Dopo aver affrontato in
precedenti articoli su Utopia 21 – in chiave di sostenibilità ambientale - i
temi dell’edilizia, del consumo di suolo e della pianificazione urbana, in questo
articolo cerco di inquadrare, nello sviluppo storico italiano da metà Novecento,
la problematica del paesaggio, anzi dei nessi territorio-ambiente paesaggio
Riassunto:
Territorio e paesaggio
prima della 2^ guerra mondiale
Ricostruzione e
sviluppo post-bellico tra illusioni illuministe e concretezza speculativa
I miti della
pianificazione territoriale negli anni ’60 e ‘70
Anni 80: involuzione
del riformismo (anche urbanistico); emergenze ambientali; condoni e ritorno del
paesaggio
Il nuovo paesaggismo in
un’Italia in grande trasformazione
La svolta europea agli
inizi del XXI secolo
Criticita’ tuttora
aperte
NOTA: PER LE IMMAGINI RIMANDO AL SITO universauser.it\utopia21
TERRITORIO
E PAESAGGIO PRIMA DELLA 2^ GUERRA MONDIALE
Per alcuni decenni dopo la 2^
guerra mondiale, in Italia il “paesaggio” ed il “territorio” sono stati vissuti
come ambiti distinti, culturalmente e amministrativamente, con una perdurante
impronta delle leggi promosse dal fascismo modernizzante di Bottai:
-
nel 1939 la legge 1497, che – partendo da una
concezione idealistica ed estetizzante del “paesaggio” (e non a caso da una
precedente legge del 1922, promossa dal ministro Benedetto Croce) – affidava al Ministero (allora “dell’Educazione
Nazionale”) ed alle connesse Soprintendenze la tutela su alcuni luoghi,
individuati tramite specifici decreti come “bellezze naturali”, in parallelo a
quanto effettuato sui “Monumenti” (sulle “cose d’arte”) in base alla coeva
legge 1089 (che riprendeva anch’essa precedenti prassi e testi legislativi del
Regno d’Italia, per lo più successivi al 1900),
-
nel 1942 la legge 1150 che – pur in un quadro
ideologico formalmente orientato “contro l’urbanesimo” – prevedeva per la prima
volta un insieme organico di piani urbanistici e territoriali estesi a tutti i
comuni, sotto il controllo gerarchico del Ministero dei Lavori Pubblici.1
RICOSTRUZIONE
E SVILUPPO POST-BELLICO TRA ILLUSIONI ILLUMINISTE E CONCRETEZZA SPECULATIVA
Mentre la ricostruzione
post-bellica e poi lo sviluppo industriale ed edilizio, che hanno trasformato
larghe parti del Paese, si realizzarono con strumenti urbanistici sommari (i
piani di ricostruzione) oppure tranquillamente senza alcun piano, o ancora –
nelle città più grandi - attraverso piani regolatori comunali tardivi e
permissivi, e spesso senza pianificazione particolareggiata (come invece
prevedeva la legge del 1942), 1,2,3 solo pochi funzionari e pochi
intellettuali (tra cui l’INU di Adriano Olivetti e del professor Astengo)
cercarono di proporre, già negli anni ’50 – ma senza alcun risultato pratico – la necessità dei Piani Territoriali di
Coordinamento (teoricamente previsti sempre dalla legge del 1942).
Figure 1 e 2: copertina ed una
tavola della rivista “Metron”, n° 14 diretta da Piccinato e Ridolfi (1947,
febbraio) - Fascicolo interamente dedicato al piano regionale piemontese. Testo
di Marco Visentini: «Presentazione del Piano Piemontese. Giovanni Astengo -
Mario Bianco - Nello Renacco - Aldo Rizzotti.
La pianificazione
sovracomunale, territoriale e socio-economica, venne poi in auge, ben inteso
solo in termini teorici, negli anni ’60, a fronte della evidenza dei fenomeni
più rilevanti connessi alla disordinata urbanizzazione in atto nelle periferie
e della speculazione edilizia, aggressiva in parte anche verso i “centri
storici” (che però si iniziò in quegli anni a difendere, anche con i vincoli
monumentali e paesaggistici e anche grazie a nuovi movimenti, quali Italia
Nostra).
