Guy Standing, sociologo inglese e
già collaboratore dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, ha scritto nel
2011 il saggio “PRECARI – la nuova classe esplosiva” (tradotto nel 2012 da Il
Mulino, Bologna, pagine 289, € 19,00), recentemente recensito con favore da
l’Unità, che francamente non mi ha convinto per niente.
La descrizione dei vari fenomeni
che – nell’ambito della globalizzazione - confluiscono nella crescente
precarietà di larghe fasce delle classi subalterne nei paesi ricchi è ampia e
documentata (in particolare riguardo a donne, giovani, anziani, migranti), e si
estende in taluni casi ad aspetti a me poco noti, come la rilevante componente
sommersa delle attività agricole ed alimentari nel Regno Unito (anche se il romanzo “La famiglia Winshaw”
di Jonathan Coe mi aveva messo sull’avviso) oppure la rilevante protezione
statale, in varie forme, degli emigranti
da parte di potenze quali India e Cina.
Nel complesso però non aggiunge
molto a ciò che già si conosce, non solo in letteratura (vedi post su Bauman, Castells, Gallino), ma nella cronaca
quotidiana e nella conoscenza personale diretta.
In connessione ai rapporti di lavoro/non-lavoro ed alle condizioni
sociali dei precari, Standing affronta anche le tematiche del controllo
telematico/informativo/selettivo che pervade le nostre società (nota, a merito di Standing: il testo è
stato scritto prima dello scandalo NSA), a scapito in particolare dei
lavoratori, della assurdità dei sistemi
formativi sempre più privatizzati ed inefficaci, nonché della degradazione del “tempo”, anche di non
lavoro, che per i precari assorbe notevoli fatiche dispersive di “lavoro per il
lavoro” (cioè per la ricerca del lavoro e/o dei sussidi).
Qualche dubbio sorge però sulla
attendibilità delle informazioni riferite da Standing, dal momento che buona
parte di quelle relative all’Italia, dall’Autore riportate con gran rilievo,
non mi tornano in realtà così vere (mi
sembra di essere un po’ come il protagonista del romanzo “Adua”, travolto nella
omonima battaglia mentre constata che la ragione della disfatta sta anche nel
fatto che i cartografi dello Stato Maggiore non hanno riportato correttamente
le informazioni geografiche che lui stesso aveva comunicato): dal ruolo
della Lega Nord contro i cinesi di Prato (luogo
in cui la Lega è sempre rimasta ben sotto 10% dei voti) alle invettive di
Berlusconi nel 2008 contro “l’esercito del male”, che per Standing coincideva
con gli immigrati (mentre a mio avviso nella
propaganda Berlusconiana corrispondeva alla sinistra, allargata semmai al terrorismo
internazionale, avendo Forza Italia appaltato la questione migranti in
prevalenza agli alleati Bossi&Fini), e per finire alla dimensione ed
importanza dei cortei alternativi del 1° Maggio a Milano (San Precario, ma anche la solita extra-sinistra dei COBAS
e dei Centri sociali) in confronto con i cortei ufficiali di CGIL-CISL-UIL (rammento che i sindacati principali da anni
sono impegnati in quella data soprattutto con il concertone di Roma, operazione
forse un po’ superficiale, però indirizzata proprio alla saldatura tra i lavoratori
ed i giovani, anche non inseriti nel mondo del lavoro).
I limiti della posizione di Standing stanno soprattutto nelle sue
sintesi.
A priori, nella lettura della
divisione in classi delle attuali società occidentali, Standing rileva 7 gruppi:
-
Élite di super-ricchi
-
Tecno-professionisti
-
Salariati (impiegatizi)
-
Salariati manuali
-
Precari
-
Disoccupati
-
Emarginati e Disagiati.
Stupisce, in questa scala, la totale assenza dei lavoratori autonomi e
dei piccoli imprenditori, assai rilevanti invece, in specie in Italia, e mediamente assai lontani sia dagli interessi
della super-élite, sia dal precariato, in cui pure in parte ora rischiano di sconfinare.
E colpisce la assimilazione dei salariati tra i detentori del capitale
finanziario , anche se forse è giustificata dalla angolatura anglosassone
dell’osservazione (fondi pensione e azionariato diffuso).
