sabato 9 maggio 2015

IL LUNGO XX SECOLO DI GIOVANNI ARRIGHI

Laddove Hobsbawn vedeva il Novecento come secolo “breve”, focalizzando l’attenzione sulle vicende politico-sociali, ed individuandone pertanto l’inizio con la prima guerra mondiale e la rivoluzione di ottobre, ed il termine con la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione del “socialismo reale”, lo sguardo multidisciplinare di Giovanni Arrighi (“Il lungo XX secolo – denaro, potere e le origini del nostro tempo” – Il Saggiatore, Milano 2014, pagine 435, disponibile anche in e-book) identifica il Novecento come la fase di accumulazione capitalistica ad egemonia USA, con prodromi ancora nel XIX secolo e sentori crepuscolari a cavallo tra il XX ed il XXI.

Il fluido e poderoso racconto di Arrighi (economista italiano, 1937-2009, emigrato dapprima nell’Africa post-coloniale e poi negli Stati Uniti, con un importante intermezzo a cavallo del ’68 a Trento ed a Cosenza, nonché come animatore del “Gruppo Gramsci”) colloca il ciclo statunitense nell’ambito di una successione di cicli di accumulazione finanziaria e di potere lunga cinque secoli, quanto la storia dell’odierno capitalismo, a partire dal tardo medioevo ed attraverso le seguenti fasi, che riassumo schematicamente come segue, in parte con parole mie:
-          Periodo della “nazione genovese”(dal Cinquecento all’inizio del Seicento), che – malgrado la sconfitta ed il ridimensionamento della repubblica di Genova nel confronto con Venezia e nell’esito del conflitto totale (ma non privo di fasi cooperative) tra le città-stato italiane (tra cui primeggiarono anche Firenze e Milano) ed i loro ceti mercantili – inventando la moderna finanza, imparando dagli errori e dai fallimenti dei banchieri fiorentini e acquisendo la capacità di lucrare sui prestiti agli stati, ed in particolare al nascente impero spagnolo, trasformò le risorse accumulate con il commercio attraverso il Mediterraneo, ormai calante, in strumento di egemonia delle famiglie genovesi (anche in esilio) sul nascente mercato finanziario mondiale, a partire dalle “fiere di cambio” e attraverso il monopolio dell’argento che fluiva dalle Americhe all’impero spagnolo;
-          Periodo olandese (fino a metà Settecento), caratterizzato dall’intreccio tra la capacità di intermediazione finanziaria (mutuata dai genovesi ed iniziata anche con i loro stessi capitali) ma anche commerciale (con i magazzini globali nei porti olandesi) ed una organizzazione politica e militare pubblico-privata con ascendenze nel modello veneziano (le Compagnie delle Indie), pragmatica e “spietata”, perché efficacemente orientata al profitto anziché a miti astratti di dominio e proselitismo qual’era quella degli imperi iberici, dagli olandesi direttamente sfidati ed in parte soppiantati, dal mare del Nord agli oceani;
-          Periodo britannico (fino all’inizio del Novecento), derivante da un lungo periodo di incubazione, dopo le sconfitte (e i conseguenti indebitamenti) dei Tudor sui fronti continentali, attraverso l’accorta politica  e la fortuna marinara&piratesca di Elisabetta I e sir Francis Drake, con stabilità monetaria e precoce industrializzazione, che ha portato a cavallo del periodo napoleonico a valorizzare la posizione insulare ai margini dell’Europa e le basi coloniali in tutto il mondo (malgrado l’indipendenza degli Stati uniti d’America, comunque rimasti terra di investimenti britannici) per impostare un nuovo sistema complessivo di dominio commerciale, industriale, finanziario e diplomatico (ed anche militare, per quanto necessario) imperniato sulla City, il libero scambio, la conversione aurea della moneta, il Parlamento e la collaborazione delle borghesie delle altre nazioni “liberali” (e bianche), con una molteplicità di imprese flessibili (ed un uso strumentale e temporaneo dei monopoli delle Compagnie),  surclassando infine i rivali olandesi (parziali finanziatori della stessa City);
-          Periodo americano, fondato sulla crescita di un enorme mercato interno, affacciato su due oceani, e sulla organizzazione di grandi compagnie (anche sul modello delle industrie tedesche, protette dallo Stato bismarckiano nella vana rincorsa verso la supremazia britannica), divenute poi trasnazionali ed in grado quindi di inglobare i costi delle transazioni con l’estero; gli U.S.A., dapprima finanziati da Londra, ne divengono finanziatori per le immani spese britanniche nella 1^ guerra mondiale (e poi nella 2^) e subentrano alla Gran Bretagna nel ruolo di egemonia e dominio sul “mondo libero” in relazione alle vicende politico-militari delle suddette guerre mondiali (che li coinvolgono senza scalfirne il territorio), della decolonizzazione e della “guerra fredda” contro l’impero socialista-sovietico, in un quadro di liberismo parziale (mischiato al protezionismo) e di definitivo abbandono della convertibilità aurea della moneta.

