I giudizi di D’Alema
sull’arroganza (quanto meno politica) di Renzi, non mi sembrano sbagliati, e
penso che sia sufficiente a tal fine rammentare la liquidazione di Enrico Letta
e la indifferenza ai ragionevoli emendamenti promossi da Damiano sul tema dei
licenziamenti, benché approvati dalla stessa direzione del PD e dalla
Commissione Parlamentare consultiva sul “job act”.
A moltissimi (me compreso) invece
è apparso incongruo che ad esprimerli fosse proprio D’Alema, maestro di
equivalente, sebbene diversa, supponenza politica (bicamerale, Kossovo,
abbandono di Prodi) e soprattutto umana: anche se l’intervento di D’Alema forse
non era inutile al suo uditorio, perché tra le correnti non-Renziane del PD una
adeguata consapevolezza dei pericoli della real-politik renziana è alquanto flebile,
e certamente è mancata all’ultimo congresso, quando a contrapporsi (per così
dire) furono separatamente Cuperlo e Civati (più Pittella) e non un serio ed
unico fronte alternativo.
Tra i più avversi a D’Alema, pur
condividendone le valutazioni su Renzi, sono risultati Fassina (che promuove ora
una tardiva rottamazione/bis per i vertici storici della sinistra PD) e lo
stesso Cuperlo, che ha alzato il tiro sulla necessità di una più ampia
auto-critica sulle carenze strategiche del socialismo europeo.
Su tale auto-critica concordo
largamente da tempo, ma se fossi in Cuperlo abbasserei anche il tiro
dell’auto-critica alla sostanza sociale e antropologica della cosiddetta
“ditta”, cioè alla praticaccia largamente opportunista (quando non lesiva del
codice penale, come solo le inchieste giudiziarie e i processi potranno verificare
per i vari Penati, Bargone. Lorenzetti, Mussari, Consorte) di consistenti quote
del vecchio partito (non solo di origine PCI, ma di certo molto PCI),
misurabile anche nelle scorrettezze alle primarie di parte degli stessi candidati
“cuperliani”, rimasti tali o divenuti renziani di complemento.
Controprova di questa pochezza è
la perdurante assenza di iniziativa politica e sociale della sinistra PD, al di
fuori delle aule parlamentari e delle riunioni di corrente: ad esempio nessuno
ha tentato di coinvolgere i non-iscritti su battaglie fattibili, come quella
sul fu art. 18 o sulle riforme di legge elettorale e Costituzione; il che rende
spuntata (per mancanza di consenso) anche l’arma letale di un potenziale voto
contrario al Senato su tali riforme.
L’impressione, da tempo, è quella
di un ceto politico auto-referenziale, staccato dai bisogni e dal linguaggio
delle persone comuni, ed incapace anche di inchiesta verso la stessa “base” del
partito: a parte Fabrizio Barca, chi si occupa anche di una elementare
“sociologia del partito”?