“Una nuova storia dell’umanità” è il sottotitolo ed è l’ambizione del saggio “L’alba di tutto” di Graeber e Wengrow: con pretesa di ricavarne nuove prospettive di “libertà” antagonistiche ai moderni Stati. Stimolanti, a mio avviso, ma non pienamente convincenti.
Sommario:
-
premessa
-
il dispotismo
cerealicolo non era un passaggio obbligato
-
la variabilita’ delle
trasformazioni tra paleolitico e neolitico
-
le liberta’
fondamentali
PREMESSA
David
Graeber, antropologo americano di cui già ho recensito importanti testi sul
debito e sulla democrazia 1, è prematuramente scomparso nel 2020,
poco prima della pubblicazione del saggio “L’alba di tutto – una nuova storia
dell’umanità” 2, realizzato, nel corso di dieci anni di ricerche e
confronti, con l’archeologo inglese David Wengrow.
L’intreccio
delle rispettive competenze ha spinto i due autori a riscrivere ex-novo la “storia
dell’umanità”, soprattutto in contrapposizione allo schematismo delle
interpretazioni lineari sulla successione evolutiva dal periodo paleolitico dei
“cacciatori e raccoglitori” (secondo gli Autori anche “foraggiatori”) al
periodo neolitico degli allevatori e coltivatori, e quindi sulla ineluttabilità
del passaggio a società fortemente gerarchiche e centralizzate.
Tale
schematismo, secondo i due David, è ampiamente superato da gran parte delle
singole ricerche archeologiche (che si vanno estendendo a territori in
precedenza non esplorati) ed antropologiche (finalmente più libere dagli
stereotipi eurocentrici), ma la settorializzazione specialistica degli studiosi
accademici li inibisce dal trarne le conseguenze generali.
Le
vicende e le culture raccontate ne “L’alba di tutto” spaziano nei millenni e
nei continenti, con una particolare predilezione per le Americhe
pre-colombiane, spesso però per come sono state riferite dai coloni e in
particolare dai missionari gesuiti, di frequente scandalizzati dai costumi
indigeni, ma altrettanto curiosi e meticolosi nel riferire quanto tramandato
nelle memorie orali di quei popoli.
Il
tramite della ‘penna occidentale’ riguarda anche il ‘pezzo forte’ del testo di
Graeber&Wengrow , e cioè l’irridente confronto tra la ‘cultura francese’ e
quella ‘wendat’ del “filosofo-statista” Kondiaronk (capo indiano del nord-est, ribattezzato
letterariamente “Adario”), come narrata dall’esule ed ex–militare coloniale
francese Louis-Armand Lahontan all’inizio del ‘700: Graeber&Wengrow
comunque respingono il dubbio che nel “Dialogo curioso” tra Lahontan e Adario
prevalga il pensiero del francese e che l’attribuzione al ‘selvaggio’ delle
pesanti critiche all’ancien régime sia una opportunistica dissimulazione da
parte di Lahontan, come in altri testi dell’epoca (come le più famose “Lettere
persiane” di Montesquieu), ed anzi trasferiscono a Kondiaronk gran parte dei
meriti dell’illuminismo (con particolare accanimento verso Jean Jacques
Rousseau 3, bilanciato però da altrettanto accanimento verso Thomas
Hobbes).
