Laddove Hobsbawn vedeva il
Novecento come secolo “breve”, focalizzando l’attenzione sulle vicende
politico-sociali, ed individuandone pertanto l’inizio con la prima guerra
mondiale e la rivoluzione di ottobre, ed il termine con la caduta del muro di
Berlino e la dissoluzione del “socialismo reale”, lo sguardo multidisciplinare
di Giovanni Arrighi (“Il lungo XX secolo
– denaro, potere e le origini del nostro tempo” – Il Saggiatore, Milano 2014,
pagine 435, disponibile anche in e-book) identifica il Novecento come la
fase di accumulazione capitalistica ad egemonia USA, con prodromi ancora nel
XIX secolo e sentori crepuscolari a cavallo tra il XX ed il XXI.
Il fluido e poderoso racconto di
Arrighi (economista italiano, 1937-2009, emigrato
dapprima nell’Africa post-coloniale e poi negli Stati Uniti, con un importante
intermezzo a cavallo del ’68 a Trento ed a Cosenza, nonché come animatore del
“Gruppo Gramsci”) colloca il ciclo statunitense nell’ambito di una
successione di cicli di accumulazione finanziaria e di potere lunga cinque
secoli, quanto la storia dell’odierno capitalismo, a partire dal tardo medioevo
ed attraverso le seguenti fasi, che riassumo schematicamente come segue, in
parte con parole mie:
-
Periodo della “nazione genovese”(dal Cinquecento
all’inizio del Seicento), che – malgrado la sconfitta ed il ridimensionamento
della repubblica di Genova nel confronto con Venezia e nell’esito del conflitto
totale (ma non privo di fasi cooperative) tra le città-stato italiane (tra cui
primeggiarono anche Firenze e Milano) ed i loro ceti mercantili – inventando la
moderna finanza, imparando dagli errori e dai fallimenti dei banchieri
fiorentini e acquisendo la capacità di lucrare sui prestiti agli stati, ed in
particolare al nascente impero spagnolo, trasformò le risorse accumulate con il
commercio attraverso il Mediterraneo, ormai calante, in strumento di egemonia
delle famiglie genovesi (anche in esilio) sul nascente mercato finanziario
mondiale, a partire dalle “fiere di cambio” e attraverso il monopolio
dell’argento che fluiva dalle Americhe all’impero spagnolo;
-
Periodo olandese (fino a metà Settecento),
caratterizzato dall’intreccio tra la capacità di intermediazione finanziaria
(mutuata dai genovesi ed iniziata anche con i loro stessi capitali) ma anche
commerciale (con i magazzini globali nei porti olandesi) ed una organizzazione
politica e militare pubblico-privata con ascendenze nel modello veneziano (le
Compagnie delle Indie), pragmatica e “spietata”, perché efficacemente orientata
al profitto anziché a miti astratti di dominio e proselitismo qual’era quella
degli imperi iberici, dagli olandesi direttamente sfidati ed in parte
soppiantati, dal mare del Nord agli oceani;
-
Periodo britannico (fino all’inizio del
Novecento), derivante da un lungo periodo di incubazione, dopo le sconfitte (e
i conseguenti indebitamenti) dei Tudor sui fronti continentali, attraverso
l’accorta politica e la fortuna
marinara&piratesca di Elisabetta I e sir Francis Drake, con stabilità
monetaria e precoce industrializzazione, che ha portato a cavallo del periodo
napoleonico a valorizzare la posizione insulare ai margini dell’Europa e le
basi coloniali in tutto il mondo (malgrado l’indipendenza degli Stati uniti
d’America, comunque rimasti terra di investimenti britannici) per impostare un
nuovo sistema complessivo di dominio commerciale, industriale, finanziario e
diplomatico (ed anche militare, per quanto necessario) imperniato sulla City,
il libero scambio, la conversione aurea della moneta, il Parlamento e la
collaborazione delle borghesie delle altre nazioni “liberali” (e bianche), con
una molteplicità di imprese flessibili (ed un uso strumentale e temporaneo dei
monopoli delle Compagnie), surclassando
infine i rivali olandesi (parziali finanziatori della stessa City);
-
Periodo americano, fondato sulla crescita di un
enorme mercato interno, affacciato su due oceani, e sulla organizzazione di
grandi compagnie (anche sul modello delle industrie tedesche, protette dallo
Stato bismarckiano nella vana rincorsa verso la supremazia britannica),
divenute poi trasnazionali ed in grado quindi di inglobare i costi delle
transazioni con l’estero; gli U.S.A., dapprima finanziati da Londra, ne
divengono finanziatori per le immani spese britanniche nella 1^ guerra mondiale
(e poi nella 2^) e subentrano alla Gran Bretagna nel ruolo di egemonia e
dominio sul “mondo libero” in relazione alle vicende politico-militari delle
suddette guerre mondiali (che li coinvolgono senza scalfirne il territorio),
della decolonizzazione e della “guerra fredda” contro l’impero
socialista-sovietico, in un quadro di liberismo parziale (mischiato al
protezionismo) e di definitivo abbandono della convertibilità aurea della
moneta.