A livello nazionale però si
consumò, con la fine degli slanci del primo centro-sinistra, la sconfitta della
attesa “riforma urbanistica” (legge Sullo del 1962:4,5,6 prevedeva
l’esproprio preventivo, a prezzo agricolo, di tutti i suoli edificabili; esproprio che venne
invece limitato alle aree per i quartieri popolari); solo dopo la frana di
Agrigento (1966) venne posto un qualche freno al disordine edilizio e
urbanistico mediante la legge “Ponte” del 1967, che rese concreto l’obbligo dei
piani comunali con “zone omogenee” ed alcuni criteri quantitativi minimi di
distanze tra fabbricati e di spazi pubblici.
I
MITI DELLA PIANIFICAZIONE TERRITORIALE NEGLI ANNI ’60 E ‘70
Il successo culturale della
“pianificazione” a scala territoriale attraverso i vari Istituti Regionali di
Ricerca, Piani Comprensoriali e Intercomunali (il cui ultimo epigono, a scala
nazionale, tra il 1969 ed il 1971, fu il “progetto 80”7) risultò di
fatto limitato a segmenti avanzati del mondo politico e culturale (e in modesta
misura anche imprenditoriale) soprattutto al Centro-Nord, ma senza esiti
concreti, anche nel successivo avvio delle Regioni ordinarie nel 1970 (più
avanti erano solo le regioni a Statuto Speciale del Nord-Est, a partire dal
Piano Provinciale del Trentino nel 1967, seguito poi da analoghi strumenti anche
a Bolzano e nel Friuli/Venezia Giulia).
Le idee forti del confronto
disciplinare e mediatico nella pianificazione territoriale erano sintetizzate
in immagini spaziali emblematiche, come la “turbina” oppure “la città lineare”
per Milano e dintorni8, l’asse attrezzato “Sistema Direzionale
Orientale” per Roma (che i dintorni li ha dentro il confine dell’enorme comune)9;
i grandi gesti dominavano anche l’architettura, dal serpentone del Corviale a
Roma alla più tarda mega-struttura dell’Università della Calabria a Cosenza/Rende10
(passando per le vele di Scampia a Napoli e lo ZEN di Palermo).
Figure 3 e 4: “Secondo Schema
per il Piano Intercomunale Milanese” di G. De Carlo, S. Tintori e A. Tutino (1965)
ed uno schizzo per l’Università della Calabria di Gregotti e Associati (1974)
Ma lo scontro culturale e
politico effettivo sul “territorio” si combatteva (anche all’interno del
partito democristiano, allora dominante) tra il liberismo spicciolo di lasciar costruire
villette e capannoni ad ogni proprietario sul suo terreno (nonché sui terreni
agricoli accaparrati dagli speculatori), anche attraverso piani comunali
ipertrofici e compiacenti, o comunque
con l’abusivismo (non solo al centro-sud, in quegli anni) – da un lato – e dall’altro
lato i tentativi di imporre qualche disegno organico di trasformazione dei
suoli, anche intercomunale, finalizzato ad uno sviluppo più razionale ed
efficiente, con adeguati spazi per i bisogni sociali allora emergenti (case
popolari, scuole, impianti sportivi) e quindi con la necessaria acquisizione
dei relativi terreni (tramite esproprio oppure lottizzazioni convenzionate).
Malgrado le prime avvisaglie
di crisi anche ecologica (rapporto al club di Roma 1972 11, crisi
petrolifera del 1973), questa cultura sostanzialmente “industrial-sviluppista”
pervade anche le nuove leggi urbanistiche regionali di metà anni 70, che
rappresentano i primi tentativi di riforma sistematica della legge 1150 del
1942 (pur dovendone confermare i principi), a partire dal centro-nord (prima la
Lombardia nel 1975): tali leggi
mediamente contribuirono a migliorare la qualità dei piani comunali,
fallendo invece quasi totalmente nella formazione dei piani territoriali
regionali e di scala intermedia (prima comprensoriali e poi provinciali: piani
provinciali di qualche efficacia, nelle regioni a statuto ordinario, si avranno
infatti solo a fine secolo, dopo la riforma degli enti locali del 1993, con
l’elezione diretta di Sindaci e Presidenti di Provincia).