In questa periodizzazione Arrighi, sulla scorta di fondamentali ricerche storiche di Fernand Braudel e di impulsi del suo collega in ricerche socio-economiche “africane” Immanuel Wallerstein e di Beverly Silver, e attingendo a numerosi studi di autori anglosassoni contemporanei (ma non trascurando i contributi più datati di Marx, Weber, Pirenne, Polanyi, Gramsci, ecc.) mette in evidenza:
-           come ad una fase “centrale” di massimo impiego diretto dei capitali nelle attività commerciali/produttive specifiche di ciascun ciclo di accumulazione, segua – a partire da una prima “crisi di avvertimento”, che ha a che fare con la “caduta tendenziale del saggio di profitto”, ovvero con la concorrenza eccessiva e la saturazione dei mercati maturi - una fase “autunnale” di massimo splendore “culturale” e però di turbolenza economica, che sfocia in una elevata volatilità dei capitali, una ricorrente “finanziarizzazione”, che di fatto finisce per favorire i poteri nascenti di nuovi soggetti e di nuovi paradigmi politico-economico-finanziari;
-          come la durata temporale dei cicli capitalistici in esame sia andata accorciandosi e come si siano sviluppate inclusioni ed antinomie nelle rispettive modalità organizzative (ad esempio i britannici sconfiggono gli olandesi copiandone solo in parte i modelli, ma recuperando anche alcune flessibilità tipiche dei genovesi, e così via);
-          quanto la crisi dell’espansione post-bellica maturata negli anni ’70, con lo shock petrolifero e la sconfitta in Vietnam, ed il successivo rilancio neo-liberista ed iper-finanziario dell’egemonia USA assomigli ai momenti “autunnali” dei precedenti cicli (ed in particolare alle fasi di crisi del secondo ottocento e successivo splendore apparente della “Belle époque”).

Arrighi non propone assolutamente considerazioni meccaniche e deterministiche per prevedere il futuro sulla base dell’esperienza passata, ma – limitandosi a formulare alcune ipotesi alternative sulle tendenze in atto - fornisce strumenti di interpretazione molto utili sul presente, con analisi molto dettagliate sui rapporti tra economia statunitense e “tigri asiatiche” (Giappone, Corea del Sud, Hong-Kong, Taiwan), purtroppo limitate sul versante della Cina e sulla valutazione della ulteriore crisi finanziaria iniziata nel 2008 a causa della prematura scomparsa dell’Autore nell’anno 2009, data a cui risale l’epilogo del testo, impostato nelle sue parti principali nel 1994.

Per motivi di spazio non riassumo qui le parti più aperte, problematiche e forse meno mature del testo di Arrighi, relative alla seconda metà del Novecento ed all’inizio di questo secolo, che ritengo comunque molto stimolanti, soprattutto laddove delinea un ruolo, forse subalterno e però per alcuni aspetti anche decisivo, ai conflitti di classe e dalla “resistenza” degli sfruttati, nonché dove intravvede tra le possibili variabili discriminanti per ulteriori cicli di egemonia globale (in alternativa ad un altrettanto possibile caos) la capacità di “internalizzare” nei cicli economici, dopo i costi di produzione, commercializzazione e finanziarizzazione (quanto avvenuto dal Cinquecento ad oggi), anche i costi di “riproduzione” non solo della forza-lavoro ma dell’insieme umano e ambientale del mondo intero.

Alcuni critici di sinistra hanno imputato ad Arrighi una sottovalutazione programmatica dei conflitti sociali, in coerenza ad una sua esperienza e visione “terzo-mondista” (ad esempio nei suoi precedenti studi sulla proletarizzazione senza sviluppo delle periferie del mondo capitalista ed in generale nell’assegnazione di un ruolo parziale all’industria ed ai rapporti di produzione).

A mio avviso lo sforzo di comprensione inter-disciplinare di Arrighi è già molto vasto ed una attenzione di altri autori sulle lotte sociali potrebbe integrarne la sua lettura di questa storia di mezzo millennio di capitalismo, probabilmente senza smentirla (come afferma anche Mario Pianta nella prefazione al testo edito in Italia nel 2014, indicando anche altre significative direzioni di ulteriore ricerca a partire dalle acquisizioni ed intuizioni di Arrighi).


Così come tale lettura mi sembra conciliabile con altre ricerche da altri punti di vista parziali, da me recentemente apprezzate, quali quelle di Luciano Gallino e di Paolo Leon (sul finanz-capitalismo di oggi, ma senza i precedenti storici pluri-secolari), di Thomas Piketty (sulla accumulazione del capitale dal Settecento, ma con poca attenzione alle dinamiche ed alle transazioni internazionali), di Paolo Prodi (sulla genesi dei mercati dal Medioevo, nella emancipazione dai poteri religioso e politico); mi sembra inoltre un utile correttivo ai contributi ancor più parziali (e da me meno apprezzati), ma comunque originali ed utili, di Graeber sul debito nei secoli e di Acemoglu&Robinson sui governi “estrattivi” e la benefiche distruzioni creatrici del capitalismo.    

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