sabato 28 maggio 2022

UTOPIA21- MAGGIO 2022: L’ALBA DI TUTTO, SECONDO GRAEBER E WENGROW

 

“Una nuova storia dell’umanità” è il sottotitolo ed è l’ambizione del saggio “L’alba di tutto” di Graeber e Wengrow: con pretesa di ricavarne nuove prospettive di “libertà” antagonistiche ai moderni Stati. Stimolanti, a mio avviso, ma non pienamente convincenti.

 

 

Sommario:

-       premessa

-       il dispotismo cerealicolo non era un passaggio obbligato

-       la variabilita’ delle trasformazioni tra paleolitico e neolitico

-       le liberta’ fondamentali

 

 

PREMESSA

 

David Graeber, antropologo americano di cui già ho recensito importanti testi sul debito e sulla democrazia 1, è prematuramente scomparso nel 2020, poco prima della pubblicazione del saggio “L’alba di tutto – una nuova storia dell’umanità” 2, realizzato, nel corso di dieci anni di ricerche e confronti, con l’archeologo inglese David Wengrow.

L’intreccio delle rispettive competenze ha spinto i due autori a riscrivere ex-novo la “storia dell’umanità”, soprattutto in contrapposizione allo schematismo delle interpretazioni lineari sulla successione evolutiva dal periodo paleolitico dei “cacciatori e raccoglitori” (secondo gli Autori anche “foraggiatori”) al periodo neolitico degli allevatori e coltivatori, e quindi sulla ineluttabilità del passaggio a società fortemente gerarchiche e centralizzate.

Tale schematismo, secondo i due David, è ampiamente superato da gran parte delle singole ricerche archeologiche (che si vanno estendendo a territori in precedenza non esplorati) ed antropologiche (finalmente più libere dagli stereotipi eurocentrici), ma la settorializzazione specialistica degli studiosi accademici li inibisce dal trarne le conseguenze generali.

 

Le vicende e le culture raccontate ne “L’alba di tutto” spaziano nei millenni e nei continenti, con una particolare predilezione per le Americhe pre-colombiane, spesso però per come sono state riferite dai coloni e in particolare dai missionari gesuiti, di frequente scandalizzati dai costumi indigeni, ma altrettanto curiosi e meticolosi nel riferire quanto tramandato nelle  memorie orali di quei popoli.

Il tramite della ‘penna occidentale’ riguarda anche il ‘pezzo forte’ del testo di Graeber&Wengrow , e cioè l’irridente confronto tra la ‘cultura francese’ e quella ‘wendat’ del “filosofo-statista” Kondiaronk (capo indiano del nord-est, ribattezzato letterariamente “Adario”), come narrata dall’esule ed ex–militare coloniale francese Louis-Armand Lahontan all’inizio del ‘700: Graeber&Wengrow comunque respingono il dubbio che nel “Dialogo curioso” tra Lahontan e Adario prevalga il pensiero del francese e che l’attribuzione al ‘selvaggio’ delle pesanti critiche all’ancien régime sia una opportunistica dissimulazione da parte di Lahontan, come in altri testi dell’epoca (come le più famose “Lettere persiane” di Montesquieu), ed anzi trasferiscono a Kondiaronk gran parte dei meriti dell’illuminismo (con particolare accanimento verso Jean Jacques Rousseau 3, bilanciato però da altrettanto accanimento verso Thomas Hobbes).

 

 

LA VARIABILITA’ DELLE TRASFORMAZIONI TRA PALEOLITICO E NEOLITICO

 

Nel ricco campionario sulla pluralità dei percorsi millenari di trasformazione delle culture e degli insediamenti pre-agricoli e/o protoagricoli (che non mi pare ragionevole riassumere analiticamente, data l’estensione del testo), gli Autori sottolineano tra l’altro:

-       l’abbondanza di risorse ‘spontanee’ disponibili per alcune popolazioni antiche, che non trova conferme per le poche tribù ‘selvagge’ sopravvissute ai nostri tempi (e quindi esaminabili in diretta dagli antropologi), perché sospinte ai margini dall’invadenza prima dei neolitici prevaricatori e poi dai ‘moderni’ colonizzatori;