E’ da segnalare però che in
queste leggi si affacciò finalmente il tema della tutela del suolo agricolo,
seppur con varia efficacia, e che contestualmente vennero decisi e realizzati i
primi parchi regionali, a partire dal Parco Lombardo della Valle del Ticino
(1975).
Nel biennio 77-78 si consolidò
anche il quadro legislativo riformistico per l’edilizia e l’urbanistica,
solamente a scala comunale, con le leggi sugli oneri di urbanizzazione e sui
piani di recupero per i nuclei antichi e le zone degradate.
Sopra a queste vicende
tipicamente “territoriali”, il “paesaggio” galleggiava con la sua separata
normativa, dal 1974 gestita dal neonato Ministero per i Beni Culturali, che di
fatto non riusciva ad impedire le trasformazioni urbanistiche, anche nelle zone
vincolate, ma solo a condizionare la forma degli edifici, imponendo (a
costruzioni spesso incongrue) coperture a falde, aperture ad archi, paramenti
in pietra ed intonaci in tinte pastello, secondo l’interpretazione soggettiva
dello “stile tradizionale” da parte dei singoli funzionari e Soprintendenti.
Figura 5 – esempio di re-invenzione in stile, anni ’60 -
Arona, lungo-lago Marconi
(fonte dell’immagine: Google Street Vieuw)
ANNI
80: INVOLUZIONE DEL RIFORMISMO (ANCHE URBANISTICO); EMERGENZE AMBIENTALI;
CONDONI E RITORNO DEL PAESAGGIO
Dagli anni ’60 agli anni ’80,
mentre si indeboliva la spinta propulsiva di carattere sociale (sindacati,
partiti di sinistra storici e movimenti extra-parlamentari), crescevano invece
sensibilità e associazioni ambientaliste, oltre l’ottica limitata (ma pur
meritoria) di Italia Nostra: WWF, FAI, LegaAmbiente, movimento dei Verdi, ecc.;
datano 1986 la fondazione del Ministero dell’Ambiente e il recepimento della Direttiva Europea
sulla V.I.A. (Valutazione di Impatto Ambientale per singole opere pubbliche);
1987 il primo referendum anti-nucleare; i consigli comunali istituivano
“commissioni ambientali” e nascevano gli assessorati all’ambiente di Comuni
Province e Regioni; “AMBIENTE” diveniva la nuova chiave di lettura del
“territorio”, ed il paesaggio rimaneva un po’ sullo sfondo.
Tuttavia, mentre sul fronte
più strettamente urbanistico iniziava un ciclo di contro-riforme (non solo
leggi, ma anche sentenze della Corte Costituzionale contro gli espropri ed in
favore dello “ius edificandi” dei singoli proprietari)12,13, ciclo
amministrato prima dal “pentapartito” di Craxi-Andreotti&C. e poi dal
centro-desta di Berlusconi (attenuato ma non capovolto dai governi del
centro-sinistra di Prodi-D’Alema-Amato e Prodi2), che si concretizzò nei 3
condoni edilizi del 1985-1994-2004 ed in svariate procedure di deroga ai Piani
Regolatori (dai “programmi di intervento” e simili ai “piani-casa”), aiutate da
una cultura architettonica che esaltava la libertà del progetto contro la
burocraticità delle norme e dei piani, la schizofrenia politica del legislatore
partorì nel 1985, come una sorta di contrappeso al primo “condono”, la legge
“Galasso” sui vincoli paesaggistici, che istituiva:
-
parere obbligatorio delle Soprintendenze su
tutti gli interventi edilizi in intere categorie di beni naturali, quali le
fasce costiere di mari, laghi e fiumi, gli usi civici, le zone umide, i boschi,
i vulcani, l’alta montagna, i parchi nazionali e regionali (in tale elencazione
emerge una evidente vena ambientalista di interpretazione del paesaggio);
-
estensione di tale parere anche alle domande in
sanatoria per abusi edilizi pregressi, ed esclusione dai condoni (almeno in
teoria) per opere irregolari realizzate dopo l’apposizione dei vincoli;
-
inedificabilità transitoria, fino alla
redazione di piani paesaggistici regionali, per alcune aree di rilevante interesse
ambientale, individuate direttamente dal Ministero (i cosiddetti “galassini”);
-
obbligo per le Regioni di redigere i suddetti
Piani Paesaggistici, per governare attivamente tutta la materia e indirizzare
la gestione delle aree vincolate (eventuale ridisegno dei confini; criteri per
l’espressione dei pareri, interventi attivi di riqualificazione).
