Uscito con qualche semestre di
ritardo, il n° 150-151 di “Urbanistica” mi ha fatto re-incontrare il piacere e
la fatica del contatto fisico con il pesante fascicolo e con i riflessi sulla
carta patinata; nonché con raffinate analisi e riflessioni, in gran parte
convergenti con la mia sensibilità; in particolare:
- -
i servizi, ampli o brevi, su Siena e Brasilia,
Melbourne e Lione, e sulla pianificazione paesaggistica in diversi paesi
d’Europa
- -
la ricerca sull’edilizia recente in (mancata)
attuazione dei Piani comunali “riformati” in Toscana, riferita da Andrea
Jacomoni
- - l’approfondimento sul pesante impatto sul
paesaggio degli impianti per le energie rinnovabili (eolico e
fotovoltaico-in-pieno-campo) a cura di Anna Maria Palazzo e Biancamaria Rizzo
- -
il contributo teorico di Ennio Nonni sulla
“bio-urbanistica” (qualcosa di molto diverso dalla sommatoria di tante
bio-architetture), che cerca di abbracciare in uno stesso discorso le metropoli
dei paesi ricchi (che consumano suolo per l’irrazionalità delle espansioni
periferiche a volumi isolati oppure a villette, ma garantiscono servizi e spazi
pubblici) e quelle dei paesi poveri (che si espandono per l’inarrestabile
migrazioni nelle baraccopoli) e – valutando comunque criticamente la
praticabilità dell’obiettivo del risparmio di suolo a fronte della pressione
migratoria, che non è esclusa neanche per le città del mondo ricco – propone di
perseguirlo, nella nostra realtà, sostituendo le periferie esistenti con
organismi urbani compatti ed integrati (simili ai nostri “centri storici” ma
anche all’urbanità che esprimono le stesse favelas); la proposta mi sembra
convergente con quelle che ho riepilogato come “architettura della città”,
nella pagina e nel post omonimi (che pertanto provvederò ad aggiornare), e mi
pare presenti – come le altre da me ivi riepilogate – un sostanziale difetto, e
cioè di non spiegare come si può conseguire tale indirizzo, nelle nostre
società, in termini di consenso antropologico (ancor prima che politico e di
mercato).
Insomma, un bel quadro di letture
stimolanti (anche le restanti che non ho menzionato), rispetto alle quali mi
pare sfiguri l’editoriale del direttore Paolo Avarello (con il rispetto dovuto
sia per l’autorevolezza accademica, sia per il merito di dirigere la rivista di
cui ho appena elogiato i contenuti): con il titolo “non solo piano”, ripropone
il tema della divaricazione tra “piano”
e “progetto” oppure, volendo tra urbanistica “bi” e “tri” dimensionale,
concludendo con buon senso sugli opposti rischi di inutili irrigidimenti del
piano oppure di una eccessiva flessibilità “caso per caso”, che vuoterebbe il
significato steso dei piani.
(Sull’argomento rammento il
convegno INU di Genova nel 2006 sui “progetti urbani”, che mi pare tracciasse
validi ragionamenti).