LA VARIABILITA’ DELLE
TRASFORMAZIONI TRA PALEOLITICO E NEOLITICO
Nel
ricco campionario sulla pluralità dei percorsi millenari di trasformazione
delle culture e degli insediamenti pre-agricoli e/o protoagricoli (che non mi pare ragionevole riassumere
analiticamente, data l’estensione del testo), gli Autori sottolineano tra
l’altro:
-
l’abbondanza
di risorse ‘spontanee’ disponibili per alcune popolazioni antiche, che non
trova conferme per le poche tribù ‘selvagge’ sopravvissute ai nostri tempi (e
quindi esaminabili in diretta dagli antropologi), perché sospinte ai margini
dall’invadenza prima dei neolitici prevaricatori e poi dai ‘moderni’
colonizzatori;
-
la
fluidità stagionale dei ruoli sociali in molte popolazioni semi-nomadi, che
hanno centralizzazione e gerarchie per la stagione della caccia (o della
guerra) ed invece dispersione e assenza di capi nella stagione più stanziale;
-
la
differenziazione e talvolta la contrapposizione (ovvero “schismogenesi”) di
costumi e organizzazione sociale tra ‘tribù’ contigue nei territori (e quindi
nelle potenziali risorse) e di comune radice etnica: ad esempio dalla
California a Nord si affiancavano popolazioni schiaviste ad altre decisamente
anti-schiaviste (con in mezzo un gruppo semi-schiavista, un po’ pentito di
avere un tempo soggiogato schiavi di pelle chiara, e che perciò individuarono
nei feroci coloni bianchi il ritorno vendicativo delle loro antiche vittime…)
-
l’intreccio
tra ascendenze familiari dirette e appartenenze a ‘clan’ intertribali, tali da
consentire a singoli individui la migrazione protetta anche a lunghe distanze
ed a favorire matrimoni esogamici, superando confini linguistici ed etnici;
-
la
forte mobilità di singoli e gruppi, a scala continentale, connessa a motivi
ludici e/o rituali;
-
la
circolazione, anche a largo raggio, di oggetti di prestigio come “doni” (e non
come scambio monetario) e la loro accumulazione, spesso sepolta nelle tombe e
non ereditaria;
-
l’importanza
di volta in volta del gioco e/o dello sport, dei banchetti e delle
rappresentazioni teatrali, delle arti visive e delle accumulazioni dei suddetti
beni prestigiosi, degli scontri bellici e talora dei sacrifici umani, nella
formazione di èlites, spesso però non permanenti oppure sistematicamente
oggetto di scherno per limitarne il consolidamento come ‘potere politico’;
-
un
ruolo variabile delle donne, non sempre subalterne (in particolare vengono
rivalutate alcune scoperte di Maria Gimbutas [A] sulle società matriarcali,
pur circoscrivendole rispetto alle generalizzazioni imputate negli ultimi anni
a tale studiosa)
-
la
gerarchia delle sepolture, talora presente, ma spesso non corrispondente a
ruoli di potere, bensì a qualità sciamaniche di corpi particolari o deformi.
In
questi vari contesti sociali, l’agricoltura è spesso sperimentata, quasi ”per
gioco”, con diversi casi di abbandono e ritorno alle pratiche di caccia e
pesca, e raccolta di specie vegetali spontanee [B].
IL DISPOTISMO
CEREALICOLO NON ERA UN PASSAGGIO OBBLIGATO
Passando
alla preistoria neolitica-agricola e poi alle culture metalliche, i due Autori
tendono ad evidenziare, in diversi continenti, il passaggio attraverso fasi non
caratterizzate da una netta polarizzazione classista/autoritaria bensì dalla
compresenza di organizzazioni collettive con assetti sociali relativamente egualitari,
e talvolta con élites religiose prive di arricchimento ed accumulazione privata
ed ereditaria: sia nelle fasi nascenti di talune culture (ad esempio nella
Mesopotamia sumerica e pre-imperiale, nel Messico pre-Azteco, nell’area Andina
pre-Incas, nella valle dell’Indo) sia in fasi post-rivoluzionarie, finora
misconosciute come “periodi oscuri” o “ere intermedie”, come nell’Alto Egitto e
nella Cina urbana di Taosi.
Attraverso
tali esempi, i due David tendono
-
da
un lato ad evidenziare l’assenza di automatismi che colleghino le condizioni
ambientali, materiali e colturali a specifici assetti socio-politici (e nel
concreto a negare la coincidenza tra agricoltura cerealicola intensiva e
dispotismo schiavistico)
-
d’altro
lato a mettere in discussione il concetto di “stato”, che nella concezione
contemporanea tende a retrodatare ed a cristallizzare “ab aeternum” la
compresenza di tre elementi fondamentali, e cioè
o
il
“monopolio dell’uso legittimo della forza coercitiva”, entro dati confini
territoriali
o
la
pervasività delle strutture burocratiche (connesse alla appropriazione centralizzata
di informazioni e conoscenza)
o
la
legittimazione del potere tramite “carisma”.
