LA CITTA’ DEI 15 MINUTI
di Aldo
Vecchi
Un tentativo di sintetizzare il dibattito in corso, post-pandemia,
sulla riorganizzazione della città in unità locali di prossimità; con un occhio
anche agli altri elementi del confronto in atto tra urbanisti e dintorni
Sommario:
-
premessa
-
“Urbanistica Informazioni” n° 300:
o
A – l’impostazione storica e problematica
o
B – due interventi divergenti, Pietro Garau e
Maurizio Carta
o
C – racconti relativi a città italiane
- i quartieri ‘autosufficienti’ censiti da “UCTAT”
- alcune
ulteriori considerazioni
appendice:
dove va il dibattito tra gli urbanisti, aggiornamento
PREMESSA
Nel
multiforme dibattito urbanistico post-Pandemia, di cui riferisco qualche
scampolo in APPENDICE, la discussione sulla “città a 15 minuti” ha in qualche
misura polarizzato l’attenzione (abbandonando l’attrazione per il ‘ritorno ai
borghi’ [1]), anche perché attraversa
altri singoli temi di evidente attualità: trasporti pubblici e mobilità privata
– accessibilità e vivibilità – digitalizzazione, ‘smart working’ e ‘coworking’
– salute e servizi – abitazioni e tempi di vita…
Mentre
ho scelto di enucleare in un separato articolo (sempre su questo numero di
Utopia21) la mia recensione del libro di Ezio Manzini “Abitare la prossimità –
idee per la città
dei
15 minuti” 1, in questo testo mi appoggio principalmente alla
lettura del n° 300 di Urbanistica Informazioni (novembre-dicembre 2021)2,
che ha dedicato un apposito “Focus” a “IL PROGETTO DELLA CITTA’ DEI 15 MINUTI”,
a cura di Elena Marchigiani: un “Focus”
che si presenta complesso e non-lineare, così come gli argomenti che affronta. [2]
“URBANISTICA INFORMAZIONI”
N° 300:
A) L’IMPOSTAZIONE STORICA E PROBLEMATICA
Nell’articolo
introduttivo, Elena Marchigiani “propone una presa di distanza dalle
interpretazioni della città dei 15 minuti come un modello automaticamente in
grado di migliorare le prestazioni urbane” e inserisce la proposta di Carlos
Moreno (2016), poi rilanciata e popolarizzata dalla Sindaca di Parigi Hidalgo
nel suo programma di secondo mandato “Paris in commun” (e fatta propria da
“C40” - rete mondiale di metropoli tra cui Milano - e raccomandata dalla stessa
organizzazione UN-Habitat dell’O.N.U.) in una prospettiva storica, da Cerdà nella
Spagna di metà ottocento a Howard (Inghilterra, 1902), da Perry (1920) alle
New-Towns inglesi (prima e dopo la seconda guerra mondiale), dal New Urbanism (USA,
dal 1980) a Rogers (proposte per il governo inglese di Blair - 1999), passando
anche per i quartieri INA-Casa del secondo dopoguerra italiano e per gli
“standard” della legge Ponte (1967-68): tali radici storiche (Italia esclusa) sono
più ampliamente e criticamente indagate nell’articolo di Giorgio Piccinato, di
cui riferisco più avanti.
La
formulazione di Moreno, come riassunta da Marchigiani, contempla un “nuovo
crono-urbanismo”, con la riorganizzazione di una città policentrica fondata sui
principi di Proximité, Mixité, Densité e Ubiquité e sulla combinazione tra
mobilità privata ciclo-pedonale e trasporto pubblico, per offrire
universalmente – entro i termini temporali di un quarto d’ora - l’accesso alle
dotazioni necessarie al vivere civile: schema che ha trovato un crescente
successo a fronte delle dure esperienze della Pandemia Covid-19 nelle modalità
dell’abitare, del lavorare, del curarsi e del distribuire cibo e altre merci.
Marchigiani
da un lato mette in evidenza come la proposta non si limiti alla mera
riproposizione di vecchie ricette sui quartieri autosufficienti, in un contesto
profondamente cambiato, e d’altro lato enuncia i rischi di una mitigazione
superficiale delle criticità urbane, ove non si proceda ad un piano complessivo
per l’intera città, che affronti questioni strutturali quali le nuove forme del
lavoro, la politica della casa e la ri-progettazione dei servizi e degli spazi
collettivi.
Il
contributo di Silvia Rossetti, Michela Tiboni e Michele Zazzi riprende il
recupero della tradizione storica in materia di decentramento in relazione con
densità/”mixité”/ciclo-pedonalità, rammentando tra l’altro che una impostazione
simile stava già nella manualistica di Vincenzo Columbo (1966) e segnalando gli
sviluppi da parte del CeSCAM dell’Università di Brescia, e allarga il ventaglio
dei casi virtuosi (tra cui Parigi e Milano) alla metropoli di Melbourne ed al
suo piano 2017-2050: affermando che i saperi tecnici necessari sono già
disponibili, evidenzia le carenze nella “pratica urbanistica” e nella
difficoltà di rilevare i movimenti effettivi e le oscillazioni nelle tendenze
degli utenti, fattori che influiscono sul successo o insuccesso delle politiche
di decentramento nella offerta dei servizi, che non può mai essere operazione
meccanica, a fronte della complessa articolazione delle realtà urbane.
