PANDEMIA, GUERRA (E CLIMA) RIPORTANO IN AGENDA IL DILEMMA
VITA/MORTE
di Anna
Maria Vailati e Aldo Vecchi
Le questioni di vita o di
morte inerenti alla Pandemia e alla guerra (ora forse anche al clima) emergono non
solo nelle percezioni psicologiche personali, ma nel mezzo del dibattito
pubblico, a fianco dei consueti od aggiornati temi di confronto sul benessere
sociale
Negli
ultimi decenni (due o tre), dimenticata la ‘guerra fredda’ e connesse minacce
nucleari e sopito il terrorismo nostrano (sia politico che mafioso, e mancando
per fortuna in Italia attentati di stampo jihadista), ci sembra di poter affermare
che il dilemma vita/morte si era allontanato dal dibattito politico italiano e
dallo ‘spazio pubblico’, rimanendo confinato e rimosso nella sfera privata e
incontrandone la intrinseca ‘sacralità’ in riti religiosi di limitata
socializzazione: in un contesto di progressiva secolarizzazione della società
italiana, che pur rimanendo in gran misura credente e cattolica, di fatto vede
diminuire nettamente la partecipazione alla messa domenicale e l’opzione per il
matrimonio religioso (ma non così per il funerale).
La
suddetta ‘privatizzazione’ del dilemma vita morte, nel periodo in esame, si
presenta comunque come fenomeno contradditorio, che ha convissuto con
importanti eccezioni, quali:
-
il senzazionalismo mediatico su numerosi delitti o sparizioni (si pensi al
successo di “Chi l’ha visto?”), che per lo più però rassicurano sulla ‘restante
normalità’ delle normali esistenze,
-
la partecipazione, con i frequenti applausi, ai “funerali di vittime”, che però
erano per lo più vittime di fatalità oppure di violenza “privata” (fatalità e
violenza talora non prive di cause o premesse ‘politiche’, dalle alluvioni ai terremoti,
dai morti sul lavoro ai femminicidi),
-
i casi più eclatanti di annegamento di migranti nel Canale di Sicilia (o di
asfissia nei TIR dai Balcani), di fatto però per lo più considerati come ‘esterni’
alla coscienza nazionale,
-
il conflitto giuridico-culturale sul fine-vita (da Eluana Englaro a Piergiorgio
Welby, da Dj Fabo a ‘Mario’).
Da
notare in proposito il paradosso della non cercata pubblicità dei propri casi
da parte degli interessati, che diviene necessaria per rivendicare tali nuovi
elementari diritti, di fronte non solo alle forze dichiaratamente ostili, ma
anche ad una opinione pubblica prevalentemente sorda (perché preferisce
ignorare lo scoglio) e che pare affezionata al silenzio ovattato del sistema
vigente, dove un potere paternalista elargisce talora come concessioni ciò che
nega come diritti (il medico pietoso, il confessore misericordioso, gli
inquirenti distratti…); come per altre questioni bio-etiche (aborto, LGBT+),
solo la conquista stabile di ragionevoli diritti consentirà al dolore di chi
soffre il ritorno alla dimensione privata.
Un
quadro complesso che consentiva comunque all’opinione pubblica, al di fuori di
queste eccezioni (o anche grazie alla loro stessa eccezionalità), di
esorcizzare il tema vita/morte, lasciandolo marginale rispetto alle altre
preoccupazioni e distrazioni dominanti.
Per
cui lo spazio del dibattito pubblico e politico era rimasto invece in
prevalenza polarizzato sul divario felicità/infelicità, da misurare con il PIL
o con il BES, seguendo i pifferai magici dell’edonismo televisivo e
dell’imprenditoria vincente o del localismo e/o sovranismo xenofobo, o
viceversa le promesse del riformismo europeista (centro-sinistra); con la
variante effimera (almeno così oggi appare) del populismo tecnocratico del
Movimento 5 stelle: questioni di tasse e di redditi, di migrazioni e di lavoro,
di irrisolte riforme istituzionali e di modalità della democrazia, di
riconoscimento o non riconoscimento dei diritti di alcune minoranze; anche se
la propaganda securitaria del centro-destra, enfatizzando casi di criminalità
di matrice ‘extra-comunitaria’ (di fatto per lo più micro-crimini contro il
patrimonio), ha talvolta inserito la paura dello stupratore/assassino
(immigrato) nell’agenda mediatica e politica (Roma 2008 e 2018, Macerata 2018).