-       la fluidità stagionale dei ruoli sociali in molte popolazioni semi-nomadi, che hanno centralizzazione e gerarchie per la stagione della caccia (o della guerra) ed invece dispersione e assenza di capi nella stagione più stanziale;

-       la differenziazione e talvolta la contrapposizione (ovvero “schismogenesi”) di costumi e organizzazione sociale tra ‘tribù’ contigue nei territori (e quindi nelle potenziali risorse) e di comune radice etnica: ad esempio dalla California a Nord si affiancavano popolazioni schiaviste ad altre decisamente anti-schiaviste (con in mezzo un gruppo semi-schiavista, un po’ pentito di avere un tempo soggiogato schiavi di pelle chiara, e che perciò individuarono nei feroci coloni bianchi il ritorno vendicativo delle loro antiche vittime…)

-       l’intreccio tra ascendenze familiari dirette e appartenenze a ‘clan’ intertribali, tali da consentire a singoli individui la migrazione protetta anche a lunghe distanze ed a favorire matrimoni esogamici, superando confini linguistici ed etnici;

-       la forte mobilità di singoli e gruppi, a scala continentale, connessa a motivi ludici e/o rituali;

-       la circolazione, anche a largo raggio, di oggetti di prestigio come “doni” (e non come scambio monetario) e la loro accumulazione, spesso sepolta nelle tombe e non ereditaria;

-       l’importanza di volta in volta del gioco e/o dello sport, dei banchetti e delle rappresentazioni teatrali, delle arti visive e delle accumulazioni dei suddetti beni prestigiosi, degli scontri bellici e talora dei sacrifici umani, nella formazione di èlites, spesso però non permanenti oppure sistematicamente oggetto di scherno per limitarne il consolidamento come ‘potere politico’;

-       un ruolo variabile delle donne, non sempre subalterne (in particolare vengono rivalutate alcune scoperte di Maria Gimbutas [A] sulle società matriarcali, pur circoscrivendole rispetto alle generalizzazioni imputate negli ultimi anni a tale studiosa)

-       la gerarchia delle sepolture, talora presente, ma spesso non corrispondente a ruoli di potere, bensì a qualità sciamaniche di corpi particolari o deformi.

In questi vari contesti sociali, l’agricoltura è spesso sperimentata, quasi ”per gioco”, con diversi casi di abbandono e ritorno alle pratiche di caccia e pesca, e raccolta di specie vegetali spontanee [B].

 

 

IL DISPOTISMO CEREALICOLO NON ERA UN PASSAGGIO OBBLIGATO

 

Passando alla preistoria neolitica-agricola e poi alle culture metalliche, i due Autori tendono ad evidenziare, in diversi continenti, il passaggio attraverso fasi non caratterizzate da una netta polarizzazione classista/autoritaria bensì dalla compresenza di organizzazioni collettive con assetti sociali relativamente egualitari, e talvolta con élites religiose prive di arricchimento ed accumulazione privata ed ereditaria: sia nelle fasi nascenti di talune culture (ad esempio nella Mesopotamia sumerica e pre-imperiale, nel Messico pre-Azteco, nell’area Andina pre-Incas, nella valle dell’Indo) sia in fasi post-rivoluzionarie, finora misconosciute come “periodi oscuri” o “ere intermedie”, come nell’Alto Egitto e nella Cina urbana di Taosi. 

 

Attraverso tali esempi, i due David tendono

-       da un lato ad evidenziare l’assenza di automatismi che colleghino le condizioni ambientali, materiali e colturali a specifici assetti socio-politici (e nel concreto a negare la coincidenza tra agricoltura cerealicola intensiva e dispotismo schiavistico)

-       d’altro lato a mettere in discussione il concetto di “stato”, che nella concezione contemporanea tende a retrodatare ed a cristallizzare “ab aeternum” la compresenza di tre elementi fondamentali, e cioè

o   il “monopolio dell’uso legittimo della forza coercitiva”, entro dati confini territoriali

o   la pervasività delle strutture burocratiche (connesse alla appropriazione centralizzata di informazioni e conoscenza)

o   la legittimazione del potere tramite “carisma”.