L’approfondimento
storico di Giorgio Piccinato connette la ricerca di “quartieri armoniosi” alle
critiche alla realtà urbana, già presenti nel mondo antico e acutizzate a fronte
degli sviluppi delle “città moderne”; critiche che sconfinarono spesso nelle
utopie, fino all’anarchismo.
In
particolare tra i teorici “anti-urbani” agli albori della modernità, Piccinato
richiama i fisiocratici – che a metà Settecento esaltavano i valori reali
dell’agricoltura contro al concentrazione del “lusso” nelle città - e Jefferson, in quanto pensatore e
legislatore nei nascenti Stati Uniti d’America, sostenitore dell’individualismo
rurale (come base di una democrazia agraria) in contrapposizione alla “massa
urbana”, che cercò di arginare con le sue griglie ortogonali per strade e
territori.
Più noti, ma – secondo Piccinato –
sopravvalutati rispetto all’effettivo peso storico, alcuni tra i successivi
teorizzatori e sperimentatori di utopie sociali applicate al territorio, da
Fourier, che ancorava il progetto dei falansteri alla ricerca scientifica
dell’epoca, a Owen, pacifista e libertario, fondatore in Scozia di New Lanark, cui
Piccinato affianca altri promotori ottocenteschi di comunità autosufficienti,
per lo più semi-rurali, tra Francia, Inghilterra e Stati Uniti (Godin, Buckingam,
Richardson, Bellamy, Morgan, Ripley); ai quali Marx ed Engels contestano la
incomprensione del conflitto di classe.
La consapevolezza del conflitto sociale e l’accettazione
della produzione industriale accomuna invece, all’inizio del Novecento, da un
lato l’elaborazione teorica dell’anarchico russo Kropotkin, che propone
comunità locali auto-produttive agro-industriali, negando però la divisione
capitalistica del lavoro, e d’altro lato l’esperimento di successo del
riformista inglese Howard con l’esperimento della Città-Giardino, che integra
l’auto-produzione con la proprietà privata condivisa e inserisce comunità di
2.000 abitanti in “città” di 30.000, prevedendo reti di trasporto collettivo
rapido per i collegamenti attraverso le ‘cinture verdi’.
Modello che sarà ripreso e sviluppato negli
anni ’20 del Novecento con due insediamenti, Columbia e Radburn (nel Maryland e
ne New Jersey) dallo stesso Howard e da Clarence Perry, che meglio delineò il
concetto di “unità di vicinato”, residenze entro un raggio di 400 metri dalle
scuole primarie.
Da questi esempi, racconta Piccinato,
seguiranno, soprattutto dagli anni ’50, sia gli interventi a guida pubblica
delle New Towns inglesi (ed europee), sia processi imitativi a guida privata,
soprattutto negli U.S.A., con un decentramento sub-urbano fondato sulla
motorizzazione privata, determinando effetti non solo positivi, ma anche
ampiamente negativi, sia riguardo all’impatto ambientale delle basse densità
abitative, sia riguardo alle crescenti tendenze alla separazione sociale e
talora anche etnica degli insediamenti: “una struttura insediativa che della
grande città enfatizza i disagi e rafforza le differenze”.
Sintetizzando
con parole mie il contributo di Giorgio Piccinato, l’idea di ‘vicinato
progettuale’ nasce anti-urbana e muore sub-urbana, in un quadro di bassa
densità edilizia e di scarsa ‘mixitè funzionale’; e volerla applicare alla
città esistente e (più o meno) compatta e mista è tutta un’altra storia.
“URBANISTICA
INFORMAZIONI” N° 300:
B) DUE INTERVENTI DIVERGENTI, PIETRO GARAU E MAURIZIO CARTA
Il
testo di Pietro Garau legge le proposte di Moreno (ed i revival delle
esperienze di Perry) rilanciate con successo mediatico da Parigi, Barcellona e
dalle città C40 come un messaggio rassicurante che copre una realtà
contradditoria, dove permangono e si aggravano le disuguaglianze tipiche della
città neoliberista riguardo al lavoro, alla casa e all’effettivo accesso ai
servizi.
Andando
a monte, per Garau anche le campagne di Jane Jacobs contro la pianificazione
tecnocratica erano di fatto subalterne a fenomeni di “gentrification” in favore
di ceti più abbienti, e comunque risultavano valide in condizioni socio-economiche
che ormai si sono dissolte, dalla scarsità di autoveicoli all’abbondanza di
bambini; condizioni oggettive che potevano produrre una sorta di “sostenibilità
involontaria” anche per i migliori quartieri delle periferie novecentesche,
oggi irripetibile (salvo forse per zone di espansione in altri continenti).
