, si defila in realtà dal confrontarsi
a fondo nel merito della ineluttabilità
o meno dell’oligarchia – vedi mio Post del 23-06-13)
Nelle
trasformazioni del secondo Novecento, Revelli prende in considerazione diverse
letture, da quella di Schumpeter che vede la democrazia rappresentativa come
un’oligarchia temperata, con possibilità di scelta tra diverse élites, a quella
di Sennet che evidenzia l’ipertrofia dell’Io, il crollo del confine tra sfera
privata e sfera pubblica per i leaders, umanizzati dal gossip ma comunque
separati in un “mondo a parte”, fino alla società liquida di Bauman (rimando al mio Post) e alle visioni di
Ronald Inglehart sull’individualismo “metropolitano” e sulla prevalenza dei
“bisogni immateriali” (che sgretola l’omogeneità dei bisogni materiali su cui si
fondavano i partiti di massa).
Su
questo sfondo, la ricerca di Revelli si concentra soprattutto sulla crisi dei
partiti di massa della sinistra europea, travolti dalla crisi del fordismo
nella capacità di rappresentare i bisogni sociali, colpiti dalla volatilità
elettorale e – con il volontariato dei militanti in calo – stretti nella morsa
tra i costi incomprimibili dell’organizzazione storica (i funzionari) ed i
nuovi e crescenti costi esterni per la comunicazione specializzata sui media,
che non può essere auto-prodotta (per
questioni di professionalità, di tecnologia e di insediamento nel mercato
dell’audience); con il tentativo delle primarie come evento democratico,
che copre, ma non corregge, la rigidità delle oligarchie interne.
In
particolare il testo analizza la curva
esponenziale delle spese per le campagne elettorali, sia negli USA e Canada,
sia in Europa, e individua una costante statistica per cui comunque risulta
vincente il candidato che ha potuto spendere di più.
Una
tendenza che spiega perché i partiti, ormai ridotti ad uno stato tra il liquido
e il gassoso, risultino compressi in una morsa triangolare, tra il potere
economico, quello mediatico, ed i comportamenti sempre meno prevedibili della
base elettorale
Nella
parte finale di “Finale di partito”, Revelli si interroga sui possibili esiti delle evoluzioni in atto
e sulla prospettiva di una democrazia senza partiti, così come la democrazia
dei partiti sostituì quella dei notabili tipica dell’Ottocento (quando la base
elettorale era ristretta dal censo e assai limitati erano i mezzi di
comunicazione).
Tra
le ipotesi considerate da Revelli:
-
la “democrazia del pubblico” secondo Bernard Manin, che non si riferisce ai
“beni comuni”, bensì al pubblico delle rappresentazioni mediatiche, “audience”
da conquistare da parte di “imprenditori politici” (l’Italia di Berlusconi e poi di Grillo&Casaleggio a mio avviso
costituiscono validi esempi);
-
la mitologia della democrazia “istantanea” secondo (per
l’appunto) Grillo&Casaleggio, che attribuiscono alle nuove tecnologie
un imminente salto sociale democratizzante,
simile a quello della riforma luterana (resa possibile dalla stampa di
Guttemberg), con un superamento dei vecchi media settoriali ed una esaltazione
dei caratteri – post-ideologici e post-leaderistici (?!) – della “rete” e della sua trasparenza, accessibilità e
immediatezza: ma – osserva lo stesso
Revelli, già nel 2012 – lo stesso MoVimento 5 Stelle risulta esposto alle
leggi della gerarchia, e la riduzione del confronto ad un Clik binario (si/no)
ovvero referendario schiaccia tutte le necessarie mediazioni ed articolazioni,
deprimendo il patrimonio stesso di un’utenza più istruita (Revelli trascura inoltre la scarsa trasparenza tecnica che può
imperversare nel web proprio per le sue intrinseche complessità, e di cui lo
spionaggio massiccio degli USA anche tramite i social-network tipo FaceBook, e
la stessa opaca company di Casaleggio sono recenti esemplificazioni);
- l
a “contro-democrazia” di Pierre Rosanvallon, che non coincide con
l’antipolitica, perché – malgrado i rischi del populismo – nelle società
iper-complesse, dove regnano la fine dell’ottimismo tecnologico, il rischio
e l’imprevedibilità economica, e vengono
meno le “basi materiali della fiducia sociale”, tuttavia il “popolo”,