Elementi che invece, secondo gli Autori, nella lunga storia dell’umanità (ed anche nei secoli appena trascorsi) sono talora presenti solo parzialmente, ovvero uno o due di essi.

 

Prima di arrivare alle conclusioni, l’Alba-di-Tutto si sofferma a lungo sulle dinamiche insediative e socio-politiche del Nord America pre-colombiano, ed in particolare:

-       sulla cultura cerealicola e quasi-imperiale dei Cahokia nella valle del Mississippi, caratterizzata da enormi costruzioni con valenze rituali e con espansione/ripetizione ‘coloniale’ in territori limitrofi, il tutto però concluso e abbandonato nell’arco di tre/quattro secoli dopo il mille d.C., probabilmente per fughe liberatorie da parte dei sudditi e delle tribu’/clienti, tornate a pratiche pre-agricole o proto-agricole semi-nomadi negli ampli territori circostanti

-       sul complesso equilibrio delle popolazioni proto-agricole e ‘repubblicane’ del nord-est – tra cui il wendat Kondiaronk di cui sopra – popolazioni che hanno a lungo convissuto con bassa conflittualità ai margini delle prime colonizzazioni francesi e inglesi (prima del grande genocidio yankee), e contrassegnate da elevata complessità istituzionale (regolata da minuziose tradizioni orali e da una pratica di ampio confronto deliberativo), divisione del lavoro non classista e solidale, moderata propensione alla guerra (non quindi comunque una società pacifica ed egualitaria).

 

 

LE LIBERTA’ FONDAMENTALI

 

Dal raffronto tra queste due polarità etniche (che non si incontrarono, ma giunsero a scambiarsi prodotti simbolici), quasi un ideale passaggio di testimone, ‘all’indietro’ secondo i consueti schemi evolutivi, ed invece ‘in avanti’ nella lettura di Graeber e Wendrow, l’Alba-di-Tutto ricava una sorta di paradigma libertario, cui dovrebbero essere sottoposti gli assetti sociali, per interrogarli sul loro grado di accettabilità (che parrebbe accrescersi in un assieme di comunità locali autogestite e rette da ‘democrazia deliberante’, quella che cerca sempre l’unanimità e rifugge dalle votazioni a maggioranza [C]):

1 – “la libertà di allontanarsi dal proprio ambiente o di trasferirsi”

2 – “la libertà di ignorare gli ordini impartiti da altri o di disobbedire”

3 – “la libertà di plasmare realtà sociali inedite o di oscillare tra situazioni diverse”.

 

Prima di commentare nel merito le 3 singole libertà (e quindi l’assunto finale del testo), mi permetterei di rilevare che – diversamente dalle tre caratteristiche dello stato moderno, sopra esposte – questa triade non mi pare fondata su una equivalente base scientifica, bensì solo sulle deduzioni da limitati esempi storici, deduzioni controvertibili quanto le schematizzazioni contestate dagli Autori stessi alle precedenti “storie dell’umanità” fondate su pregiudizi “evolutivi”.

 

Quanto al merito delle 3 libertà, mi limiterei ad un paradossale constatazione: ammesso e non concesso che costituiscano un paradigma di valutazione condivisibile (perché non invece la triade “liberté, egalitè, fraternitè, con una fraternita estesa a tutti i viventi?), a me sembra che - in un contesto planetario di 7 miliardi di uomini, con quasi 200 stati “moderni” che includono il 90% dell’umanità, inquinando a man bassa, a fronte di rispettabili ma  sparute minoranze di “foraggiatori” -  il massimo effettivo delle 3 libertà si possa raggiungere dentro i meno peggiori tra gli stessi stati moderni (in Svezia ad esempio), dove:

-       c’è libertà di movimento a scala continentale (ed anche una moderata apertura alle immigrazioni, in condizioni paritarie); mentre mancano oggi, comunque ed ovunque, gli illimitati spazi delle praterie nordamericane prima di Colombo;

-       gli ordini cui obbedire sono definiti da leggi, spesso impugnabili in giudizio di costituzionalità; è talora riconosciuta l’obiezione di coscienza; le disobbedienze sono sanzionate solo in parte e con pene miti e contestabili in un tribunale indipendente dal governo;

-       plasmare realtà sociali inedite (od oscillare ecc.) può comportare qualche rischio di repressione, ma non è impedito alla radice; in particolare chi agisce per riconciliare l’uomo con la biosfera (cosa di più “inedito”) può trovare ascolto (es. Greta Thunberg) e forse anche speranza di successo, piegando allo scopo gli stessi “stati moderni” (chi altrimenti? Le sole comunità locali? 5).

 

Poiché però non credo che viviamo nel migliore dei mondi possibili, questo mio attacco frontale “per paradosso” non esclude che la ricerca storica e la critica antropologica allo “Stato” delle cose presenti possano apportare utili strumenti per modificare – anche conflittualmente -  le ingiustizie della modernità, dalle strutture capitaliste ai condizionamenti ideologici/informativi, dalla produzione energivora alla distruzione della biodiversità, dalla guerra alla alienazione quotidiana: soprattutto dimostrando che non esiste a-priori una sola soluzione possibile, e sperimentando “realtà sociali inedite” e comunità locali alternative deliberanti, ove opportuno disobbedienti.

Confermando le mie critiche alle precedenti opere di Graeber, dubito però che siano utili e praticabili su larga scala formulette rituali del tipo:

-       ‘fuga nomade’, che mi ricordano l’irresponsabilità maschile/adolescenziale ed a-sociale della Beat Generation più che non il matriarcato di Maria Gimbutas (vedi anche la mia recensione critica a Maffesoli 6);

-       ‘disobbedienza a prescindere’, che apre ad un movimentismo senza un serio confronto sui fini (ad esempio la salvezza ecologica dell’umanità oppure l’emancipazione delle masse dallo sfruttamento capitalistico);

-       ‘unanimità’, come unica forma di tutela delle minoranze (cui resta in alternativa la fuga nomade?), escludendo altre forme di dialettica democratica fondata sulla tolleranza del dissenso.

Formule che a mio avviso contraddicono la necessità primaria della responsabilità sociale e della solidarietà come base per effettive alternative.

 

Un’altra critica, più marginale, al libro di Graeber&Wendgrow, riguarda il modo sprezzante con cui – soprattutto nella parte iniziale – vengono trattati i portatori di diverse teorie, da  Yuval Noah Harari a Jared Diamond 7,8 (il quale per parte sua confessa apriori il proprio “schematismo”), oppure quanti di recente si agitano contro le disuguaglianze[D], tutti assimilati dagli Autori all’ipocrisia del Word Economic Forum di Davos, che si occuperebbe solo di una cosmesi redistributiva; mentre solo Graeber&Wengrow avrebbero capito che le differenze di reddito dipendono da differenze di ruolo e potere ecc., dimenticando così un paio di secoli di pensiero socialista e da ultimo trascurando il pensiero di Atkinson e Piketty 9, che invece a mio parere ben connettono le proposte di pre-distribuzione e ri-distribuzione con l’analisi dei meccanismi di dominio, di sfruttamento e di accumulazione.

 aldovecchi@hotmail.it

 

Fonti:

1.    Aldo Vecchi  – DEBITO E DEMOCRAZIA SECONDO DAVID GRAEBER – su Utopia21, luglio 2018 - https://drive.google.com/file/d/17H_Bf-dfnpmq4_9i49pFXkJimBhx4AVJ/view?usp=sharing

2.    David Graeber e David Wengrow – L’ALBA DI TUTTO. UNA NUOVA STORIA DELL'UMANITÀ – Rizzoli, Milano 2021

3.    David A. Bell - UNA STORIA DELL’UMANITÀ SCRITTA IN MANIERA IMPERFETTA – su Domani, 21 dicembre 2021 - https://www.editorialedomani.it/idee/david-graeber-david-wengrow-the-dawn-of-everything-libri-hq1sj7i