Secondo
Garau, nell’attuale contesto di “urbanizzazione matura” delle nostre città, ed
in assenza di una svolta politica e socioeconomica di tipo strutturale, rimangono
insuperabili le difficoltà per attuare veramente i principi della città dei 15
minuti: come incrementare le aree verdi senza una politica di espropri? Come
sorreggere i negozi che chiudono, schiacciati da centri commerciali e vendite
on-line? Come ricucire le periferie materialmente frammentate dalla rigidità
delle antiche destinazioni d’uso (cioè in presenza di grandi contenitori
monofunzionali non scorporabili)?
Di
tutt’altro tenore l’intervento appassionato di Maurizio Carta, che sovrappone
alla sollecitazione sui “15 minuti” una sua visione di “città aumentata” come
risposta (alternativa ad una nuova dispersione insediativa) rispetto
all’esperienza del Covid 19, recepita come “sindemia urbana”: Addensare,
Redistribuire, Ibridare, Adattare.
Carta
immagina una trasformazione verso una città “dalla prossimità aumentata”, più
senziente, più creativa, più intelligente, più resiliente, più collaborativa,
più circolare: una serie di “più” che si concretizzino in un maggior
metabolismo circolare delle funzioni, in una maggior vicinanza
casa/lavoro/servizi, in una maggiore domesticità ed urbanità degli spazi
pubblici.
Carta
auspica una creatività del progetto urbano, che impari dalla natura un processo
di innovazioni – metamorfosi – cooptazioni. E non ipotizza un mosaico di
tasselli ‘dei 15 minuti’ (o peggio ‘enclave’ recintate), bensì un insieme
policentrico ad intensità differenziata, in cui i quartieri, con le loro identità ed i loro servizi, siano nodi
attrattivi di reti lunghe e corte[3], dove le percorrenze pedonali
di 15’ (rammentando anche che la somma di 15’+15’ fa mezzora di movimento
fisico al giorno, come consigliato per la salute umana) si intreccino con
percorsi più lunghi con altri mezzi (due ruote private e trasporti pubblici),
integrando i diritti anche delle popolazioni “nomadi”, come i pendolari e gli
immigrati.
Gli
ingredienti di questa “città arcipelago”, fluido insieme di eco-sistemi,
innervata dalle “reti green&blu” saranno case più ampie e spazi per
co-working, con fasce osmotiche rispetto alle “strade abitabili”, ricche di
dehors e rinaturalizzate, con cine-tetro all’aperto e riuso dei contenitori
dismessi per funzioni flessibili (dal co-working ai Covid-hotel…).
Una utopia, direi con
parole mie,
di “città porosa multispecie”, in cui in
un crescendo poetico Carta prevede di “estendere funzioni”, “rimodellare
forme”, “aggiornare norme”, promuovendo “ibridazione,
flessibilità, contaminazione, apertura, connessione, pluralità”, che culminano nell’immagine qui riportata
della “MANGROVIA”.
Figura 1 – schema concettuale della “città-mangrovia”,
secondo Maurizio Carta
“URBANISTICA
INFORMAZIONI” N° 300:
C –
RACCONTI RELATIVI A CITTA’ ITALIANE
Pur includendo
contributi di sicuro interesse specifico, mi sembra che la rassegna dei casi
italiani non risponda pienamente alle esigenze di comprendere il passato e di
interpretare le tendenze in atto.
Riguardano
in prevalenza il passato i testi di Mariavaleria Mininni su Matera e di Paolo Galuzzi
(che è anche il nuovo direttore di “Urbanistica”, dopo Federico Oliva) su
Ivrea:
-
il
primo tende a difendere i “lasciti del moderno” che offrirono residenze
alternative agli abitanti dei “Sassi”, negli anni ’50-’60, ma ne mette in
evidenza i pregi ‘per negativo’, rispetto alle saldature casuali tra tali
episodi di edilizia pubblica (saldature che
costituiscono una sorta di ‘non città’, frutto di un ‘non piano’), senza una
valutazione oggettiva del successo o insuccesso di quei quartieri moderni
allora ed oggi; ad esempio, personalmente
ho compiuto nel lontano 1972 un sopralluogo alla Martella (insediamento che
oggi so restaurato nell’ambito di “Matera capitale della cultura”), e mi sembrò
in sostanziale abbandono, pur brillando in loco una lapide auto-celebrativa del
regime democristiano; e sarei stato curioso di saperne di più
-
il
secondo inizia con una lunga (e
condivisibile) contestazione alla volubilità del dibattito urbanistico, che
oggi corre dietro ai “15 minuti” come in passato ad altre meteore “senza
generare un reale avanzamento concreto della ricerca disciplinare e e delle
pratiche conseguenti”. Tuttavia Galuzzi conviene che la vicenda pandemica abbia
rimesso in gioco valori quali la prossimità e la “comunità” e pertanto propone
un approfondimento sui valori comunitari specifici dell’esperienza olivettiana,
mettendone in evidenza, nel contesto storico degli anni ’50, le profonde
connessioni con il territorio di Ivrea e Canavese, con la dimensione sociale di
quella impresa industriale e con le modalità di partecipazione decentrata nei
“72 centri comunitari” distribuiti nei 118 comuni del circondario: a questo
proposito l’Autore esalta l’attenzione di Adriano Olivetti per i “corpi
intermedi” (a mio avviso trascurando gli aspetti consociativi del comunitarismo
olivettiano, consoni alle ambiguità interclassiste del suo “Movimento” politico
“Comunità”, come mi sono permesso di sottolineare in altra occasione 4).
