MANZINI: PROSSIMITA’ E CURA
PER LA CITTA’ DELLE DISTANZE
di Aldo
Vecchi
Il testo di Ezio Manzini “Abitare la prossimità – idee per la città
dei 15 minuti” unisce il rigore teorico con la esemplificazione pratica della
“innovazione sociale”: ma solleva grandi interrogativi (non solo miei)
Sommario:
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i contenuti del libro
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il dibattito alla “Casa della Cultura” di Milano
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alcune mie ulteriori
annotazioni
I CONTENUTI DEL LIBRO
Il
testo di Ezio Manzini 1, semplice ma profondo, si incontra con il
dibattito in corso sulla “città dei 15 minuti”, ma ‘venendo da lontano e
guardando lontano’.
Il
peculiare percorso dell’Autore, ingegnere e architetto, docente (emerito) al
Politecnico di Milano ed altrove, che – partendo dalla tecnologia dei materiali
– ha attraversato il disegno industriale, indagandone la sostenibilità
ambientale ed approdando al “design dei servizi” ed al dialogo con le comunità
innovative, può aiutare a spiegare il punto di vista ‘rifondativo’ con cui
affronta i temi della città contemporanea, pur nutrendosi debitamente della
bibliografia disciplinare di sociologi ed urbanisti.
Il
testo procede in parallelo su due binari:
-
da
un lato una analisi - di rigore ‘cartesiano’ - sui concetti generali di
“prossimità”, “funzionale” e “relazionale” (geografica, sociale, cognitiva,
organizzativa, istituzionale), e di “cura”, sanitaria e sociale, sullo sfondo
degli spazi urbani contemporanei ed anche delle comunicazioni virtuali (queste
poi approfondite in un “box” ed in un capitolo autonomo di Ivana Pais, che
mette in luce le ambiguità relative alle ‘piattaforme’ telematiche);
-
d’altro
lato la concretezza di esempi specifici di riqualificazione dei servizi e delle
relazioni umane a scala locale, tra Barcellona e Milano, tra Parigi e
l’Inghilterra (Southwark), formalizzate come “schede” (di cui due firmate da
altri autori): esempi che sorreggono, sottraendola all’utopia, una proposta
finale di metodo, “progettare in prossimità e per la prossimità”, da applicare
sia agli spazi fisici – a partire dagli spazi collettivi – sia alle relazioni
interpersonali e sociali.
Riassumo
brevemente alcuni caratteri di tali esperienze di “innovazione sociale” assunte
da Manzini come emblematiche:
-
le
“Superilles” di Barcellona consistono innanzitutto in una riorganizzazione del
traffico veicolare, aggregando a 9 a 9 gli isolati del ‘Plan Cerda’ e facendo
scorrere solo all’esterno i percorsi a lunga distanza; con partecipazione
popolare sul riuso degli spazi stradali ‘liberati’ dalle auto; e come base
fisica per un decentramento sistematico dei servizi urbani e sociali
(affiancati anche dai “Radars”, volontari di riferimento assistenziale);
-
Parigi
tenta, in una situazione assai più complessa, di radicare lo slogan dei “15
minuti” in nuove istituzioni locali, tra cui le ‘portinerie di vicinato’ e i
cortili delle scuole aperte al quartiere;
-
“Circle”
di Southwark è una rete di assistenza per anziani e persone sole fondata sulla
cooperazione, fallita e poi rifondata con un maggior sostegno pubblico;
abbastanza simile è l’esperienza milanese di WeMi, che – con il sostegno di una
fondazione bancaria - tende a intrecciare i servizi telematici civici con una
rete di presidi decentrati (esercizi commerciali e/o sedi di associazioni)
-
“NoLo”,
ovvero Nord Loreto, è un insieme di iniziative locali, stratificate a partire
da una banale “pagina di Facebook”, per cercare una nuova identità solidale in
un quartiere milanese come via Padova e dintorni, prossimo alle aree centrali,
ma stigmatizzato come difficile per la sua eterogeneità multi-etnica;
-
Fondazione
Housing Sociale, sempre a Milano, e sempre con sostengo da fondazioni bancarie,
precostituisce in modalità virtuale legami orizzontali tra inquilini ed
assegnatari di un intervento di edilizia residenziale fin da prima della fase
di cantiere (imitata in questo anche da una società immobiliare privata: con
successo anche nella crescita dei prezzi…).