Figura 6-7 – esempio di estensione dei vincoli paesaggistici,
nelcomune di Osmate (VA), tratto dal vigente Piano di Governo del Territorio
IL
NUOVO PAESAGGISMO IN UN’ITALIA IN GRANDE TRASFORMAZIONE
Il miscuglio contradditorio di
vincoli e condoni non ha di certo sortito l’effetto di salvare il paesaggio
italiano, come si era configurato al termine del grande ciclo espansivo del
dopoguerra, né di affrontare coerentemente gli ulteriori cicli espansivi nel
settore edilizio (l’ultimo dal 1995 al 2005), espansioni connesse:
- al risparmio delle famiglie,
spinte all’acquisto della prima casa dall’esaurimento sia del blocco degli
affitti e del successivo tentativo dell’”equo canone” (1978) e dall’affievolimento
degli interventi pubblici per case popolari e cooperative (ed all’acquisto di
seconde case anche come bene-rifugio)
- alla crescente
finanziarizzazione dell’economia, con pesanti investimenti dei profitti anche
nei vari settori immobiliari
Figura 8 – i cicli edilizi dal dopo guerra,
secondo il CRESME (Centro Ricerche Economiche e Sociali del Mercato
dell’Edilizia)
Un lungo processo insediativo
che ha portato alla riconfigurazione del territorio (e del paesaggio) in
termini ben diversi dal riequilibrio auspicato, ad esempio, dal “Progetto ‘80” 7,
ed invece con accentuazione degli squilibri a svantaggio delle zone montane e
delle “zone interne”, con forte calo di popolazione (soprattutto di popolazione
giovane) e di attività produttive (ma non sempre anche di attività edilizie…) e
con la formazione di rilevanti fenomeni “conurbativi” non solo nelle aree
metropolitane (Roma, Milano, Torino, Napoli, Padova/Venezia/Treviso,
Firenze/Val d’Arno) ma anche sull’intero arco pedemontano, da Biella a Gorizia,
sulla via Emilia e traverse, e poi nelle “città lineari” lungo la costa ligure,
da Ventimiglia a Sestri Levante, in Versilia e lungo l’Adriatico, da Ravenna al
Molise; con accanimenti insediativi costieri disordinati anche in parte delle
restanti regioni meridionali; con episodi tendenziali anche nel Basso Piemonte
ed in Umbria (per leggerli sommariamente è sufficiente uno sguardo di notte dal
satellite, vedi foto alla pagina successiva).
Figura 9 – immagine notturna dell’Italia da satellite
In tale quadro, il nuovo
indirizzo paesaggistico derivante dalla legge Galasso iniziò ad aiutare le
forze interessate a “salvare il
salvabile”, offrendo qualche strumento di controllo e di salvaguardia in più
alle amministrazioni virtuose, statali e locali, e inducendo a riflettere anche
sulle possibilità di “recuperare il recuperabile”, sia con progetti di
ri-naturalizzazione (esempio per le cave abbandonate), sia mediante la
riqualificazione progettuale di aree urbane e peri-urbane parzialmente
compromesse (esempio per le aree industriali dismesse, fenomeno che si affaccia
pesantemente in Italia proprio a partire dagli anni ’80) NOTA*
Gli effetti della legge
Galasso non si limitarono al successo più o meno pieno delle innovazioni
legislative ed amministrative introdotte (i pochi vincoli diretti, i moltissimi
pareri ed i rari dinieghi relativi agli interventi nelle aree tutelate, la
faticosa elaborazione dei primi piani paesaggistici regionali – attorno al 1990
- in Liguria, Marche ed Emilia-Romagna), ma si concretizzarono anche in una
crescita culturale:
-
tra i tecnici delle Soprintendenze, costretti a
misurarsi con le concrete trasformazioni di larghe parti del Paese, ed i
funzionari regionali, chiamati ad assumente nuove competenze e responsabilità;
-
nelle università, seppur con persistenti
separatezze e rivalità disciplinari tra geografi, geologi, naturalisti,
architetti paesaggisti (fino ad allora spesso confinati nella cosiddetta “arte
dei giardini”) ed urbanisti-pianificatori;
-
nei tribunali e negli studi legali, dato
l’inevitabile dilatarsi del contenzioso connesso alla gestione dei vincoli;
-
diffusamente nel corpo dei tecnici comunali e
dei professionisti privati, spesso cooptati nelle nuove “commissioni
paesaggistiche” (a fianco od in sostituzione delle tradizionali “commissioni
edilizie”, schiacciate per lo più sul controllo delle norme di tipo
quantitativo) per esercitare in sub-delega da alcune Regioni l’esame dei
progetti in prima lettura (fermo restando il parere finale delle Soprintendenze);
-
nonché a livello dell’opinione pubblica,
soprattutto nei ranghi delle associazioni ambientaliste e dei comitati locali,
obbligati a scendere dalla protesta generica ed a confrontarsi nel metodo e nel
merito con l’evoluzione del “diritto paesaggistico”.