Galuzzi illustra anche
le intersezioni tra questa progettualità sociale/territoriale di Olivetti e gli
interventi di architettura moderna promossi dall’azienda, sia nel “decumano” di
via Jervis (fabbrica e uffici, servizi per i dipendenti, residenze) sia
decentrati nei quartieri residenziali: manca
anche qui, a mio avviso, una valutazione sulla efficacia qualitativa, nel
tempo, di tali episodi (come visitatore sporadico del Canavese, francamente,
non ho riscontrato nelle periferie e nei paesi una qualità urbana superiore a
quella di altri contesti piemontesi confrontabili, mentre via Jervis mi sembra
più un catalogo di architetture che non un significativo pezzo di città
alternativa).
Figura 2: planimetria “turistica” dell’area di corso Jervis
ad Ivrea
Gli ammaestramenti che
Galuzzi ritiene di poter trarre da questa riflessione storica, pur nella piena
consapevolezza della distanza drastica tra le situazioni sociali, sono
presentate in (blanda) contrapposizione ai ragionamenti di Ezio Manzini –
assunto come epigono ‘buono’ dei ’15 minuti – sulla prossimità e sulla
promozione indiretta di nuove comunità, in prevalenza effimere ed ottative
(vedi mia recensione su questo numero di Utopia21): Galuzzi, richiamando Aldo
Bonomi, ritiene invece possibile “tessere reti
tra soggetti e territori … ridando senso e significato al luogo” ed al
“capitale sociale …. bene relazionale riproducibile attraverso l’uso, laddove
le capacità di evoluzione, resilienza e durata delle istanze di comunità sono
consegnate in forma aperta e riflessiva a nuovi soggetti intermedi”.
Si
confrontano invece con il presente (e con il futuro) gli articoli di Bertrando
Bonfantini sul nuovo Piano di Governo del Territorio di Milano e di Chiara
Manaresi sul nuovo Piano Urbanistico Generale di Bologna: articoli ambedue
centrati sulle complesse costruzioni dei suddetti strumenti urbanistici (che meriterebbero altrettanti articoli di
commento specifico) e solo tangenzialmente attinenti alle problematiche dei
’15 minuti’, che ovviamente intersecano l’intero scibile urbanistico, ed in
particolare i progetti di rigenerazione urbana.
Comune
alle due città è il bisogno, in questa fase storica, di “denominare” i luoghi:
-
Milano
individua (descrittivamente, più che operativamente) ben 88 “Nuclei di Identità
Locale” – già delineati nel Piano dei Servizi del 2012 – (ad esempio: Portello,
Pagano, Sarpi), a fronte di solo 9 “municipi” (ed in precedenza di 20 “zone”);
-
Bologna
riconosce, anche progettualmente (per le azioni di “ricucitura”), 24 “Areali”
(ad esempio Malpighi, Galvani, Murri), numero non dissimile da quello
originario dei “quartieri” del precoce decentramento amministrativo (15 nel
1960 e 18 nel ’66: ora accorpati in 6 municipi).
Diverso
è però l’approccio progettuale dei Piani: il PUG di Bologna risulta
strettamente ancorato ai possibili miglioramenti locali di un tessuto urbano consolidato;
miglioramenti sociali ed ambientali che possano essere concretamente conseguiti
e valutati (e all’Autrice dell’articolo appaiono consoni agli obiettivi dei “15
minuti”); il PGT di Milano enuncia più genericamente (o propagandisticamente?) i nuovi principi della “prossimità” e
della “sostenibilità” in un quadro normativo più complesso e più fluido,
esposto agli effetti variabili delle grandi trasformazioni ancora possibili (a
partire dagli scali ferroviari).
Mentre
Bonfantini coglie l’occasione per una sostanziale presa di distanza dai miti
della prossimità, anzi dalla “incontinente ascesa della prossimità”: rammenta quanto
l’idea di quartiere “talvolta si sia rivelata una gabbia, un costrutto di
segregazione anziché di integrazione”, fino ad “apparire sdrucciolevole in una
fase storica … che ha ormai introiettato la ‘disgiunzione’ tra spazio e società
…. nelle pratiche di vita dei soggetti rispetto alla varietà delle traiettorie
ed eterogeneità dei luoghi in cui esse quotidianamente prendono corpo e forma
nel campo urbano.” “… ambiguo e infido appare il concetto di identità…”
I QUARTERI
‘AUTOSUFFICIENTI’ CENSITI DA “UCTAT”
Il
numero di marzo 2022 della news-letter UCTAT (Urban Curator TAT ovvero
Territorio-Architettura-Tecnologia, diretta da Fabrizio Schiaffonati) propone
una rassegna critica sullo stato attuale di degrado di alcuni tra i principali
“quartieri autosufficienti” realizzati in Italia nel secondo Novecento, come
elencati nel riquadro seguente:
• Le
Vallette a Torino: isola di sperimentazione urbana o quartiere isolato? –
Francesca Thiebat e Andrea Veglia
• Il
Biscione, Le Lavatrici e La Diga: tre diversi destini – Andrea Giachetta
• Strategie
di riqualificazione dell’edilizia residenziale pubblica in terraferma veneziana
– Massimo Rossetti
• Quartieri
in transizione. Esperienze nella città di Bologna e il quartiere Barca – Andrea
Boeri
• L’edilizia
residenziale pubblica in area fiorentina tra contesto nazionale e visione
locale – Roberto Bologna e Andrea Sichi
• La
rigenerazione dei quartieri ERP e cicli di vita del territorio peri-urbano di
Napoli – Marina Rigillo e Anna Attademo
• Arghillà.