A posteriori, nelle conclusioni
spiccatamente anti-laburiste, nella doppia accezione di negazione del lavoro
produttivo come valore positivo e fattore
“di felicità” e di contrapposizione a teorie
e pratiche del Laburismo blairiano, in particolare riguardo al salvataggio
delle banche con soldi pubblici (senza però nazionalizzarle), al coinvolgimento
dei lavoratori nei privilegi dei benefit aziendali (che Standing vorrebbe tutti
monetizzati, disvelando una piena mercificazione del lavoro), al miraggio di
una ripresa con estensione del lavoro produttivo (e comunque del carico
ambientale) e soprattutto nella “condizionalità” paternalistica con cui vengono
gestiti i sussidi di disoccupazione, subordinandoli ad offerte di lavoro coatto
e dequalificato.
(Obiettivamente forse in Italia la sinistra e i sindacati, nell’insieme
e malgrado tutto, sono meno peggio, ed anche lo Stato, perché tra
Tremonti-bonds e Monti-bonds, alle banche si è solo prestato e non regalato, e
il Monte dei Paschi rischia tuttora la nazionalizzazione).
Standing coglie lucidamente come
le tendenze in atto possano innescare sulla diffusione del precariato forme di
populismo e rischi di involuzioni autoritarie (“Inferno”).
Ma, decretato il fallimento di
ogni soluzione socialdemocratica (nei
fatti incoraggiato in questo da molte
concrete scelte delle storiche sinistre europee e dal Labour party in ispecie),
delinea una alternativa esplicitamente utopistica (“Paradiso”), fondata
a mio avviso su affermazioni, come l’analogia di ruolo con le teorie neo-liberiste di Milton Friedman &C., che alcuni decenni orsono erano state enunciate
come posizione minoritaria, e poi invece non vedi che successo ….
I contenuti dell’alternativa
prospettata da Standing, passando vagamente attraverso una autocoscienza di
classe e auspicate ed imprecisate forme di rappresentanza del precariato, sono
tutte macro-economiche, ovvero affidate ad una improvvisa nuova politica
economica degli Stati nazionali: ferme restando le modalità di accumulazione
del surplus, Standing ipotizza una armoniosa redistribuzione tramite il reddito
minimo garantito (senza imporre a nessuno di lavorare, ma solo incentivarlo, ed
impegnandolo, ma solo moralmente, a votare alle elezioni), un nuovo welfare
universalistico, istruzione di qualità, valorizzazione del volontariato e di
ogni prestazione socialmente utile, riqualificazione dei beni comuni e del tempo libero.
Come non essere d’accordo con tali orizzonti “Paradisiaci”?
Ma la loro enunciazione ci fa far qualche passo in avanti, considerando
che tra coloro che non concordano c’è anche qualcuno che continua a “detenere
il potere” (e a gestire consenso anche
tra lavoratori e precari)?.
E perché mai, a fronte di un lungo processo di crisi delle
rappresentanze dei lavoratori e delle
sinistre, processo strettamente connesso
alla globalizzazione e alla precarizzazione, dovrebbe venire facile impostare
un sistema di rappresentanza del solo precariato? (vedi post su Maffesoli e su Revelli)
Se le nuove rappresentanze sono quelle del M5S, la cosa non promette
bene.
E poi mi viene un altro dubbio fondamentale: se la “nuova classe
esplosiva” si profila così forte, non può affrontare anche i contratti di lavoro, il conflitto tra salari e profitti,
ed occuparsi della discussione su cosa
produrre, come lavorare, come re-distribuire le mansioni scomode e
dequalificate che qualcuno deve pur
fare, possibilmente su scala globale?
Oppure ci va bene il reddito garantito in occidente, e la
redistribuzione del capitale finanziario (sul modello dei fondi sovrani del
petrolio norvegese o dell’Alaska, dice Standing), ma sulla pelle dei lavoratori
sfruttati di Cindia e terzo mondo, che sono pure loro precari, però
massicciamente sfruttati per salari da fame?
Personalmente penso che le riflessioni sulla concreta disarticolazione
delle classi subalterne, sui contenuti sociali del lavoro produttivo ed
“improduttivo”, del sapere e dell’ozio, sui rapporti di potere insiti nell’informazione
e nell’informatica siano estremamente positive, ma che per passare nuovamente
alla articolazioni di programmi da un lato convenga contemplare, se possibile,
la riunificazione degli sfruttati (salariati e precari d’altronde convivono strettamente
nelle famiglie e nel tessuto sociale, almeno in Italia), tendenzialmente su
scala globale, e dall’altro capire come si può ri-organizzare la condivisione
degli obiettivi, dal basso e dall’alto: con quali linguaggi, con quali
rappresentanze, ed anche con quali utopie, se per caso le utopie possono
essere utili; persino l’opposta utopia della ricerca della felicità nel lavoro
(cara ad esempio anche ad Aldo Capitini) potrebbe disputarsi il diritto di
cittadinanza.
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