4.    Aldo Vecchi – AUTOCOSCIENZA DELL’ANTROPOCENE?  - su Utopia21, maggio 2021 - https://drive.google.com/file/d/1EuYTGH_NXnuDREbrHnAtrG3dI0YMktti/view?usp=sharing

5.    Fulvio Fagiani - LA GLOBALIZZAZIONE E IL LOCALE – NOTE SU ‘PRINCIPIO TERRITORIALE’ DI ALBERTO MAGNAGHI – su Utopia21, marzo 2021 -

https://drive.google.com/file/d/1UZ3G8HpmYfkmB60RZ9owWH41juxDJGuW/view?usp=sharing

6.    Aldo Vecchi - IL NOMADISMO SECONDO MICHEL MAFFESOLI - http://aldomarcovecchi.blogspot.com/2014/10/il-nomadismo-secondo-michel-maffesoli.html

7.    Aldo Vecchi - "L’UOMO COME TERZO SCIMPANZÈ DI JARED DIAMOND” – su Utopia21, maggio 2017 - https://drive.google.com/file/d/1cqpyaJluVHss_C_9pxT49M5lyzxf3vgp/view?usp=sharing

8.    Aldo Vecchi - “ARMI ACCIAIO E MALATTIE” DI JARED DIAMOND” - su Utopia21, maggio 2017 - https://drive.google.com/file/d/1zMxsJNyg9GTYyMPR0CnTBGpQzWkFPoui/view?usp=sharing

9.    Aldo Vecchi - PIKETTY RITORNA CON UNA BREVE STORIA DELL’UGUAGLIANZA – su Utopia21, gennaio 2022 https://drive.google.com/file/d/1SiK8L0h64SYgiwNbwmxoeO72KD5ymzPf/view?usp=sharing

 



[A] (da Wikipedia) Marija Gimbutas (Vilnius, 23 gennaio 1921 – Los Angeles, 2 febbraio 1994) è stata un'archeologa e linguista lituana. Studiò le culture del neolitico e dell'età del bronzo dell’Europa Antica, espressione da lei introdotta. I lavori pubblicati tra il 1946 e il 1971 introdussero nuovi punti di vista nell'ambito della linguistica e dell'interpretazione della mitologia.

[B] Ciò smentisce una mia incauta e recente affermazione “non mi risultano significative retrocessioni alle culture paleolitiche” 4. Se di fronte agli esempi documentati da Graeber e Wengrow devo convenire che non vi sia ineluttabilità evolutiva verso il neolitico/agrario, la svolta mi sembra però confermata nei grandi numeri.

 

[C] Una simile regola, nei racconti raccolti dal solito religioso spagnolo e riportati da Graber&Wendrow, vigeva nella popolazione dei Tlaxcala, che discussero a lungo se appoggiare Cortes contro le prepotenze dell’impero azteco, favorevoli i giovani e contrari i più saggi anziani: la mediazione unanime infine raggiunta fu quella di ricorrere ad un espediente, ovvero invitare Cortes alla loro assemblea, ed ivi cercare di farlo assassinare da minori alleati, ‘scaricabili’ in caso di insuccesso, come poi avvenne. Ed avvenne quindi che Tlaxcala e alleati sconfissero gli Atzechi insieme a Cortes, e subirono poi la feroce dominazione spagnola nei secoli seguenti (festeggiando così le conseguenze del machiavellico unanimismo)

[D] Il disagio degli Autori rispetto all’egualitarismo deriva forse dalla carenza di esempi positivi nella galassia delle culture pre-agricole e post-agricole da loro valorizzate, in cui si arriva alla mancanza di dispotismo e di schiavismo, e ad una attenuazione del classismo, ma per lo più permangono altre differenze di condizione sociale, più o meno ereditarie: un orizzonte più anti-autoritario che socialista.

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