Periferia. Reggio Calabria – Massimo Lauria e Marina Tornatora
• Il
quartiere ZEN 2 a Palermo: un’attesa mai compiuta – Maria Luisa Germanà.
Il
contributo che più mi interessa ai fini del dibattito sui “15 minuti” è il
primo, sia perché le Vallette, a differenza di molti degli altri casi esaminati
non è né una mega-struttura né un eco-mostro, bensì è costituita da edifici
residenziali ‘garbati’, sia perché gli Autori si limitano alla descrizione e
interpretazione del caso, senza sovrapporre ipotesi progettuali di riscatto
(loro o altrui). Ne riproduco pertanto ampi stralci:
“Con i piani Ina Casa del dopoguerra, prima
Falchera e poi Vallette, Torino sceglie di far fronte alla drammatica richiesta
di abitazioni rinunciando a espandere in modo armonico il tessuto consolidato
della città per tentare la via di realizzare ex-novo e in tempi rapidi
quartieri indipendenti in posizione decentrata.
Il quartiere Vallette nato sotto la spinta
della grande migrazione verso il nord Italia industrializzato, fu immaginato
nel 1958 come zona autosufficiente della città di Torino in cui diversi
comparti residenziali si integravano attraverso aree verdi, campi sportivi e
strutture adibite a servizi quali: asilo nido, scuole materna, elementari e
medie, chiesa, zona commerciale coperta, mercato e bar. …
Quest’isola slegata dalla città diventa
occasione di cooperazione -e teatro di scontro- tra le varie anime della
cultura architettonica torinese dell’epoca. Tenuti insieme dall’unico collante
tecnologico dell’uso del cemento armato e dei paramenti in mattoni faccia a
vista, i gruppi di progettazione tentano, ognuno nel suo “comparto”, approcci
diversi che fanno riferimento a modelli culturali disparati, dalla casa rurale
piemontese a tipologie di stampo inglese e scandinavo. …
Gli uni ancora agganciati a istanze tipiche
del movimento moderno, gli altri, disillusi, alla ricerca di un dialogo con la
storia di un luogo che prende il suo nome da una cascina seicentesca ancora
presente.
Attraversando le zone residenziali, gli
edifici e gli spazi esterni privati rivelano un’attenzione particolare
all’ordine, alla cura e alla manutenzione da parte degli abitanti-proprietari.
Addentrandosi poi nel cuore del quartiere, in cui il piano prevedeva i servizi
(alcuni dei quali mai realizzati), si è colpiti da un senso di abbandono e
desolazione. Lo spazio pubblico fortemente degradato si contrappone alla cura
di quello privato.
L’immagine delle case in mattoni, dei prati e
degli alberi fioriti si trasforma in immagine monocromatica fatta di asfalto,
terra e rifiuti. Forse nelle zone degradate possiamo ritrovare traccia di
quell’idea di Bronx torinese che per decenni ha marchiato Le Vallette. Ciò che
resta negli occhi di una visita alle Vallette oggi, sono però le facce degli
anziani che guardano le strade dalle finestre delle casette a tre piani o che
prendono il sole nei giardinetti di case a schiera di stampo nordico.
Proseguendo la passeggiata architettonica (il
quartiere è meta anche della recente rassegna cittadina Open House Torino)
alcune locandine affisse sui muri degradati della piazza centrale e appelli del
comitato di quartiere mostrano quanto sia ancora viva l’anima culturale e
sociale intrinseca al quartiere che già negli anni settanta divenne teatro di
sperimentazioni di metodi pedagogici innovativi anche legati a modelli
architettonici, come la scuola media progettata da Gabetti, Isola e Cavallari
Murat, oggi in stato di completo abbandono. Negli edifici per servizi che
affacciano su piazza Montale si sono innestate nel tempo alcune realtà
associative, come una Casa di Quartiere, un teatro e un oratorio.
