MATRIMONI
E PATRIMONI, RELIGIONI E MERCATO NELLE RICERCHE DI GERARD DELILLE
Attratto dalla recensione di Miguel
Gotor su “la Repubblica” dell’ormai lontano 21-agosto 2013, ho letto
“L’economia di Dio” di Gèrard Delille
(ed. Salerno, pagg. 276, € 16, e-book € 8,99), scegliendolo tra altri saggi
anche perché era tra i non molti disponibili su e-book (purtroppo in formato “pdf”, che – quanto meno sul mio lettore Sony -
perde qualche riga a inizio e fine-pagina se si sceglie un carattere
tipografico più grande dell’originale, obbligandomi così a leggerlo in
proporzioni micro)
La presentazione di Gotor mira alle
tesi sostanziali del testo di Delille, e cioè la correlazione tra “matrimoni” e
“patrimoni”, tra i precetti religiosi, soprattutto in materia di matrimoni tra
parenti (cognati, nipoti e zii) nelle 3 religioni monoteiste del mediterraneo
(ebraismo, cristianesimo ed islamismo) e l’evoluzione dei rapporti
socio-economici nelle correlate civiltà, nel corso degli ultimi 2 millenni ed a
partire dai precedenti assetti sociali e culturali.
Il testo di Delille, in realtà,
soprattutto nella prima parte, è anche e soprattutto un resoconto piuttosto
analitico sulle ricerche specifiche, dell’Autore e di altri soggetti, sulle
vicende dinastico-familiari in segmenti particolari delle suddette storie
millenarie: per un verso un po’ noiose, perché dilungano l’attesa del lettore
interessato alle conclusioni in materia di economia politica, e per altro verso
in sé talvolta divertenti, per la concretezza umana delle vicende indagate
(soprattutto quando si intravedono mascheramenti di matrimoni tra cugini, in
epoche e luoghi di proibizione, oppure palesi abbellimenti postumi di alberi
genealogici di dubbia certezza).
Ed il merito di Delille, a mio avviso,
è proprio quello di stare attinente al tema, pur suggerendo linee
interpretative di ampio respiro (in sintesi, il divieto di matrimoni
“endo-gamici” tra i cristiani per circa un millennio, dal 700 al 1700, motivato
forse dal tentativo di privilegiare i patrimoni ed i poteri delle istituzioni
ecclesiastiche, innesca di fatto un ruolo più autonomo della donna, una mobilità
dei patrimoni e alla fin fine l’autonomia dei mercati dai sovrani e
l’intraprendenza delle imprese capitalistiche) registrando però le aporie, le
contraddizioni e le incertezze degli sviluppi storici, in cui le correlazioni
tra dinamiche matri-patrimoniali ed assetti socio-politici non assurgono mai a
leggi oggettive ed univoche (come
invece traspare dalla recensione di Gotor).
Ad esempio, segnala Gotor, tra i cristiani
“il divieto di unione tra parenti e la capacità della donna di ereditare ---
hanno consentito una maggiore circolazione delle ricchezze e la formazione di
un mercato autonomo, ma anche l’unione di Regni diversi, senza guerra né
sangue, bensì per via matrimoniale”; laddove Delille rileva anche la
compresenza di tendenze opposte, e cioè il permanere della distinzione delle
eredità paterne da quelle materne, con la trasmissione separata a diversi
successori (esempio due fratelli), sia al livello delle massime potenze (vedi
la divisione tra Asburgo d’Austria e di Spagna dopo Carlo V e le successive
norme dinastiche in tal senso nelle principali monarchie) sia al livello
“molecolare” dei “masi” e di simili possedimenti agrari in diverse regioni
europee, dove vige il maggiorascato (e quindi un quasi-schiavismo verso i
cadetti), e però i singoli poderi non possono essere ridotte o ampliate fuori
da sostanziali parametri di equilibrio con le forze e i bisogni del nucleo
familiare e di equità tra i capo-famiglia.
Una limitazione comunitaria (non
comunista) alla proprietà fondiaria, che inibisce l’accumulazione di tipo
capitalista (limita le forme di schiavitù extra-familiari), e contrasta l’altra
linea di tendenza rilevata da Delille nel medio-evo cristiano (sulla scia di un
testo di Paolo Prodi che mi incuriosisce leggere), e cioè la trasformazione dei
feudi da beni imperiali a proprietà private, con la disgregazione definitiva
dello stato imperiale romano e del connesso sistema schiavistico.
Lasciando a parte l’ebraismo, di
forte interesse antropologico, ma di scarso peso socio-politico, trattandosi di
minoranze “in diaspora” senza un proprio stato fino alla metà del secolo XX
(seppur con forte impatto nelle società occidentali, dopo l’emancipazione dai
ghetti), il testo si profila in sostanza come una comparazione tra società
cristiane e società islamiche, individuando una sorta di arretratezza od
inferiorità crescente di queste ultime, tutt’ora in atto riguardo allo status
di inferiorità giuridica e sociale della donna ed alla mancanza di distinzione
tra stato e mercato, mentre ai cristiani, pur attribuendo anche a loro una
giusta dose di misfatti, Delille (sulla scia del suddetto Paolo Prodi),
riconosce meriti sostanziali, non solo sulle 2 questioni specifiche (donna e
mercato), ma sull’indotto effetto del dinamismo imprenditoriale (e parallela
crescita delle più diverse norme di regolazione dell’economia; fino alla fase
più recente della globalizzazione, in cui Delille rileva lo strapotere del
mercato e l’indebolimento delle regole).
Dietro questo giudizio (o
pre-giudizio?) ci sono a mio avviso un bel po’ di nodi da districare, a partire
dallo schiavismo, dissolto in Europa ma nel contempo decisivo per le “sorti
progressive” dell’umanità occidentale, fondate di fatto sull’espansione
coloniale ed imperialista, di nuovo schiavismo assai impregnata.
Mi sembra interessante in proposito il
parallelo oppositivo con i testi di Graeber, già da me recensiti, che viceversa
– fondandosi probabilmente su simmetrici pre-giudizi - esalta l’onestà e
funzionalità del mercato islamico (in asenza di prestiti ad interesse), e la
neutralità del potere politico e religioso verso di esso e vede nell’origine
teologica del capitalismo cristiano (attraverso il lungo dibattito sull’usura e
la finale vittoria della finanza) una solida ragione della sostanziale
nefandezza degli ultimi secoli di sviluppo della globalizzazione.
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