Elementi
che invece, secondo gli Autori, nella lunga storia dell’umanità (ed anche nei
secoli appena trascorsi) sono talora presenti solo parzialmente, ovvero uno o
due di essi.
Prima
di arrivare alle conclusioni, l’Alba-di-Tutto si sofferma a lungo sulle
dinamiche insediative e socio-politiche del Nord America pre-colombiano, ed in
particolare:
-
sulla
cultura cerealicola e quasi-imperiale dei Cahokia nella valle del Mississippi,
caratterizzata da enormi costruzioni con valenze rituali e con
espansione/ripetizione ‘coloniale’ in territori limitrofi, il tutto però
concluso e abbandonato nell’arco di tre/quattro secoli dopo il mille d.C., probabilmente
per fughe liberatorie da parte dei sudditi e delle tribu’/clienti, tornate a
pratiche pre-agricole o proto-agricole semi-nomadi negli ampli territori
circostanti
-
sul
complesso equilibrio delle popolazioni proto-agricole e ‘repubblicane’ del
nord-est – tra cui il wendat Kondiaronk di cui sopra – popolazioni che hanno a
lungo convissuto con bassa conflittualità ai margini delle prime colonizzazioni
francesi e inglesi (prima del grande genocidio yankee), e contrassegnate da
elevata complessità istituzionale (regolata da minuziose tradizioni orali e da
una pratica di ampio confronto deliberativo), divisione del lavoro non
classista e solidale, moderata propensione alla guerra (non quindi comunque una società pacifica ed egualitaria).
LE LIBERTA’
FONDAMENTALI
Dal
raffronto tra queste due polarità etniche (che non si incontrarono, ma giunsero
a scambiarsi prodotti simbolici), quasi un ideale passaggio di testimone,
‘all’indietro’ secondo i consueti schemi evolutivi, ed invece ‘in avanti’ nella
lettura di Graeber e Wendrow, l’Alba-di-Tutto ricava una sorta di paradigma
libertario, cui dovrebbero essere sottoposti gli assetti sociali, per
interrogarli sul loro grado di accettabilità (che parrebbe accrescersi in un
assieme di comunità locali autogestite e rette da ‘democrazia deliberante’,
quella che cerca sempre l’unanimità e rifugge dalle votazioni a maggioranza [C]):
1
– “la libertà di allontanarsi dal proprio ambiente o di trasferirsi”
2
– “la libertà di ignorare gli ordini impartiti da altri o di disobbedire”
3
– “la libertà di plasmare realtà sociali inedite o di oscillare tra situazioni
diverse”.
Prima di commentare nel
merito le 3 singole libertà (e quindi l’assunto finale del testo), mi
permetterei di rilevare che – diversamente dalle tre caratteristiche dello
stato moderno, sopra esposte – questa triade non mi pare fondata su una
equivalente base scientifica, bensì solo sulle deduzioni da limitati esempi
storici, deduzioni controvertibili quanto le schematizzazioni contestate dagli
Autori stessi alle precedenti “storie dell’umanità” fondate su pregiudizi
“evolutivi”.