consapevole di non esercitare “il potere”, sempre più svolge direttamente
compiti di controllo, di “interdizione” , configurando una sorta di “democrazia
negativa”, che cresce in proporzione alla “entropia rappresentativa” cioè al
logorarsi delle forme tradizionali di rappresentanza; Revelli accenna su questo tema anche al dibattito
tra Laclau, che intravede nel populismo una
positiva ricostruzione del “noi” oltre l‘individualismo, e Zizek, che
invece ne evidenzia le pericolose artificialità, trattandosi di forme di
riunione di un popolo socialmente dissolto: sullo sfondo le “masse negative” di
Elias Canetti (e di mio aggiungerei anche
le riflessioni di Maffesoli sulle “nuove tribù);
-
le forme di democrazia locale, care a Ulrich Beck (e anche a Magnaghi ed altri, vedi mio Post sul “Localismo cosmopolita”
del 27-02-13), e verso cui propende forse lo stesso Revelli, che vedono una
nuova cittadinanza attiva dal basso, preparata ed esigente, su livelli per il
momento “orizzontali” e “sub-politici”, ma anche capace di protagonismi a scala
nazionale, come i referendum sull’acqua, giustamente difesi – nota Revelli a
inizio di volume – dalla Corte Costituzionale con una storica sentenza che
esplicita i limiti di sovranità degli eletti rispetto alla sovranità degli
stessi elettori (Revelli in una recente
intervista non esclude nemmeno, dall crescita dei movimenti, una possibile
rigenerazione dei partiti).
******
Recentemente
il vice-ministro Stefano Fassina, alla presentazione del libro di Pierre
Carniti “La risacca – il lavoro senza lavoro“, ne raccomandava una sorta di
obbligo di lettura per tutti i (numerosi) candidati alla Segreteria del PD; io
volentieri (in attesa di leggere Carniti, anche se al PD non sono nemmeno
iscritto) aggiungerei l’obbligo di leggere “Finale di Partito” di Revelli (e
bibliografia connessa), nonché di girare per il Paese (come sta meritoriamente facendo
Barca, pur senza candidarsi), per capire nel concreto la distanza tra “circoli”
e società, e tra lo strato dei militanti/simpatizzanti ed il mondo del vertice
nazionale del Partito.
Mi rendo conto
di aver sempre un po’ sottovalutato il tema del Partito, dai tempi
giovanili del collettivo Autonomo dii
Architettura di Milano e di Lotta Continua, fino al mio saggio sulla Sostenibilità
urbana (vedi pag. “Parte IV” e post
“Proposte di legislazione ---“ del 15-03-13)
privilegiando sempre i temi della società “tal quale” e – nel suddetto
saggio – il problema “in astratto” della organizzazione del consenso e di un
programma riformista radicale, senza analizzare la concretezza della sinistra
italiana oggi.
Non sono forse
in questo isolato; il tema dell’organizzazione politica è stato confinato a
lungo, a sinistra, nell’ambito dell’ideologia oppure degli oscuri specialisti
in statuti e regolamenti, salvo aprire – senza troppe riflessioni – ai maghi
dei sondaggi e delle primarie (cioè in sostanza all’ideologia della
comunicazione pubblicitaria): ed oggi sembra che nel PD (tranne Barca – con Civati
nella sua scia - , Reichlin e pochi altri) si discuta di “regole” (a partire
dallo stesso Matteo Renzi) solo per favorire o impallinare Matteo Renzi.
A sinistra del
PD in merito non vedo molte luci (tranne gli intellettuali d’area, come Revelli), e all’orizzonte solo l’abbagliante
deserto del non-statuto di Beppe Grillo (molti, troppi, gli accecati dai miraggi).
Revelli mi ha
chiarito come pochi altri prima (ad esempio femministe ed operai nella
dissoluzione di Lotta Continua attraverso il congresso di Rimini - 1975) lo
spessore sociale della stessa questione del Partito (allora un partito presunto
rivoluzionario, oggi uno o più partiti presunti riformisti).
Ne nasce uno
stimolo – a mio avviso importante per tutta la sinistra – a considerare la
continuità tra l’approccio scientifico/sociologico e quello storico/politico
sia ai temi della società (e quindi dei programmi) sia ai temi dei soggetti politici
(e quindi dell’organizzazione), senza artificiose e cristallizzate separazioni.
Sempre nella consapevolezza
“scientifica” di stare nell’età dell’incertezza, e quindi di porsi domande
senza essere sicuri di trovare le risposte.