In questa periodizzazione
Arrighi, sulla scorta di fondamentali ricerche storiche di Fernand Braudel e di
impulsi del suo collega in ricerche socio-economiche “africane” Immanuel Wallerstein
e di Beverly Silver, e attingendo a numerosi studi di autori anglosassoni
contemporanei (ma non trascurando i contributi più datati di Marx, Weber,
Pirenne, Polanyi, Gramsci, ecc.) mette in evidenza:
-
come ad
una fase “centrale” di massimo impiego diretto dei capitali nelle attività
commerciali/produttive specifiche di ciascun ciclo di accumulazione, segua – a
partire da una prima “crisi di avvertimento”, che ha a che fare con la “caduta
tendenziale del saggio di profitto”, ovvero con la concorrenza eccessiva e la
saturazione dei mercati maturi - una fase “autunnale” di massimo splendore
“culturale” e però di turbolenza economica, che sfocia in una elevata
volatilità dei capitali, una ricorrente “finanziarizzazione”, che di fatto
finisce per favorire i poteri nascenti di nuovi soggetti e di nuovi paradigmi
politico-economico-finanziari;
-
come la durata temporale dei cicli capitalistici
in esame sia andata accorciandosi e come si siano sviluppate inclusioni ed
antinomie nelle rispettive modalità organizzative (ad esempio i britannici
sconfiggono gli olandesi copiandone solo in parte i modelli, ma recuperando
anche alcune flessibilità tipiche dei genovesi, e così via);
-
quanto la crisi dell’espansione post-bellica
maturata negli anni ’70, con lo shock petrolifero e la sconfitta in Vietnam, ed
il successivo rilancio neo-liberista ed iper-finanziario dell’egemonia USA
assomigli ai momenti “autunnali” dei precedenti cicli (ed in particolare alle
fasi di crisi del secondo ottocento e successivo splendore apparente della
“Belle époque”).
Arrighi non propone assolutamente
considerazioni meccaniche e deterministiche per prevedere il futuro sulla base
dell’esperienza passata, ma – limitandosi a formulare alcune ipotesi
alternative sulle tendenze in atto - fornisce strumenti di interpretazione
molto utili sul presente, con analisi molto dettagliate sui rapporti tra
economia statunitense e “tigri asiatiche” (Giappone, Corea del Sud, Hong-Kong,
Taiwan), purtroppo limitate sul versante della Cina e sulla valutazione della
ulteriore crisi finanziaria iniziata nel 2008 a causa della prematura scomparsa
dell’Autore nell’anno 2009, data a cui risale l’epilogo del testo, impostato
nelle sue parti principali nel 1994.
Per motivi di spazio non riassumo
qui le parti più aperte, problematiche e forse meno mature del testo di Arrighi,
relative alla seconda metà del Novecento ed all’inizio di questo secolo, che
ritengo comunque molto stimolanti, soprattutto laddove delinea un ruolo, forse
subalterno e però per alcuni aspetti anche decisivo, ai conflitti di classe e
dalla “resistenza” degli sfruttati, nonché dove intravvede tra le possibili
variabili discriminanti per ulteriori cicli di egemonia globale (in alternativa
ad un altrettanto possibile caos) la capacità di “internalizzare” nei cicli
economici, dopo i costi di produzione, commercializzazione e finanziarizzazione
(quanto avvenuto dal Cinquecento ad oggi), anche i costi di “riproduzione” non
solo della forza-lavoro ma dell’insieme umano e ambientale del mondo intero.
Alcuni critici di sinistra hanno
imputato ad Arrighi una sottovalutazione programmatica dei conflitti sociali,
in coerenza ad una sua esperienza e visione “terzo-mondista” (ad esempio nei
suoi precedenti studi sulla proletarizzazione senza sviluppo delle periferie
del mondo capitalista ed in generale nell’assegnazione di un ruolo parziale all’industria
ed ai rapporti di produzione).
A mio avviso lo sforzo di
comprensione inter-disciplinare di Arrighi è già molto vasto ed una attenzione
di altri autori sulle lotte sociali potrebbe integrarne la sua lettura di
questa storia di mezzo millennio di capitalismo, probabilmente senza smentirla
(come afferma anche Mario Pianta nella prefazione al testo edito in Italia nel
2014, indicando anche altre significative direzioni di ulteriore ricerca a
partire dalle acquisizioni ed intuizioni di Arrighi).
Così come tale lettura mi sembra
conciliabile con altre ricerche da altri punti di vista parziali, da me
recentemente apprezzate, quali quelle di Luciano Gallino e di Paolo Leon (sul
finanz-capitalismo di oggi, ma senza i precedenti storici pluri-secolari), di
Thomas Piketty (sulla accumulazione del capitale dal Settecento, ma con poca
attenzione alle dinamiche ed alle transazioni internazionali), di Paolo Prodi
(sulla genesi dei mercati dal Medioevo, nella emancipazione dai poteri
religioso e politico); mi sembra inoltre un utile correttivo ai contributi
ancor più parziali (e da me meno apprezzati), ma comunque originali ed utili, di
Graeber sul debito nei secoli e di Acemoglu&Robinson sui governi “estrattivi”
e la benefiche distruzioni creatrici del capitalismo.
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