LA
SVOLTA EUROPEA AGLI INIZI DEL XXI SECOLO
Gli elementi più avanzati
nell’ambito di questa crescita culturale, corale ma disuguale, non erano
pertanto impreparati ad accogliere le importanti innovazioni che a cavallo tra
il ‘900 e l’inizio del nuovo secolo sono arrivati dall’Europa:
-
la direttiva Habitat del 1992 che ha delineato l’obiettivo “rete natura 2000”,
obbligando gli Stati aderenti ad individuare le aree sensibili per la tutela
della bio-diversità (a partire dall’avi-fauna), fino a costituire “corridoi
ecologici” come definiti concettualmente dallo Schema di Sviluppo dello Spazio
Europeo (SSSE), approvato nel 1999;14
-
la Convenzione Europea del Paesaggio,
sottoscritta a Firenze nel 2000 (ma recepita come legge nazionale con il Codice
dei Beni Culturali e del Paesaggio del 2004 e successivi rimaneggiamenti);15
-
la Direttiva sulla Valutazione Ambientale
Strategica di Piani e Programmi, emanata nel 2001 e recepita in legge nel 2006
(prima in parte e variamente da alcune regioni).16
La Convenzione Europea del
Paesaggio (CEP) ha introdotto alcuni concetti innovativi (e quasi rivoluzionari)17,18,19,20,21
rispetto all’assetto giuridico e culturale della legge 1497 del 1939:
-
il paesaggio è ciò che è percepito dagli
abitanti (l’aspetto percettivo tende a divenire quindi da individuale a
collettivo e deve misurarsi – tramite opportuni linguaggi - con le dimensioni
simboliche e con la stratificazione storica di tali percezioni; ferma restando
l’importanza della struttura oggettiva - geografica ed ecologica - dei luoghi)
-
la pianificazione va estesa a tutti i paesaggi,
anche se degradati o apparentemente banali;
-
il governo del territorio non è solo tutela e
salvaguardia (vincoli) ma anche nuove configurazioni paesaggistiche (progetto).
La Direttiva sulla Valutazione
Ambientale Strategica (VAS) ha anticipato la procedura valutativa dai singoli
interventi (come era ed è per la Valutazione di impatto Ambientale ovvero
V.I.A.) ai Piani e Programmi che li precedono, definendola come processo
partecipativo in grado di coinvolgere le popolazioni interessate, ed integrando
le verifiche di compatibilità negli ambiti ambientale, sociale ed economico (il
che può essere motivo per approdare ad un virtuoso realismo riformista, oppure
per mascherare un opportunistico accodarsi alla “pubblica opinione”, senza
nulla innovare).
