Negli ultimi tempi l‘aggressività e la violenza
verbale, nel confronto politico, nei social media, in tv ed in parte anche
nelle piazze (estremo ad esempio l’atteggiamento dei parenti dei malati di “Stamina”),
sono state oggetto di analisi e proposte, in particolare di controllo e censura
su Internet.
Turpiloquio e violenza verbale sono per altro
diffusi nella vita privata, superando precedenti precetti di buona educazione
(mi è capitato di sedere al ristorante al tavolo accanto a due professionisti
milanesi e di sentirmi subissato dalla volgarità e aggressività della persona
che dominava la conversazione, riferendo di scontri di potere con terzi
assenti, relativi a questioni di affari; che la tendenza riguardi anche i ceti
dirigenti è d’altronde emerso da molti afflati “fuori onda” e talora “in onda).
Tra queste riflessioni mi ha deluso l’articolo di
Ilvio Diamanti su Repubblica, spesso perspicace ed acuto osservatore, che si
limita ad auspicare che il turpiloquio passi di moda, per effetto del suo stesso
uso smodato e sovradosato.
Mi pare infatti che non si tratti solo di un
fenomeno passeggero nei comportamenti collettivi e individuali, ma della
manifestazione esteriore di processi più profondi, quali da un lato la
democratizzazione o meglio la diffusione sociale della scrittura e dall’altro
la frammentazione sociale e soprattutto delle rappresentazioni e rappresentanze
politiche.
Si è già detto che taluni usi dei social media,
specialmente quando di fatto anonimi, e soprattutto di Twitter – per la sua
stringatezza – estendono o sostituiscono le scritte nei cessi e le battute da
bar, come di sdoganamento delle battute da bar si è parlato per i “nuovi”
linguaggi di alcune formazioni politiche degli ultimi decenni, da Bossi a
Grillo.
Un lungo processo di protagonizzazione di segmenti
sociali e individui, iniziato dal 68 e cresciuto nelle radio libere, poi nella
riforma della RAI, nelle TV private, fino alle piazze parlanti di Gad Lerner e
Santoro ed ai vari salotti urlanti di Vip, politici e persone comuni, vere e
spesso finte.
Ed in parallelo un crescente successo di tutte le
forme di “semplificazioni” dei rapporti politici e sociali, ridotti a scontro
tra “noi” (qualunque segmento di ragioni, bisogni, interessi) e “loro” (casta,
nemico, complotto universale).
Per quanto mi riguarda non riesco a scrollarmi di
dosso pertanto un qualche senso di colpa, per il ruolo iniziale svolto in
materia sia dal movimento degli studenti del ’68 e anni seguenti (con
accentuazione nel 77), sia in particolare – conferendo parola diretta ad ogni
categoria di sfruttati – dall’esperienza operaista sviluppata soprattutto da
Lotta Continua, con qualche merito riguardo alla analisi dei bisogni, meno
riguardo alle soluzioni prospettate e conseguite (con riflessione pertanto
sulla mia personale partecipazione a queste ormai antiche vicende).
Come attenuante alla colpa ci metto volentieri una
sorta di diritto di primogenitura, perché sostanzialmente è stato il ’68 – in
Italia, nel secondo novecento – a svecchiare e de-impaludare il linguaggio
politico, promuovendo il protagonismo di nuovi soggetti e inventando nuovi modi
di espressione: perlomeno quindi si aveva il merito di essere “nuovi” (con largo
anticipo per l’appunto anche su Bossi e Grillo).
Ricordo un
emblematico episodio nella manifestazione nel 1975 per il trentennale della
Liberazione a Sesto Calende (cittadina allora ad egemonia “social-comunista”),
con un folto corteo ufficiale ed una colorita coda di Movimento Studentesco
(grosso modo sestese) e di Lotta Continua (con gruppi operai di Arona e Somma
Lombardo), e comizio finale del glorioso comandante partigiano Cino Moscatelli
(che richiamava un suo comizio alla SIAI Marchetti di Sesto C. nell’aprile del 45, scendendo dalla
Valsesia a liberare Milano).
Malgrado
l’atteggiamento nell’insieme unitario sia del M.S. (geneticamente mai troppo
distante dal PCI) sia di L.C. (localmente moderata e in quella fase orientata
al “voto al PCI” in base ad una svolta di Sofri dopo il golpe cileno), alla
coda del corteo si gridava anche sonoramente “la classe operaia / lo grida in
coro: / vaffanculo / governo Moro”: Moscatelli ci tenne a redarguirci dal
palco, sia per la parolaccia in se, sia probabilmente per il rispetto dovuto allo
stesso governo Moro, ultimo centro-sinistra degli anni ’70 ma non
Alieno di
misure impopolari di austerità (appena prima della parentesi del “compromesso
storico”), cui il PCI si opponeva pertanto ma non troppo.
Il partito comunista aveva fatto un lavoro immenso,
soprattutto nel dopoguerra, per dare la parola alle masse sfruttate, ma sempre
in termini didattici, cercando di “elevarne” il linguaggio ed adeguarlo a
quello proposto dal Partito (significativo in proposito ciò che ho letto di
recente nell’autobiografia di Luciana Castellina “La scoperta del mondo“ sul
lavoro politico nelle borgate di Roma – anni 50).
E la violenza, verbale e fisica, di cui è intrisa
la storia dell’antifascismo, delle lotte operaie e contadine e dell’antagonismo
ai governi democristiani, fino al ’68, non risulta accompagnata da una
eversione del linguaggio, bensì soprattutto da una popolarizzazione del
linguaggio politico e letterario delle classi colte (operazione che Asor Rosa
in “Scrittori e popolo” del 1965 aveva tacciato di populismo, accomunando nell’accusa
tra gli altri Pratolini, Cassola e Pasolini).