Quanto al merito delle
3 libertà, mi limiterei ad un paradossale constatazione: ammesso e non concesso
che costituiscano un paradigma di valutazione condivisibile (perché non invece
la triade “liberté, egalitè, fraternitè, con una fraternita estesa a tutti i
viventi?), a me sembra che - in un contesto planetario di 7 miliardi di uomini,
con quasi 200 stati “moderni” che includono il 90% dell’umanità, inquinando a
man bassa, a fronte di rispettabili ma sparute minoranze di “foraggiatori” - il massimo effettivo delle 3 libertà si possa
raggiungere dentro i meno peggiori tra gli stessi stati moderni (in Svezia ad
esempio), dove:
-
c’è libertà di
movimento a scala continentale (ed anche una moderata apertura alle
immigrazioni, in condizioni paritarie); mentre mancano oggi, comunque ed
ovunque, gli illimitati spazi delle praterie nordamericane prima di Colombo;
-
gli ordini cui obbedire
sono definiti da leggi, spesso impugnabili in giudizio di costituzionalità; è
talora riconosciuta l’obiezione di coscienza; le disobbedienze sono sanzionate
solo in parte e con pene miti e contestabili in un tribunale indipendente dal
governo;
-
plasmare realtà sociali
inedite (od oscillare ecc.) può comportare qualche rischio di repressione, ma
non è impedito alla radice; in particolare chi agisce per riconciliare l’uomo
con la biosfera (cosa di più “inedito”) può trovare ascolto (es. Greta
Thunberg) e forse anche speranza di successo, piegando allo scopo gli stessi
“stati moderni” (chi altrimenti? Le sole comunità locali? 5).
Poiché però non credo
che viviamo nel migliore dei mondi possibili, questo mio attacco frontale “per
paradosso” non esclude che la ricerca storica e la critica antropologica allo
“Stato” delle cose presenti possano apportare utili strumenti per modificare –
anche conflittualmente - le ingiustizie
della modernità, dalle strutture capitaliste ai condizionamenti ideologici/informativi,
dalla produzione energivora alla distruzione della biodiversità, dalla guerra alla
alienazione quotidiana: soprattutto dimostrando che non esiste a-priori una
sola soluzione possibile, e sperimentando “realtà sociali inedite” e comunità
locali alternative deliberanti, ove opportuno disobbedienti.
Confermando le mie
critiche alle precedenti opere di Graeber, dubito però che siano utili e
praticabili su larga scala formulette rituali del tipo:
-
‘fuga nomade’, che mi
ricordano l’irresponsabilità maschile/adolescenziale ed a-sociale della Beat
Generation più che non il matriarcato di Maria Gimbutas (vedi anche la mia
recensione critica a Maffesoli 6);
-
‘disobbedienza a
prescindere’, che apre ad un movimentismo senza un serio confronto sui fini (ad
esempio la salvezza ecologica dell’umanità oppure l’emancipazione delle masse
dallo sfruttamento capitalistico);
-
‘unanimità’, come unica
forma di tutela delle minoranze (cui resta in alternativa la fuga nomade?), escludendo
altre forme di dialettica democratica fondata sulla tolleranza del dissenso.
Formule che a mio avviso contraddicono la necessità
primaria della responsabilità sociale
e della solidarietà come base per
effettive alternative.
Un’altra critica, più
marginale, al libro di Graeber&Wendgrow, riguarda il modo sprezzante con
cui – soprattutto nella parte iniziale – vengono trattati i portatori di
diverse teorie, da Yuval Noah Harari a Jared
Diamond 7,8 (il quale per parte sua confessa apriori il proprio
“schematismo”), oppure quanti di recente si agitano contro le disuguaglianze[D],
tutti assimilati dagli Autori all’ipocrisia del Word Economic Forum di Davos,
che si occuperebbe solo di una cosmesi redistributiva; mentre solo
Graeber&Wengrow avrebbero capito che le differenze di reddito dipendono da
differenze di ruolo e potere ecc., dimenticando così un paio di secoli di
pensiero socialista e da ultimo trascurando il pensiero di Atkinson e Piketty 9,
che invece a mio parere ben connettono le proposte di pre-distribuzione e ri-distribuzione
con l’analisi dei meccanismi di dominio, di sfruttamento e di accumulazione.
Fonti:
1.
Aldo Vecchi – DEBITO
E DEMOCRAZIA SECONDO DAVID GRAEBER – su Utopia21, luglio 2018 - https://drive.google.com/file/d/17H_Bf-dfnpmq4_9i49pFXkJimBhx4AVJ/view?usp=sharing
2. David
Graeber e David Wengrow – L’ALBA DI TUTTO. UNA NUOVA STORIA DELL'UMANITÀ –
Rizzoli, Milano 2021
3. David
A. Bell - UNA STORIA DELL’UMANITÀ SCRITTA IN MANIERA IMPERFETTA – su Domani, 21
dicembre 2021 - https://www.editorialedomani.it/idee/david-graeber-david-wengrow-the-dawn-of-everything-libri-hq1sj7i
4. Aldo
Vecchi – AUTOCOSCIENZA DELL’ANTROPOCENE?