Figura 10 –la triade
Economia/Società/Ambiente nello Schema di Sviluppo dello Spazio Sociale Europeo
Poiché la CEP ed il
conseguente Codice hanno previsto l’obbligo per le regioni di redigere (in
collaborazione con il Ministero) nuovi Piani Paesaggistici oppure Territoriali
e Paesaggistici (scelta preferita da molte regioni, che con fatica già si
stavano finalmente dotando di piani territoriali, spesso più narrativi che
dispositivi, in parte affiancati da più cogenti piani provinciali), e poiché
anche tali piani devono essere sottoposti a Valutazione Ambientale Strategica,
nell’ultimo decennio avrebbe dovuto maturare finalmente una sintesi tra i temi
del Paesaggio, del Territorio e dell’Ambiente, il tutto nell’ambito di
procedure decisionali orientate alla massima partecipazione popolare.
Anche se il confronto tra i
funzionari e gli intellettuali specializzati (inclusi ora gli esperti in
partecipazione) ha raggiunto elevati livelli culturali, la complessa macchina
dei Piani Paesaggistici post CEP non ha finora raccolto grandiosi risultati, né
in termini di efficienza (risultano ad oggi approvati solo lo stralcio costiero
per la Sardegna ed i Piani di Toscana e Puglia del 2015),22,23,24,25,26
né in termini di effettivo coinvolgimento delle popolazioni (è facile
constatare come tali argomenti non campeggino sui mezzi di comunicazioni di
massa, mentre i Piani sono in elaborazione in quasi tutte le Regioni); la
semi-abolizione delle Provincie ha inoltre ridotto l’operatività – già bassa -
del sistema pianificatorio, e la crisi economico/finanziaria di scala
internazionale ha spostato l’attenzione sulle problematiche immediate della
produzione e del welfare, con la ricerca
di pericolose scorciatoie di rilancio industrialista del tipo “Sblocca-Italia”.
CRITICITA’
TUTTORA APERTE
Se a livello teorico – pur tra
le necessarie ed opportune differenziazioni politico-culturali tra diverse
scuole di pensiero 23,24,26,27,28,29,30,31,32 – sembrerebbe possibile
enunciare cosa si intenda oggi in Europa per “paesaggio sostenibile” o meglio
per una attività di pianificazione territoriale e paesaggistica compatibile con
l’ambiente NOTA*** (e coerente con
l’obiettivo del risparmio di suolo), permangono comunque criticità nella
attuazione dei principi condivisi, che non riguardano solo l’efficienza delle
procedure e la sollecitudine degli enti preposti, nonché il persistente
campanilismo di comuni piccoli e grandi (dove prende il più moderno nome di
”marketing urbano”).
Rimando al mio ciclo di
articoli su “IL DIBATTITO SULLA CRESCITA E SULLA SOSTENIBILITA’ DEI FENOMENI
URBANI E METROPOLITANI”33 per rammentare quanto risulta
inestricabile il rapporto città-campagna, e che quindi l’oggetto della
pianificazione “paesaggistica” non è la “campagna residua”, bensì sempre anche il
suddetto inestricabile rapporto (nonché le aree “peri-urbane, oggi di gran moda
tra gli urbanisti, aree che a questo groviglio stanno in mezzo); al mio testo
suddetto rimando anche per segnalare che
– pertanto - le “scuole di pensiero” da me ivi catalogate attraversano a pieno
titolo il campo del paesaggio (fino ad
essere titolari, in varia forma, come i “territorialisti” Magnaghi e Marson,
dei principali successi sopra citati a livello di piani regionali, rispettivamente
per la Puglia e per la Toscana); è chiaro infatti che quando Campos&Oliva,
Tonon&Consonni, oppure Lanzani o Boeri o Nonni parlano di città e di
metropoli, parlano anche di campagna e di paesaggi, urbani ed extraurbani.34
Inoltre occorre considerare
come il paesaggio europeo (a diversità di quello di altri continenti) sia di
fatto nella sua quasi totalità costituito da territori “antropizzati”, cioè
condizionati dalle attività umane, più invasive come gli insediamenti, le
industrie, le infrastrutture e l’agricoltura, oppure meno invasive ma non certo
irrilevanti, come pastorizia, caccia e pesca, nonché turismo e tempo libero;
ciò anche nei casi estremi, come ad esempio la Valgrande, a noi fisicamente
vicina, e considerata come il paradiso della “wilderness” italiana, ma che non
era affatto selvaggia pochissimi decenni addietro, tra alpeggi e taglio
sistematico della legna, oppure la foresta “Bialowieza Puszcza” (ai contesi
confini orientali della Polonia) così ben descritta da Simon Schama35
come luogo selvatico, ma storicamente assediato da vari appetiti umani.