Mentre storicamente in Italia era stato il fascismo, anche per le sue ascendenze nelle
correnti anarco-sindacaliste sorelliane del movimento socialista e nella
rottura culrurale futurista, ad intrecciare nel primo novecento, con la
violenza fisica, la violenza verbale ed il turpiloquio (Me ne frego!, Cagoia!,
ecc.: espressioni da caserma ed espressione di un nuovo protagonismo
piccolo-borghese), contrapponendosi anche al socialismo ufficiale, affezionato
ad uno schema di retorica risorgimentale.
(Anche da qui
l’accusa di “diciannovismo” che talvolta il PCI, incluso Berlinguer, rivolse ai
movimenti, sbagliando a mio avviso in termini di analisi delle classi sociali,
che doveva invece essere la sia specialità “professionale; perché i ceti medi
impoveriti coinvolti nel ribellismo degli anni 60 e 70 non tendevano affatto ad
allearsi con gli interessi reazionari dei ceti dominanti).
Nel “secolo lungo” precedente, iniziato a fine ‘700
con le rivoluzioni americana e francese, ci si sgozzava pure con frenetica
intensità, e anche se l’innovazione di costumi e linguaggio dei giacobini e dei
sanculotti, e poi dei carbonari e dei garibaldini, degli anarchici e dei comunardi,
creavano scandalo nei benpensanti, probabilmente la paura per la concreta violenza
delle armi prevaleva sul timore per la decadenza delle maniere (ben frammiste
nella canzone “Contessa” di Paolo Pietrangeli), mentre la faticosa
emancipazione culturale delle masse arrivava lentamente all’alfabetismo, e
quindi la scrittura permaneva quella delle classi dominanti, e le invettive dei
poveri non uscivano dal linguaggio parlato dei campi e delle officine, dei
carceri e delle osterie.
Mentre oggi, grazie ad una sostanziale tregua della
violenza politica di massa nell’Occidente, lo scandalo per la violenza verbale
prevale sulla delle rivolte, che finora la crisi non ha innescato.
Volendo semplificare una storia complessa, in parte
già autorevolmente studiata ed in parte ancora da studiare, accade da sempre
che nuovi soggetti sociali si affaccino con nuovi linguaggi, le accademie
ritardino ad adeguarsi, ed una frazione di intellettuali inizi a recepirli,
facendoli parlare nei loro testi, da Dante e Boccaccio, dal Ruzante al Manzoni,
da Pietro Jahier (e la lingua del soldato Somacal è già molto più autentica di
quella di Renzo Tramaglino) fino a Nanni Balestrini.
Il fatto nuovo che si afferma progressivamente nel
novecento, con la compiuta scolarizzazione di massa, è che sempre più “il
popolo” tende ad esprimersi autonomamente, non solo tramite contadini ed operai
che divengono scrittori (da Silone a Pennacchi), assimilandosi in parte agli
intellettuali di nascita borghese, ma in tutte le forme, vecchie e nuove, in
cui si può manifestare la comunicazione del linguaggio, in precedenza dal
popolo solo parlato.
(Così come ha
poco senso per il ‘900 e seguenti una “storia dell’architettura” che guardi
solo alle grandi firme e non sia invece anche “storia dell’edilizia”, cioè
della massa di manufatti di varia origine che costituiscono la città),
bisognerebbe quindi saper scrivere non più “Scrittori e popolo”, bensì
“scrittura [e audio-video-internet] e popolo”, con la consapevolezza però che
sempre meno esiste un popolo, bensì variegati e differenziati segmenti della
società di massa, e che ad esprimersi di più sui nuovi media possono essere spesso
individui isolati e quasi autistici, connessi maggiormente ai nuovi media che alle
loro “unità di vicinato”.
Pertanto a mio avviso, se mai è possibile una cura
contro gli eccessi verbali dei nuovi protagonisti o comprimari della scena
comunicativa, organizzati od atomizzati può lentamente maturare solo come
corollario di eventuali ed auspicabili (ma ad oggi improbabili) processi di
cura delle sofferenze profonde della società (disoccupazione, precariato,
isolamento, spaccio di droghe e di consumi sottoculturali).
Non quindi ulteriori forme di censura o di inasprimento
del Codice Penale, ma adeguati studi e vigorose “battaglie politico/culturali”:
una critica radicale “allo stato delle cose presenti” dovrebbe essere possibile
senza violenza, sia fisica che verbale, e senza dileggio delle persone, anche
avversarie.
PERVENUTO VIA E-MAIL
RispondiEliminaEh che dire.....una bel compendio di riflessioni da fare, collegate poi alle fasi storiche sono l'ideale per comprendere.
Sto facendo una raccoltra di pagine come queste, per capire come se ne esce da questo periodo, da questa crisi che io ritengo diversa dalle classiche fasi economiche, temo (xchè non ho certezza del futuro) una fine di sistema verso un'alternativa......? o una super-fine di sistema (dicasi crollo)
Ciao grazie
U.M.
ps. quando ho finito di leggere il "secolo breve" ti rispondo meglio, il dopoguerra è stato uno tsunami che ha portato acqua a territori aridi e li ha resi fertili, ora che si ritrae restano i danni e il grosso punto interrogativo di come continuare a coltivare con molta meno acqua......e la metafora è calzante.
A differenza del passato non ci sono isole felici, il tessuto sociale è ovunque compromesso dal trionfo dell'individuo che una volta sentitosi "libero" dagli schemi ha rivelato di sè una parte nascosta, più vicina al "cromagnon" che all'uomo del rinascimento. Questo per tornare al "de vulgari eloquentia", necessità proprio un tempo per riflettere sul passato recente per aggiornare la via.