- su Utopia21, maggio 2021 - https://drive.google.com/file/d/1EuYTGH_NXnuDREbrHnAtrG3dI0YMktti/view?usp=sharing
5. Fulvio
Fagiani - LA GLOBALIZZAZIONE E IL LOCALE – NOTE SU ‘PRINCIPIO TERRITORIALE’ DI
ALBERTO MAGNAGHI – su Utopia21, marzo 2021 -
https://drive.google.com/file/d/1UZ3G8HpmYfkmB60RZ9owWH41juxDJGuW/view?usp=sharing
6. Aldo
Vecchi - IL NOMADISMO SECONDO MICHEL MAFFESOLI - http://aldomarcovecchi.blogspot.com/2014/10/il-nomadismo-secondo-michel-maffesoli.html
7. Aldo
Vecchi - "L’UOMO COME TERZO SCIMPANZÈ DI JARED DIAMOND” – su Utopia21,
maggio 2017 - https://drive.google.com/file/d/1cqpyaJluVHss_C_9pxT49M5lyzxf3vgp/view?usp=sharing
8. Aldo
Vecchi - “ARMI ACCIAIO E MALATTIE” DI JARED DIAMOND” - su Utopia21, maggio 2017
- https://drive.google.com/file/d/1zMxsJNyg9GTYyMPR0CnTBGpQzWkFPoui/view?usp=sharing
9. Aldo
Vecchi - PIKETTY RITORNA CON UNA BREVE STORIA DELL’UGUAGLIANZA – su Utopia21,
gennaio 2022 https://drive.google.com/file/d/1SiK8L0h64SYgiwNbwmxoeO72KD5ymzPf/view?usp=sharing
[A] (da Wikipedia) Marija Gimbutas
(Vilnius, 23 gennaio 1921 – Los Angeles, 2 febbraio 1994) è stata un'archeologa
e linguista lituana. Studiò le culture del neolitico e dell'età del bronzo
dell’Europa Antica, espressione da lei introdotta. I lavori pubblicati tra il
1946 e il 1971 introdussero nuovi punti di vista nell'ambito della linguistica
e dell'interpretazione della mitologia.
[B] Ciò smentisce una mia incauta e recente affermazione “non mi risultano
significative retrocessioni alle culture paleolitiche” 4. Se di
fronte agli esempi documentati da Graeber e Wengrow devo convenire che non vi
sia ineluttabilità evolutiva verso il neolitico/agrario, la svolta mi sembra
però confermata nei grandi numeri.
[C]
Una simile regola, nei racconti
raccolti dal solito religioso spagnolo e riportati da Graber&Wendrow,
vigeva nella popolazione dei Tlaxcala, che discussero a lungo se appoggiare
Cortes contro le prepotenze dell’impero azteco, favorevoli i giovani e contrari
i più saggi anziani: la mediazione unanime infine raggiunta fu quella di
ricorrere ad un espediente, ovvero invitare Cortes alla loro assemblea, ed ivi
cercare di farlo assassinare da minori alleati, ‘scaricabili’ in caso di
insuccesso, come poi avvenne. Ed avvenne quindi che Tlaxcala e alleati
sconfissero gli Atzechi insieme a Cortes, e subirono poi la feroce dominazione
spagnola nei secoli seguenti (festeggiando
così le conseguenze del machiavellico unanimismo)
[D]
Il disagio degli Autori rispetto
all’egualitarismo deriva forse dalla carenza di esempi positivi nella galassia
delle culture pre-agricole e post-agricole da loro valorizzate, in cui si
arriva alla mancanza di dispotismo e di schiavismo, e ad una attenuazione del
classismo, ma per lo più permangono altre differenze di condizione sociale, più
o meno ereditarie: un orizzonte più anti-autoritario che socialista.
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