Ho letto “UTOPIE MINIMALISTE – UN
MONDO DESIDERABILE ANCHE SENZA EROI” di Luigi Zoja (ChiareLettere, Milano 2013,
pagine 232) a seguito dell’intervista e segnalazione nel programma televisivo
“Scala Mercalli”, dell’omonimo metereologo ed ecologista Luca Mercalli.
Programma che ho trovato
gradevole e non gridato (come invece le Gabanelli e gli Jacona della medesima
fascia oraria su RaiTre) e spero quindi che sia risultato credibile ed efficace
anche verso spettatori non pregiudizialmente ecologisti.
Nel taglio giustamente
divulgativo, ma abbastanza approfondito, del programma di Mercalli non ho
trovato molti spunti per ulteriori letture (se non già indotte da precedenti
interventi di Mercalli presso FabioFazio), ma mi ha incuriosito la
presentazione del testo di Zoja, sia per il gradualismo proposto, sia per
l’approccio psicologico ed antropologico.
Luigi Zoja, psichiatra di scuola
Junghiana e laureato dapprima in economia, percorre in lungo ed in largo i temi
socio-economici e politici nel passaggio dal secolo XX al XXI, dalla caduta del
comunismo e di ogni mitologia rivoluzionaria alla crisi dello stato sociale,
dalla globalizzazione finanziaria allo stress ambientale del pianeta terra,
cercando di applicare alla storia del mondo alcune categorie di interpretazione
proprie della sua esperienza di
psicanalista (junghiano): a mio avviso con risultati alterni.
I contenuti più strettamente
descrittivi delle contraddizioni e disuguaglianze nel mondo contemporaneo, ed a partire dal crollo
del blocco sovietico, mi sono sembrati corretti, ma non particolarmente
originali.
Pregevole mi è parso il tentativo
di contrapporre al liberista ed anti-solidale “Tax Freedom Day” (il giorno
dell’anno in cui il contribuente ha finito di lavorare per pagare tasse e
contributi) un calcolo dei pochi giorni che all’uomo occidentale bastano ogni
anno per procurarsi quanto è veramente necessario; più scontate le
considerazioni sul disagio fiscale verso le odierne nazioni, scavalcate dalla
globalizzazione, a fronte di una accettazione più facile del carico fiscale con
istituzioni locali forti e federate (esempio svizzero).
Più interessanti, ma discutibili,
le considerazioni antropologiche e psicologiche.
Un assioma di fondo di Zoja (pag.
206) è che “tenere un diario, annotare i propri sogni, o comunque
cercare di conoscere meglio se stessi, col tempo finirà coll’essere
anche per la società un contributo più importante che il partecipare a
manifestazioni rumorose”; raggiungere “l’individuazione” (cioè in sostanza la
pace con se stessi) è la premessa ad una vera empatia sociale ed ambientale,
fondata più sulla “vergogna” della corresponsabilità nei mali del mondo che
sull’indignazione per il male altrui.
Per altro, dice Zoja, il
raggiungimento dell’individuazione non si può programmarlo (mi sembra che
assomigli un po’ alla grazia divina calvinista).
Pur comprendendo l’importanza dei
riti e dei miti (archetipi junghiani) correlati alla militanza rivoluzionaria,
Zoja considera molto dannosi i comportamenti astrattamente e “alienatamente”
altruisti, propri del ciclo storico comunista, e propone la ricerca di un culto
più intimista e rilassato di “utopie minimaliste”; confidando che nella
rassegnata resistenza passiva della “generazione indifferente” possano maturare
(anziché il narcisismo egoista, che a me sembra comunque incombente)
comportamenti solidali, secondo la “naturale socialità dell’uomo” cara a Jung, ed alternativi alla omologazione consumista,
incontrando anche altre culture e altri archetipi: la natura, grande madre,
ufficializzata anche nelle costituzioni delle nuove democrazie andine, e la
comunità dei viventi, animali e vegetali inclusi, propria delle religioni
orientali.
(Temi che Zoja ritrova nella
cultura occidentale solo di recente, con Peter Singer e Paolo De Benedetti,
considerando Francesco d’Assisi come un eccezione isolata: trascura invece
importanti pensatori e testimoni del Novecento, cresciuti tra cristianesimo ed
illuminismo, come Albert Schweizer e Aldo Capitini, quest’ultimo rilevante non
solo per il vegetarianesimo e la non-violenza come strumento di lotta, ma anche
per la ricerca della felicità entro il lavoro, “endoponia”, che può
assomigliare alla “individuazione”, su un versante più laburista).
Proseguendo un ragionamento di Freud, Zoja contempla uno sviluppo a tappe del
superamento dell’ego-centrismo occidentale attraverso Galileo e Copernico (la
terra perde il centro nell’universo), Darwin (anche l’uomo appartiene al regno
animale), Freud stesso (l’io razionale come parte minoritaria della psiche) per
arrivare ad un pieno rispetto di tutte le specie viventi e degli equilibri
dell’ecosfera.