Per questo la concezione
puramente ecologica dell’ambiente e del paesaggio come luogo di svolgimento di
processi naturali che tendono ad un loro precario equilibrio (il “climax” dell’
“habitat”) è necessaria per comprenderne le persistenti dinamiche (anche in
reazione agli interventi umani), ma insufficiente per governarli, a maggior
ragione se ci si limita a vincoli e divieti.
Si veda ad esempio l’abbandono
delle coltivazioni marginali e l’avanzata dei boschi spontanei, che è
considerata benevolmente da alcuni autori, perché aumenta la “bio-potenzialità
complessiva” (compensando l’erosione che a loro volta gli insediamenti
esercitano sulla campagna) NOTA**, ma che a mio avviso37 (e per fortuna
anche ad avviso di altri) 37,38 conduce ad un impoverimento della
bio-diversità, delle identità locali, nonché della capacità alimentare dei
territori.
PIANO DEL PAESAGGIO DI
GOLASECCA (VA)
Figura 8 – “TENDENZE DI
TRASFORMAZIONE DEL PAESAGGIO” Lo schema evidenzia le principali estensioni
coltivate (contorno punteggiato in giallo) minacciate dalla pressione
insediativa e dall’espansione dei boschi spontanei.
Figura
11 – immagine tratta dal Piano del Paesaggio di Golasecca (VA) – 2009-2013, di
A.M. Vailati e A.Vecchi, nel Piano di
Governo del Territorio redatto con R. Ripamonti, A. Castiglioni, G. e L.
Francisco
Come insegna l’esperienza,
ormai lunga, dei territori classificati come “parchi naturali”, le norme calate
dall’alto non riescono a conservare gli equilibri ambientali, e tantomeno a
crearne di nuovi e migliori, se non si affiancano strumenti che coinvolgano
attivamente la popolazione (ed in primo luogo chi coltiva la terra) e se
nell’insieme non si configura una “base economica” che induca gli abitanti per
l’appunto ad abitare nei luoghi in esame (restare/tornare) ed eventualmente i
turisti ad affluire nella misura considerata sopportabile.
Tali strumenti, da mutuare
dalle migliori storie di gestione dei parchi, e da estendere a tutti i territori&paesaggi
da governare, vanno oltre l’armamentario abituale dei pianificatori e delle
amministrazioni locali (analisi, norme, indici quantitativi, sanzioni: gli
attrezzi per il governo dell’edilizia), ma purtroppo anche oltre le competenze
e le risorse dei poteri locali (per lo meno di quelli italiani): devono
includere interventi pubblici strategici, esempi virtuosi, incentivi e
disincentivi economici, nonché comunque e sempre una massiccia azione culturale
ed educativa.
Permangono inoltre sproporzioni
di scala tra la dimensione dei piani territoriali e paesaggistici (locali o
regionali) ed alcune variabili che hanno altri ordini di grandezza oppure
divergente logica intrinseca:
-
i mitici “mercati” finanziari, delle merci e
dei servizi, che iper-condizionano ogni schema locale, ancorché basato su una
intelligente valorizzazione delle risorse endogene;
-
il cambio climatico, nelle sue dinamiche
tendenziali (per l’Italia, ad esempio, siccità, tropicalizzazione, erosioni
costiere) ed anche nelle auspicabili politiche correttive (basti pensare ai bio-carburanti
oppure alla funzione dei vegetali nella cattura della CO2);
-
la reti infrastrutturali di rango
nazionale/continentale che – quand’anche si tratti di reti “verdi” (corridoi
ecologici) o reti “blu” (riassetto idrogeologico) progettati con criteri di
bio-ingegneria, ed a maggior ragione se invece consistono nelle tradizionali
vie di trasporto oppure energetiche, anche se soggette a Valutazione di Impatto
Ambientale - devono essere progettate
con logica unitaria e quindi faticano a
dialogare con i parametri locali;
-
le attività agro-forestali, che costituiscono
la materia prima del paesaggio non-costruito, ma non sono disciplinabili più di
tanto “per decreto”, bensì rispondono ad
impulsi socio-economici a vari livelli, dai diktat della grande
distribuzione dell’industria
agro-alimentare alle misure fiscali e
contributive nazionali ed europee (poco articolate sul territorio e
sconnesse dai piani locali), dall’evoluzione dei gusti agli sviluppi scientifici, nonché in ultima
analisi al sostrato antropologico dei soggetti che concretamente coltivano (non
solo imprese e vecchi e nuovi contadini, ma anche una quota di “dilettanti”
della popolazione locale). (Ad esempio, leggendo in questo sito lo stimolante
articolo di Marco Bertaglia39, ho provato ad ipotizzare quanto
radicalmente cambierebbe l’immagine dell’Italia senza terre arate e senza
risaie, perdendo i colori della “terra di Siena” e dei ”cieli di Lombardia”).