L’assunto
di fondo di Manzini è che:
-
la
razionalità economicista della modernità, puntando su economie di scala e
grandi strutture monofunzionali, ha prodotto la “città delle distanze”, che
l’utente deve continuamente e nevroticamente percorrere per ricucire i separati
brandelli della propria vita (lavoro, istruzione, riposo, cura, svago); processo
che nel contempo ha inevitabilmente sventrato i vecchi equilibri delle
prossimità locali (borghi, quartieri);
-
l’innovazione
telematica (spinta dalla recente esperienza pandemica) tende a superare in
parte tali separazioni, proponendo uno schema “tutto a casa e da casa”,
una “non-città” in cui
il singolo individuo nella sua singola cella abitativa fornisce lavoro e
acquista merci e servizi (facendo correre i dati sulle reti ed i corrieri ed i rider
sulle strade); assimilando a questo schema anche i servizi pubblici,
impersonali e lontani; il tutto accelerato nell’esperienza pandemica;
-
l’alternativa
possibile è una nuova “città delle prossimità”, dove si ricostruiscano a scala
locale le relazioni necessarie a soddisfare i bisogni di cura ed utili per migliorare
la qualità della vita, utilizzando a tal fine anche gli strumenti informatici e
le ‘piattaforme’; mentre “non si può tornare indietro” alla vecchia prossimità.
Il
terreno di scontro tra tali scenari divergenti è attraversato da altre polarità
concettuali, non solo di tipo ‘spaziale’, tra locale e globale, tra reti brevi
e reti lunghe, tra decentramento e concentrazione, ma anche relative ai
soggetti sociali e alle loro organizzazioni, tra ‘comunità’ e ‘società’, tra
‘beni comuni’ e ‘beni pubblici’, tra iniziative ‘dal basso’ e programmazione
‘dall’alto’.
In
particolare l’Autore è interessato al difficile passaggio tra la fase nascente
delle nuove forme di iniziativa sociale, fondata sulla generosità dei
volontari, e la loro possibile ‘istituzionalizzazione’, necessaria per la
sopravvivenza organizzativa, a fronte del variabile ricambio delle persone
disponibili.
IL DIBATTITO ALLA “CASA
DELLA CULTURA” DI MILANO
Il
testo di Manzini è stato scelto dal professor Riboldazzi per il primo dibattito
della stagione 2022 di “Città Bene Comune”, alla Casa della Cultura di Milano,
ed è stato sottoposto ad un attento esame, già nella presentazione scritta del
suddetto Curatore, sia dai tre “discussant” invitati, gli urbanisti Alessandro
Balducci e Maurizio Tira, e la sociologa Sonia Stefanizzi.2,3
Trascurando
qui gli elogi (che poco aggiungono a
quanto da me già esposto) riepilogherei come segue, nell’insieme, le
principali critiche emerse (senza
scendere nei dettagli, perché il testo introduttivo di Riboldazzi e l’intera
video-registrazione del dibattito sono disponibili on-line):
-
sopravvalutazione
delle ‘situazioni di nicchia’ positive in un contesto strutturalmente tendente
all’atomizzazione sociale e alla formazione sì di nuove comunità, ma chiuse ed
identitarie, e spesso conflittuali,
-
rischio
di coprire con la cooperazione volontaria, ma non per tutti, i vuoti del
welfare pubblico, che invece devono comunque garantire universalmente i diritti
ai vari servizi; e nel contempo sottovalutazione di quanto di buono possono
fare i pubblici poteri;
-
rischio
di favorire, in caso di successo delle comunità solidali, effetti indesiderati
sia di esclusione sociale sia di “gentrification”, con aumento dei valori
immobiliari ed espulsione dei soggetti meno abbienti,
-
più
in generale la schematicità delle ipotesi di nuove prossimità locali (’15
minuti’) nella complessità dei territori metropolitani (a partire dalle reti
della mobilità).
Il
dibattito del 3 maggio – con il ritorno dei relatori e del pubblico ‘in
presenza’ – ha registrato anche alcuni interventi degli astanti, tra cui mi è sembrato acuto quello di Arturo
Lanzani, che ha rilevato come alla retorica dei ’15 minuti’ corrisponda una
reale priorità degli investimenti per la mobilità collettiva che privilegia
invece i collegamenti veloci tra le diverse aree metropolitane, configurando un
ben diverso assetto delle relazioni ‘urbane’.
Il
professor Manzini ha validamente replicato, assumendo come valide tutte le
critiche, ma rivendicando la positività della ricerca dei nuclei di socialità
alternativa, come fondamentale possibile base per modificare le tendenze maggioritarie
in atto, facendosi carico di tutti i rischi segnalati; e soprattutto rifiutando
qualunque logica “peggiorista”, quando risulti possibile conseguire
miglioramenti anche solo parziali e locali.