Correlato è il percorso culturale
proposto attraverso:
- Thoreau e Chomsky (contro
Foucault, per il socialismo libertario, senza paradigmi preconcetti ed
anche come autorealizzazione
dell’individuo),
- Borges (sorprendentemente anti-nazionalista)
- Enzensberger sul minimo di
civiltà (le condizioni per la convivenza civile, assicurate in ristretti luoghi
del globo) e sulle contraddizioni del superfluo, che portano alla povertà di
spazio e di tempo.
Con ulteriori riflessioni di Zoja
sull’attesa che divora la vita, vuoi per eccesso di pretese (ad esempio la non
accettazione dell’invecchiamento), vuoi invece per carenze di garanzie (il
precariato).
Mi sembra interessante la
proposizione dei “diritti dell’uomo dell’ambiente” non solo come difesa dagli
inquinamenti, ma come “diritti positivi” all’acqua, all’aria respirabile, al
cibo, alla luce ma anche al buio ed al silenzio, al poter camminare sulla
superficie terrestre senza pericoli e barriere: il tutto anche come diritto
alla salute psichica (e qui però mi sarei aspettato di apprendere maggiori dati
sulla concretezza del disagio e del benessere per l’umanità urbana
contemporanea).
Più debole invece mi pare la
proposizione dei diritti della natura, che non solo sono indeboliti, come dice
Zoja, perché gli animali non votano, ma anche (tema ignorato da Zoja) per i
rischi di fondamentalismo impliciti in ogni rappresentanza della natura assunta
da gruppi umani (rischi maggiori, secondo me,
di quelli insiti nelle militanze
rivoluzionarie socialiste dei precedenti due secoli; perché alla fin fine i
poveri, votando, magari in modo sbagliato, possono liberarsi dei falsi
rappresentanti: i criceti invece no).
Non mi ha convinto affatto la sua
semplificazione sulle “generazioni”: la “generazione impegnata”, dal dopoguerra
agli anni 70, che lottava contro le disuguaglianze in un periodo in cui il
capitalismo, mitigato dalla socialdemocrazia, consentiva il massimo di relativa
uguaglianza, e la successiva “generazione indifferente”, che non lotta più,
mentre le disuguaglianze nei paesi sviluppati tornano ad espandersi ai massimi
livelli.
Avendo appartenuto alla prima,
rammento benissimo che la componente “impegnata” riuscì, chiassosamente e
capillarmente, a conquistare una centralità politica e mediatica: ma era una
componente minoritaria dell’universo statistico dei giovani di allora (ad
esempio sono certo che la maggioranza dei miei compagni di liceo non ha mai
preso parte ad alcuna manifestazione), e mi sembra scorretto confondere la
parte con il tutto, trascurando i conflitti interni alle generazioni.
Non mi convince nemmeno il
paradigma di Che Guevara come padre irresponsabile sia verso i suoi figli
naturali che verso i suoi figli politici, anche se appare efficace la descrizione
della parabola discendente del militante rivoluzionario frustrato (e non
eroicamente caduto), che diviene incapace di leggere la realtà e di abbandonare
strumenti concettuali ormai fallimentari e controproducenti: tutte queste
critiche mi sembrano efficaci applicandole a chi ha scelto una militanza
volontaria, molto meno per tutti coloro che hanno lottato, e lottano,
semplicemente prendendo coscienza della loro oggettiva condizione subalterna e
di sfruttamento (ed a cui manca il tempo forse per sfogarsi sul lettino dello
psicanalista).
Per finire, anche se è chiaro il
fallimento del comunismo nel tentativo di realizzare un uomo nuovo (da Stalin a
Pol Pot) ed anche l’effetto controproducente dell’estremismo rivoluzionario
(Che Guevara), occorre forse chiedersi se le mitigazioni di tipo
socialdemocratico al capitalismo nel periodo 1945-75 (nei soli paesi
sviluppati) sarebbero state possibili senza che aleggiasse altrove lo “spettro
del comunismo”; ed infatti con il declino e poi il crollo del blocco sovietico
abbiamo assistito ad un rilancio del liberismo finanziario selvaggio.
D’altro canto la strada di
migliorare l’uomo per migliorare il mondo, pur in chiave diversa dalla
“individuazione” junghiana, è stata
lungo predicata dal cattolicesimo democratico (quando la Chiesa ha perso il
potere temporale e la pretesa di insegnare ad obbedire ai sovrani cattolici),
ma non mi sembra con grandi risultati sociali, almeno all’interno dei paesi
ricchi.
Forse anche il riformismo, per
essere efficace, ha bisogno di qualche dose di utopia non troppo minimalista e
di una dimensione collettiva ed in qualche misura militante, a partire dagli
interessi concreti dei soggetti sociali (probabilmente a partire dai paesi
poveri, e sperabilmente in armonia con la grande-madre-terra).
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