Le Vallette, come tante periferie, sono state
trascurate da quella fase di trasformazione della città che ha avuto il suo
apogeo con le Olimpiadi Invernali del 2006. In una fase in cui le energie si
concentravano sul centro storico, su grandi infrastrutture come l’interramento
del passante ferroviario e sul ripensamento di aree ex industriali, le Vallette
salgono agli onori delle cronache solo per la riqualificazione di Piazza
Montale. L’intervento, inserito nel Programma triennale delle Opere pubbliche
(2000-2002), prevedeva la realizzazione di un’isola pedonale destinata
all’aggregazione sociale, l’inserimento di due fontane e il rifacimento
dell’impianto di illuminazione. Un intervento che dopo pochi anni era già
caduto in stato di degrado.
Nel 2016 si insedia la giunta Appendino, dopo
una campagna elettorale imperniata sul rilancio delle periferie. Nel 2017 fa
notizia la distruzione da parte di vandali, proprio in piazza Montale, delle
luci d’artista installate per la prima volta lontane del centro. I due episodi
dimostrano come iniziative solo “cosmetiche” siano tentativi velleitari,
incapaci di affrontare la sostanza dei problemi.
In particolar modo, il quartiere ha sofferto
il mancato soddisfacimento di quel principio di autosufficienza posto alla base
della sua ideazione. La grande struttura di servizi inizialmente pianificata al
centro come motore sociale dell’insediamento è stata sostituita
dall’edificazione di singoli edifici, assimilabili a “pezzi” che, affiancati
gli uni agli altri in modo quasi casuale, ospitano funzioni pubbliche primarie
restando tuttavia svuotati di senso e rappresentatività.”
Mi pare che questo
esempio dimostri non solo le carenze della progettazione (sia fisica che
‘sociale?) e della manutenzione degli spazi pubblici, ma soprattutto la
difficoltà di produrre prossimità, pur in presenza di una discreta densità, quando
manca strutturalmente la “mixitè”, sia di ceti sociali (da sempre, ed oggi di
fasce di età; mentre talora difficile risulta la frammistione etnica), sia
soprattutto di funzioni, ed in particolare di funzioni attrattive (vedi sopra
Carta)
Penso che quand’anche
un territorio edificato si presenti come ‘isotropo’, cioè teoricamente
percorribile a parità di tempo in qualunque direzione (è questa la “ubiquité
”di Moreno?), il quartiere ‘semi-centrale’ “A” sarà socialmente più ‘periferico’
di un altro più fisicamente remoto (“B”, dove magari si localizza un corso
universitario), se non c’è un buon motivo perché gli abitanti di altri
quartieri desiderino di frequentarlo (mentre è probabile che gli abitanti di
“A”, soprattutto se giovani e forse anche se immigrati, abbiano cento motivi
per muoversi verso altri quartieri). [4]
ALCUNE ULTERIORI CONSIDERAZIONI
Come accenno anche
nella recensione su Manzini, affiancherei pertanto il concetto di
“attrattività” alla triade “Proximité, Mixité, Densité”.
Dopo di che mi sembra
difficile proporre delle conclusioni per un dibattito che mi pare ancora molto
aperto e ricco di utili divagazioni nei campi attigui delle scienze umane e
territoriali, di riflessioni storiche e di affinamenti metodologici.
Tra i quali mi sembra
fondamentale la consapevolezza (mi pare già ben diffusa tra gli Autori citati)
-
che il ritorno ai
(mitici) ‘quartieri autosufficienti’ non è né praticabile né auspicabile,
-
che la complessità dei
fenomeni urbani rende difficile (e talora impossibile) individuare i ‘confini’
tra i singoli ‘quartieri’, per cui raramente si sa da dove computare le
distanze, siano esse da 15 minuti oppure da un’ora[5].
Per altro ritengo che anche
posizioni apparentemente contrapposte, come quelle tra Manzini e i suoi critici
(vedi recensione) o quelle di Garau versus Carta, possano trovare una sintesi
solo nella sperimentazione pratica.
Se i tentativi
riformisti di migliorare la situazione con il decentramento dei servizi e
l’umanizzazione della mobilità e dei relativi spazi possono risultare un
palliativo in assenza di mutamenti strutturali (casa, lavoro, commercio), nulla
vieta di intrecciarli con lotte e politiche adeguate a tali obiettivi (il
problema è: quali lotte e quali politiche).
Parimenti una visione
utopica verso una città-arcipelago, più o meno ‘anfibia’ (mangrovie), può
essere un utile scenario, meglio se agganciato a qualche ipotesi concreta su
come avvicinarsi a tale orizzonte, con quali forze, con quali proposte
intermedie.
APPENDICE: DOVE VA IL
DIBATTITO TRA GLI URBANISTI, AGGIORNAMENTO
Con
riferimento ai miei precedenti articoli, raccolti nel “Quaderno 22” di Utopia21
3, del novembre 2020, provo a riassumere brevemente gli altri sviluppi
del dibattito urbanistico italiano (oltre a quanto polarizzato sul tema dei 15
minuti), come da me percepiti negli incontri video-registrati di UrbanPromo
(autunno 2021)6 e di CittàBeneComune/Casa della Cultura di Milano
(primavera 2022) 8; considero
la mia brevità giustificata anche dalla facile accessibilità al materiale
relativo a tutti 7 suddetti incontri su YouTube. (Scusa che tenterei di
avanzare anche per non aver riferito su Utopia21 di UrbanPromo 2020 e di
CittàBeneComune 2021…).