Con attenzione a quest’ultimo
aspetto, appare incredibile che i recenti e per altri versi apprezzabili “Stati
Generali del Paesaggio”, convocati dal Ministero dei Beni Culturali con il
concorso di autorevoli intellettuali (evento raro per questo ciclo di governi),
abbiano trascurato di coinvolgere e addirittura di invitare i rappresentanti
delle categorie professionali dell’agricoltura.
NOTA* nel periodo tra il 1988 e il 1991, le aree
urbane dismesse in alcune grandi realtà industriali italiane risultano essere:
Torino 3.696.000 mq, Milano 5.300.000 mq Sesto San Giovanni 2.000.000 mq,
Genova 4.000.000 mq, La Spezia 750.000 mq, Firenze 1.500.000 mq, Arezzo 550.000
mq, Terni 250.000 mq, Napoli 2.850.000 mq, Reggio Calabria 430.000 mq Fonte:
tesi di laurea magistrale presso il Politecnico di Milano di Deborah Napolitano
2014-2105, relatrice prof. Valeria Erba https://www.politesi.polimi.it/bitstream/10589/102847/1/2014_12_Napolitano.PDF
NOTA** tale ragionamento è
sviluppato ad esempio nel vigente Paino Regolatore di Arona (NO), redatto da
Pagliettini Associati, con la consulenza ambientale/forestale di Studio Silva
(Gazzola e Busti) www.comune.arona.no.it/prgc.html
NOTA*** per il Piano del
Paesaggio di Golasecca (VA) con Anna Maria Vailati avevo scritto nel 2009:
“Definire cosa sia un paesaggio, …,
è un compito complesso, sia perché i confini amministrativi definiti dall’uomo
non fermano la continuità dei fenomeni territoriali, sia perché ogni giorno, in
ogni momento, da sempre e per sempre cambia ciò che sta attorno a noi – la
stagione, l’ora, la luce, le condizioni meteo-climatiche, le attività di tutti
gli esseri viventi, la stessa crosta terrestre, il firmamento… – e perché i
nostri sensi percepiscono in modi che risultano diversi da quelli di altre
persone e variabili con il nostro divenire e ricordare.
Pertanto il paesaggio è definibile
solo con un approccio che colga le diversità e le trasformazioni, con analisi
volte a approfondire sistemi dinamici ed interrelati.
Nel campo delle discipline
scientifiche, in qualche misura sintetizzate dalle teorie della “ecologia del
paesaggio”, l’evoluzione dei sistemi territoriali, ambientali e paesaggistici è
interpretata come un insieme di processi che – interagendo - tendono a
convergere verso precari equilibri ecologici, in tali dinamiche, però, risulta
difficile inquadrare l’intervento umano.
Le scienze umane, nei vari
tentativi di razionalizzare la dialettica dei comportamenti dei soggetti
sociali nei confronti dell’ambiente e del paesaggio, pervengono a prendere atto
da un lato di una elevata antropizzazione del territorio operata “dall’uomo
come attore” e dall’altro di una artificializzazione spinta non solo degli
scenari paesaggistici fisici, ma dell’intero panorama culturale dell’uomo
contemporaneo, per il quale le immagini reali sono pervasivamente contaminate
ed esaltate dalle immagini virtuali.”
Figura 12: il paesaggio
delle Langhe in una interpretazione di Tullio Pericoli
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