In questi giorni viviamo una angoscia principale, che è quella
dell’attacco terroristico all’Europa (nel quadro di una guerra tra Califfato e
Resto del Mondo e nell’ambito di altri conflitti bellici in Medio Oriente, in
Africa ed anche in Ucraina) e della constatazione della sostanziale impotenza
dell’Europa (estesa alla connessa questione dei profughi e migranti).
Sono problemi enormi, su cui ho molto da ascoltare, troppo da capire, e
poco da aggiungere alle modeste riflessioni espresse nei mesi scorsi; ed al cui
cospetto mi appare quasi frivolo occuparmi di altri argomenti, come il
referendum “trivelle”, che pure sono assai seri.
Mentre poco serio mi pare l’approccio di gran parte dei contendenti,
per cui ho deciso di provare a formulare qualche contributo di chiarezza.
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Il confronto tra Si e NO+Astenuti
sul referendum “trivelle” mi sembra si affidi da troppe parti a bufale ed
emozioni, anziché a dati certi e ad argomenti razionali.
Per parte mia, con riserva di
tornare su singoli aspetti delle campagne in corso, terrei a sottolineare che
il referendum riguarda SOLO la proroga automatica e generalizzata (a
decorrere dalla loro futura scadenza contrattuale trentennale, talora già
prorogata) fino ad esaurimento dei
giacimenti, per le concessioni in atto nelle acque territoriali, cioè entro
12 miglia dalla costa marittima italiana.
In questa scelta, compiuta e
ribadita (per motivi a me poco comprensibili*) dal Governo Renzi,
che pure ha accettato di vietare ogni futura trivellazione nelle stesse acque territoriali
(confermandone quindi in generale la negatività ecologica), sono insiti alcuni
aspetti a mio avviso assai preoccupanti:
-
la rinuncia preventiva dello Stato ad una attiva
politica energetica relativa a queste specifiche riserve, che seppur modeste,
potrebbero divenire strategiche oppure no (per goderne subito, o per tutelarle
a futura memoria, o per non estrarle mai più), al concreto momento della
scadenza delle concessioni;
-
il pre-vigente criterio delle possibili proroghe
risultava assai più consono alla gestione degli interessi nazionali; ciò anche
riguardo alla destinazione degli idrocarburi estratti, che oggi di fatto
probabilmente arrivano al mercato italiano, ma sono nella piena disponibilità
di vendita (a chi più loro convenga) da parte delle compagnie concessionarie:
il potenziale rinnovo delle concessioni potrebbe invece avvenire anche a
diverse condizioni poste dallo Stato concedente;
-
la dubbia coerenza con le direttive europee, che
inducono alla concorrenza tra più soggetti in tutto l’insieme delle concessioni
dei beni pubblici (vedi ad esempio spiagge e autostrade, dove l’Italia già
rischia procedure di infrazione per le restrizioni alla concorrenza);
-
l’oggettiva incentivazione a condotte scorrette
da parte delle imprese concessionarie, che – in particolare in fase di prezzi
calanti degli idrocarburi – potrebbero essere tentate di diluire a loro
piacimento il ritmo di estrazione, conservando il diritto esclusivo di prelievo
per tempi migliori e rinviando nel contempo “sine die” il costo finale di
disattivazione degli impianti e ripristino ambientale, cui sono tenute dai contratti di concessione;
-
il conseguente aumento del rischio di incidenti
per obsolescenza e scarsa manutenzione degli impianti.
*L’unico buon motivo che riesco ad intuire nella condotta del Governo
(rispetto ad alternative più morbide che erano perseguibili, evitando il
referendum) sarebbe quello di precludere alle Regioni l’attuale diritto di veto
sul rinnovo delle concessioni: ma è già da tempo in dirittura d’arrivo la riforma
costituzionale promossa dal Governo Renzi, che comunque tra pochi mesi dovrebbe
togliere questo e diversi altri poteri alle Regioni. Oppure forse il referendum
è stato cercato per dare una botta politica all’opinione pubblica
verde-ecologista, non abbastanza entusiasta in generale della linea
governativa.
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