URBAN
PROMO GREEN – VENEZIA, SETTEMBRE 2021
Riepilogherei
come segue i temi affrontati nel convegno “UrbanPromoGreen” (convegno in parte
articolato su filoni conseguenti a quelli degli anni precedenti, su cui già ho
riferito nel suddetto “Quaderno 22”: dalla mobilità sostenibile alla
eliminazione delle barriere architettoniche, dalle varie sfumature del “green”
alle costruzioni in legno):
-
urbanistica
e salute: oltre a ragionamenti generali e specifici sugli effetti della
pandemia e sulle modalità per prevenire e contrastare analoghi fenomeni, la presentazione
di alcune ricerche in campo medico-scientifico sulla correlazione tra forme
urbane, stili di vita e alcune patologie: ricerche promettenti, ma al momento
ancora alquanto immature rispetto al desiderio degli autori di proiettarle come
indicazioni progettuali generalizzabili;
-
conflitto
e integrazione tra i nuovi criteri analitici e progettuali di matrice
variamente ambientale (ed in particolare quelli relativi alla mitigazione e
all’adattamento climatico, alla gestione del verde e alla “nature based
solutions”) e i tradizionali strumenti di lettura e gestione del territorio;
-
modalità
di misurazione degli effetti delle diverse politiche urbane e territoriali,
anche in funzione degli investimenti previsti dal PNRR, ed in relazione agli
sviluppi della digitalizzazione.
URBAN
PROMO HOUSING SOCIALE – MILANO, OTTOBRE 2022
L’orizzonte
del PNRR ha mandato in fibrillazione il tradizionale assetto del consesso,
esaltando il valore degli esperimenti di inclusione sociale e di progettazione
partecipata avviati in piccole nicchie negli anni scorsi (sembrerebbero
propriamente i modi dovuti per coniugare le diverse finalità del PNRR, e il
PNRR stesso darebbe occasione per verificarli su più larga scala) e nel
contempo il timore o addirittura la consapevolezza che i tempi ristretti ed i
criteri burocratici connaturati al PNRR non daranno spazio per impostarne gli
investimenti allargando le esperienze più virtuose dell’Housing Sociale (fondate
finora sul paziente lavoro di organismi specializzati, per lo più finanziati da
fondazioni bancarie).
URBAN
PROMO PROGETTI PER IL PAESE – MILANO, NOVEMBRE 2021
Non avendo ancora riascoltato il convegno, riporto i contenuti ufficiali
del programma:
“Nella cornice della
rigenerazione urbana e del partenariato pubblico privato, sono presentati
progetti e iniziative che spiccano nel panorama nazionale per il forte
carattere innovativo dei loro approcci e dei loro contenuti.
I
Pinqua: i progetti del Programma nazionale per la qualità dell’abitare. Tra le
proposte ammesse al finanziamento statale è presentata una selezione dei
progetti più interessanti e convincenti nel perseguire la riqualificazione
urbana, ridurre il disagio abitativo e favorire l’inclusione sociale.
Progetti
per far rinascere parti di città grazie al partenariato pubblico privato. Da
sempre al centro della ricerca multidisciplinare e multiattoriale di
Urbanpromo, il partenariato pubblico privato si concretizza in nuove iniziative
in cui la qualità del progetto interagisce con l’allestimento di complessi approvvigionamenti
finanziari e sofisticate costruzioni giuridiche.”
CITTA’
BENE COMUNE (CASA DELLA CULTURA) – MILANO MAGGIO 2022
Volendo
trovare un aspetto comune ai quattro testi ed autori scelti quest’anno dal
professor Renzo Riboldazzi, mi sembra che sia quello della eccentricità, non
nel senso banale di stranezza, ma del porsi in qualche modo al di fuori dei
binari tradizionali delle discipline:
-
di
Ezio Manzini “ABITARE LA PROSSIMITA’” riferisco nella specifica recensione
(altro articolo di questo numero di Utopia21), segnalandone l’approccio
“diagonale” alla questione urbana, attraverso il “design di servizi“ (sviluppo estremo
del design di cose);
-
di
Elena Granata “PLACEMAKER. GLI INVENTORI DEI LUOGHI CHE ABITEREMO” è l’Autrice
stessa (di cui già ho recensito, con più
di una riserva, il precedente “BIODIVERCITY“) ad affermare come valore
primario l’estraneità dei protagonisti del suo libro (donne, preti, imprenditori,
…), e protagonisti nel “CREARE LUOGHI”, dalle tristi costrizioni delle
discipline progettuali;
-
di
Stefano Boeri “URBANIA“ eccentrico mi pare l’atteggiamento dell’Autore che -
nella particolare condizione del confinamento pandemico – concepisce un diario
atipico come occasione per ripensare quasi “dall’esterno” le traiettorie e le
proiezioni del suo mestiere di progettista a tutto campo;
-
di
Giuseppe Dematteis “GEOGRAFIA COME IMMAGINAZIONE. TRA PIACERE DELLA SCOPERTA E
RICERCA DI FUTURI POSSIBILI“ appare indubbiamente programmatica l’eccentricità
di una geografia ottativa e immaginativa, rispetto alla tradizionale
oggettività della geografia descrittiva.