In
tale quadro, ad esempio, le questioni sanitarie figuravano in prevalenza come
specificazioni degli scontri tra pubblico e privato, tra statale e regionale,
tra buongoverno e sprechi clientelari (di cui gli episodi di malasanità
apparivano come un evitabile sottoprodotto locale): l’adeguamento dei Livelli
Essenziali di Assistenza non appassionava l’opinione pubblica e nessuno
chiedeva se erano aggiornati i piani anti-epidemici.
Ed
anche i problemi ambientali erano vissuti – parliamo sempre di dibattito sulla
scena pubblica, ad esempio sui media generalisti e nei programmi elettorali,
nazionali o locali –soprattutto come variabili del benessere/malessere (nonché,
sempre, delle politiche di bilancio): gli inquinamenti, le modalità di
smaltimento dei rifiuti, la tutela di flora e fauna e del paesaggio.
In
precedenti articoli abbiamo già rilevato (come d’altronde numerosi
commentatori) il devastante irrompere nella nostra psiche della Pandemia
Covid-19 (e connessi collassi del sistema sanitario ‘ordinario’) e poi anche
della guerra in Ucraina: guerra che viviamo più da presso di altre guerre
fisicamente più o meno lontane (Libia, Medio Oriente), non solo per i
coinvolgimenti politici filo-ucraini e per i concreti risvolti socioeconomici
(energia, inflazione, crisi settoriali), ma anche per la similitudine nei modi
di vita urbani e per il frequente intreccio delle famiglie italiane con le
‘badanti’ da là immigrate, tutti motivi che giustificano la fitta copertura
mediatica, che a sua volta esalta gli altri suddetti fattori di attenzione.
Guerra che inoltre evoca concreti pericoli di allargamento, con il
coinvolgimento diretto della NATO (e quindi anche dell’Italia), e addirittura
minacce di impiego di armi nucleari; si tratta di armi di cui quasi nessuno ha
ipotizzato l’uso esclusivamente tattico e locale, per cui si passa in breve a
parlare anche di ritorno al rischio di una catastrofe bellica a scala mondiale.
A
fianco di queste angosce, anche i temi ambientali, forse grazie al successo
relativo conseguito dalle Conferenze di Parigi (2015) e di Glasgow (2021) e dai
movimenti come i Fridays For Future, e di fronte alle crescenti evidenze del
malessere climatico (ultima la siccità), stanno assumendo una maggior
drammatizzazione e delineano non più solo aspetti di ‘qualità della vita’, ma
addirittura di sopravvivenza dell’intera specie umana nel giro di qualche
decennio, e già ora di concreto rischio di morte per fattori climatici e/o
mancanza di cibo (in altri continenti) o per eventi atmosferici estremi (anche
dalle nostre parti).
(VEDI SU
Questo insieme di scenari collettivi e di tensioni individuali – pur spingendo spesso alla ‘rimozione forzata’, come mostra il vitalismo del ritorno alle vacanze, ai grandi concerti, alle sagre, ai Saloni e Fuori-Saloni (anche se si sente, al fondo, che ‘non siamo più quelli di prima’) – a nostro avviso fa emergere, non solo nelle percezioni psicologiche personali, ma nel mezzo del dibattito pubblico, a fianco dei consueti od aggiornati temi di confronto su felicità/infelicità, anche alcune pre-condizioni relative al binomio vita/morte cioè alla stessa sopravvivenza (individuale e collettiva): pre-condizioni più larvate sul fronte ambiente/clima:
-
dalle
residue misure di contenimento anti-pandemico alle contrastate campagne
vaccinali, fino alle code ed ai ritardi (talora esiziali) nella cura delle
altre patologie,
-
dal
no all’esportazione di armi ai timori di un inverno senza riscaldamento, fino
alla paura di una guerra diretta anche per gli italiani.
Quanto
sopra non si ricompone in un nuovo quadro coerente di priorità (con possibili
slogan semplificativi, tipo “pace, terra, pane” di Leniniana memoria), bensì
delinea un inviluppo di contraddizioni, che si apre a pulsioni divergenti e
talora radicalmente alternative, come ad esempio:
-
riaprire
le centrali a carbone oppure all’opposto accelerare con le fonti energetiche
rinnovabili,
-
spingere
gli ucraini ad arrendersi oppure insistere per una pace giusta,
-
chiudersi
nell’egoismo nazionale o stringersi nella solidarietà atlantica, oppure ancora
adoprarsi per una effettiva Federazione Europea (anche più autonoma dagli USA).
A
livello individuale si rischia di smarrirsi a fronte di un universo così
caotico, si fatica a cogliere con lucidità le ‘poste’ in gioco, che intersecano
sopravvivenza e benessere. Tuttavia non disperiamo che sia possibile dipanare
le complessità, cercare percorsi collettivi di salvezza, utilizzare anche il
filo dell’utopia per ricucire orizzonti di senso.
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