ALCUNE MIE ULTERIORI ANNOTAZIONI
Condividendo (con lo
stesso Manzini, d’altronde, a quanto risulta dal dibattito) gran parte delle
critiche sopra riassunte, mi permetto di specificare alcuni ulteriori rilievi:
-
nella trattazione a
tutto tondo della “prossimità” non figura alcun cenno al concetto cristiano di
“prossimo”, recentemente rinverdito con efficacia da Papa Francesco, che ha
posto la parabola del Buon Samaritano a fondamento della sua enciclica
“Fratelli tutti”: pur constatando la prevalente secolarizzazione della società
italiana, soprattutto nelle grandi città, mi sembra però che il retaggio
antropologico della cultura cristiana sia un fenomeno non trascurabile, anche
da un’angolatura laica e che nei quartieri (ed a maggior ragione nei centri
minori delle provincie) meriti di essere indagato quanto la dimensione
religiosa (e concretamente gli oratori,
l’associazionismo, le attività caritative) costituisca tuttora elemento di
socializzazione, ed in particolare come e quanto – in relazione ai messaggi di ritorno
al vangelo da parte di Papa Bergoglio – tali esperienze si connotino come
inclusive di quei “prossimi” un po’ remoti (come il Samaritano), perché
separati dagli steccati confessionali (islamici in primis) e/o dagli stigmi
sociali (gli “ultimi” di vario tipo); studiando nel contempo il comportamento
(identitario od inclusivo) delle comunità religiose ed etniche estranee al
tradizionale tessuto sociale ‘italico-post-cristiano’;
-
nel testo si afferma
più volte che “non si può tornare indietro” rispetto agli antichi assetti della
prossimità di vicinato, ma non viene mai approfondito il ‘perché’, cui
accennano invece gli altri partecipanti al dibattito, con Riboldazzi che
sostiene (riferendosi anche alle nuove comunità): “Le comunità
circoscritte, quelle dove tutti si conoscono, dove c’è chi si accorge di te,
dei tuoi bisogni, o quelle dove, --- sono anche quelle dove il controllo
sociale è più facile. Dove l’autodeterminazione e le libertà individuali sono
maggiormente condizionabili, comprimibili.” A mio avviso questa
riflessione è importante, perché a sconvolgere il vecchio modo di vivere (dove
pure le condizioni di lavoro imponevano pesanti movimenti di pendolarità o di
‘transumanza’) non è stata solo la meccanizzazione dei trasporti ed in
particolare la motorizzazione privata, ma anche fenomeni, molecolari e nel
contempo di massa, sia di ricerca di nuove forme di benessere, sia di rifiuto
degli angusti confini del ‘controllo sociale’, tipici dei paesi, ma anche dei
quartieri periferici più coesi; il che costituisce una base materiale del
liberismo, ma non esclude la ricerca di nuove socialità: ben conoscendo però le
pulsioni soggettive che sono in gioco;
-
un’altra affermazione
indimostrata, a fianco del condivisibile giudizio che le forme di assistenza
umanizzate e personalizzate (meglio ancora se responsabilizzanti in ambiti di
cooperazione) sono nettamente migliori
di quelle burocratiche e impersonali, è che le tendenze demografiche e
socio-economiche rendano comunque impossibile un welfare capillare ed
universale a carico della spesa pubblica (come invece rivendicato da
Riboldazzi): a fronte di oggettive e crescenti difficoltà, a mio avviso invece
occorre considerare, con le reciproche interferenze:
o
la possibile inversione
di tendenza sulla natalità, già sperimentata da altre nazioni europee, da
combinare con una più saggia gestione delle immigrazioni,
o
il possibile
capovolgimento delle politiche fiscali (vedi le proposte di Atkinson, Piketty,
Oxfam e Forum Disuguaglianze 4), purtroppo non ancora
ri-sperimentate dopo il ‘trentennio glorioso’ 1945-1975,
o
la necessaria e
possibile flessibilità delle età lavorative (congedi genitoriali, educazione
permanente, vecchiaia più attiva) connessa allo spostamento progressivo del
lavoro dalle attività di produzione di
merci e servizi commerciali (ove subentra pesantemente l’automazione)
alle attività di servizio alle persone (dove l’automazione è più difficile e
meno gradita dagli utenti); il che può incontrarsi con lo sviluppo del ‘terzo
settore’ (perché mi sembra meglio retribuire volontari motivati, magari già
‘ritirati dal lavoro’, che non assistere con sussidi disoccupati e pensionati inattivi).
Fonti:
1.
Ezio
Manzini – ABITARE LA PROSSIMITÀ. IDEE PER LA CITTÀ DEI 15 MINUTI – EGEA, Milano
2021
2.
Renzo
Riboldazzi - ABITARE
LA PROSSIMITÀ (MA NON TROPPO) - Introduzione all'incontro e commento al libro
di Ezio Manzini https://www.casadellacultura.it/1327/abitare-la-prossimit-agrave-ma-non-troppo-
3.
INCONTRO
ALLA CASA DELLA CULTURA DI MILANO PER “CITTA’ BENE COMUNE” – 3 maggio 2022 https://www.youtube.com/watch?v=yW3JKYdIWEA
4.
Aldo
Vecchi – DISUGUAGLIANZE – Quaderno n° 16 di Utopia 21, novembre 2020
https://drive.google.com/file/d/1cID_Kyxo-J-CxwdIcNiaJr_vXmEXuEWk/view?usp=sharing
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