Ciò che meno mi ha convinto del
testo di Avarello è il riepilogo storico, che da un lato fa partire i programmi
complessi dall’esperienza Urban di metà anni ’90, trascurando i Programmi
Integrati di Intervento lombardi (e non solo) del decennio precedente (legge
Verga del 1986), d’altro lato tende ad appiattire tutta l’urbanistica
precedente, dal dopoguerra, sul modello bidimensionale degli azzonamenti, dei
“retini” e degli indici numerici (salvo smentirsi, incidentalmente ed in nota,
quando rileva l’eretico esempio di Ridolfi come antesignano, già a metà anni ’50,
delle “schede progetto” poi rilanciate da Secchi e Gregotti/Cgnardi negli anni ‘80;
ma tale eresia minoritaria, di occuparsi della forma urbana, ha coinvolto in
tutto il dopoguerra, tramite i PRG o
altri strumenti, quanto meno altri maestri, da De Carlo allo stesso Astengo, da
Benevolo a Samonà, e probabilmente anche altri urbanisti e/o architetti minori),
dimenticando a mio avviso (cose che in parte ho vissuto ed in parte ho appreso
in prevalenza proprio sulle riviste dell’INU):
-
che la legge del 1942 era figlia anche della
stagione “littoria” dei concorsi per i Piani Regolatori per molte città
d’Italia, in cui negli anni 20 e 30 piano e progetto volentieri si mischiavano
(come anche nei precedenti Piani fondati sulla legge del 1865, che erano impostati
per lo meno sugli allineamenti – anche in altezza – dei fabbricati lungo le
strade di progetto): secondo Avarello, benché in origine architetti, gli
urbanisti italiani si sono rinserrati dagli anni Trenta agli anni Novanta in
una prassi burocratica tutta giuridico-normativa (si veda invece – ad esempio –
il testo “Urbanistica” di Piero Bottoni; e tutto il ciclo culturale olivettiano)
-
che tale attenzione ai volumi, sia pure con il
prevalere di una cultura razionalista con corpi edilizi isolati, con la legge
1150 del 42 veniva delegata dal Piano Generale ai Piani Particolareggiati, e
che in parti minoritarie d’Italia tali strumenti (e i parenti poveri, i
vituperati Piani di Lottizzazione, più tutta la stagione dei PEEP e dei “quartieri”),
sono stati redatti ed anche in parte attuati – a partire ad esempio dal QT8 a
Milano – si pure con alterni risultati, ma tenendo viva nella disciplina una
qualche attenzione per la composizione fisica – ed umana - del paesaggio
urbano, anche prima dei “programmi complessi”.
Inoltre mi sembra impreciso anche il giudizio sulla pigrizia delle regioni nell’assumere le nuove potestà legislative negli anni ’70, perché prima del Piemonte di Astengo nel 1977 (seguito a ruota dall’Emilia Romagna) arrivò la dignitosa legge regionale lombarda n° 51 del 1975; ed ingeneroso il giudizio sull’insieme dei piani successivi alla legge ponte n° 765/67, perché – pur bi-dimensionali – molti di essi non erano affatto né sovra-dimensionati né inattuabili, bensì risultarono validi strumenti almeno per contrastare o controllare la speculazione edilizia e per dotare i Comuni di aree pubbliche e per case popolari.
Inoltre mi sembra impreciso anche il giudizio sulla pigrizia delle regioni nell’assumere le nuove potestà legislative negli anni ’70, perché prima del Piemonte di Astengo nel 1977 (seguito a ruota dall’Emilia Romagna) arrivò la dignitosa legge regionale lombarda n° 51 del 1975; ed ingeneroso il giudizio sull’insieme dei piani successivi alla legge ponte n° 765/67, perché – pur bi-dimensionali – molti di essi non erano affatto né sovra-dimensionati né inattuabili, bensì risultarono validi strumenti almeno per contrastare o controllare la speculazione edilizia e per dotare i Comuni di aree pubbliche e per case popolari.
PERVENUTA TRAMITE E-MAIL
RispondiEliminaGentilissimo,
ringraziandola per l’attenzione, le farà piacere sapere che ormai da un bel po’ di tempo non sono più direttore di “Urbanistica”, e che il testo da lei così attentamente citato, e me ne congratulo, voleva essere appunto il mio saluto, alla rivista e ai suoi lettori.
Dunque una sorta di “riassunto” dei “guai” dell’urbanistica italiana in genere, senza alcun riferimento specifico alle singole regioni e/o situazioni.
Per altro avevo chiesto all’editore di mettere il mio articolo per ultimo, in chiusura del mio lavoro di molti anni, ma l’editore ha deciso di metterlo in “apertura” come da tradizione.
Cordiali saluti,
Paolo Avarello