Fonti:
1.
Ezio
Manzini – ABITARE LA PROSSIMITÀ. IDEE PER LA CITTÀ DEI 15 MINUTI – EGEA, Milano
2021
2.
Autori
vari, a cura di Elena Marchigiani – IL PROGETTO DELLA CITTA’ DEI 15 MINUTI su
“URBANISTICA INFORMAZIONI N° 300”, NOVEMBRE-DICEMBRE 2021
3. Aldo
Vecchi - IL DIBATTITO SULL’URBANISTICA (PRIMA E DOPO LA PANDEMIA) – Quaderno n°
22 di Utopia21, novembre 2020 - https://drive.google.com/file/d/1h6JNx1bSWyh69mTCshFCdCRSJtwVtPTs/view?usp=sharing
4.
Aldo
Vecchi - LAVORO PER TUTTI? – su Utopia21, marzo 2018 - https://drive.google.com/file/d/1ELg_AIlUgM_ilyG0eT9XpGal3k4fI_M-/view?usp=sharing
5.
http://www.agenda21laghi.it/vivere_tra_laghi.asp
6.
https://urbanpromo.it/2021/urbanpromo-progetto-paese/temi-milano/
7.
https://www.casadellacultura.it/viaborgogna3riccat.php?cat=Citt%C3%A0%20Bene%20Comune
[1]
Fuga che così sintetizzavo nel
maggio 2020 3: “Intervistati su “La Repubblica”, le “archistar” Massimiliano
Fuksas e Stefano Boeri, hanno espresso alcune idee sul futuro post-Pandemia,
che contemplano anche una possibile fuga dalla città verso le attuali “seconde
case” oppure verso i borghi semi-abbandonati delle “aree interne”, fuga sorretta
dal “lavoro a distanza” (e in qualche modo annunciata, prima della Pandemia,
dalla super-archi-star Rem Koolhass, con la mostra ed il manifesto
“Countryside””
[2]
Nel cronico ritardo delle riviste
dell’INU, mentre la corazzata “Urbanistica”, in carta patinata, è rimasta
incagliata al N° 163, denominato “gennaio/giugno 2019”, (uscito nel giugno
2021), il più agile (e solo virtuale) incrociatore “Urbanistica Informazioni”,
sotto la nuova direzione di Carolina Giaimo (che ha sostituito Francesco Sbetti,
già direttore per 17 anni), ha recuperato a tappe forzate, dal n° 293-294,
nominalmente di settembre/dicembre 2020, uscito nell’ottobre del 2021, al n°
302, nominalmente e realmente dell’aprile 2022. Una inattesa pioggia di
articoli, che non è facile metabolizzare per il normale lettore.
[3]
l’Autore rammenta anche
l’impostazione dei trasporti pubblici di Stoccolma, che mirano a garantire a
distanza pedonale l’accesso ad una fermata del sistema di trasporto, ma anche a
offrire poi con questo, nel giro di un’ora l’arrivo a tutti nodi fondamentali
della metropoli
[4]
Pur
senza creare ghettizzazioni, mi sembra che un fenomeno simile si verifichi nel
territorio in cui abito (vedi ricerca “tra-i-laghi”, condotta con Anna Maria
Vailati 5), che non è pienamente metropolitano, però è policentrico,
fatto di paesi e cittadine, alcune più attrattive di altre, e ricche di
interscambi dovuti non solo ai movimenti pendolari per studio e lavoro, ma
molto anche (finché la benzina rimane sotto i 2 €…) di spostamenti facoltativi
per gli acquisti e per il tempo libero: privilegiando i centri dotati di
lungo-lago, di isole pedonali, di passeggiate, spazi dove camminare, ad
esempio, anche più di 15’+15’ (e pur avendo speso altrettanto tempo – per lo
più in auto – per raggiungere la meta).
Forse questa realtà
territoriale policentrica determina qualche effetto di ’prossimità dilatata’,
che meriterebbe di essere approfondito; mentre non è da escludere che l’ideale
città policentrica con molto verde ecc. assomigli a questa nostra provincia che
ha sì assediato ma non distrutto il verde agro-forestale: senza raggiungere
però i pesi insediativi e le densità medie sufficienti a sorreggere un sistema
di trasporto pubblico “urbano” né a giustificare la localizzazione di servizi
di alto livello (l’università, ancora ad esempio, come paradigma).
[5]
Non
è da trascurare a mio avviso anche una ri-considerazione dei tempi di viaggio
veicolare, che sono spesso visti come negativi pensando a singoli automobilisti
(che pure invece potrebbero apprezzare queste pause di solitudine per la
riflessione personale) e similmente ai passeggeri di bus e metro, mentre può
assumere spesso valenze positive e socializzanti per i percorsi collettivi in
‘car pooling’ e sui treni pendolari.
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