sabato 5 gennaio 2013

ITALIA BENE COMUNE:note sulla Carta di Intenti del PD

SETTEMBRE 2012

Mentre l’insieme del documento assume come orizzonte l’Italia e l’Europa (la salvezza dell’Italia solo tramite il rilancio della migliore Europa; il ruolo dell’Europa nel mondo per la pace e i diritti e contro lo strapotere della finanza; la ricerca di un ruolo produttivo per l’Italia in una prospettiva di sviluppo sostenibile), al punto 1 “VISIONE” si propone anche di riscoprire “la necessità di sentirci vicino a chi nel mondo si batte per la libertà e l’emancipazione di ogni essere umano”.

A mio avviso, se si  guarda seriamente al mondo intero, occorre apportare un mutamento di punto di vista e di accenti prioritari su tutti i contenuti della “Carta di intenti”.
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Stare “vicino a chi si batte per la libertà e l’emancipazione di ogni essere umano”
- è difficile, perché, ad esempio, dal punto di vista loro, probabilmente anche i Talebani si battono per la libertà, anche se hanno idee discutibili sull’emancipazione, soprattutto se femminile
- è insufficiente, perché una grande parte degli esseri umani subisce oppressione e sfruttamento senza arrivare a “battersi”.
Occorre invece estendere agli ultimi nel mondo il pensiero solidaristico, espresso poco sopra nel capitolo “VISIONE”, “Nessuno può stare bene, se gli altri continuano a stare male”: è un principio distintivo della sinistra, ma solo se non è limitato a chi sta male dentro i confini italiani ed europei.  

Questo allargamento universalistico non è da intendersi solo come un postulato morale (ineludibile sia per i credenti che per i laici di ispirazione socialista) né deve divenire un alibi per non approfondire le condizioni specifiche dell’azione politica italiana ed europea; è invece anche una necessità, perché in sua assenza ogni proposito di uscita dalla crisi e di sostenibilità dello sviluppo si infrangerebbe, prima o poi, nella resistenza degli ultimi e nello sgomitare dei penultimi (i paesi emergenti) a fronte della oggettiva limitatezza delle risorse naturali del sistema-Terra.

La sinistra europea, se non vuole essere solo una variabile interna al liberismo tuttora dominante (anche se indebolito), deve farsi carico di un programma per il superamento della crisi che miri alla salvezza dell’intero pianeta, e tuteli contemporaneamente sia gli interessi dei ceti subalterni europei, sia dei popoli oppressi e sfruttati nel resto del mondo.

E cambiare così di segno alle politiche europee, superando il paradosso per cui oggi gli aiuti europei sono temuti dai paesi più deboli, e dai loro popoli, perché associati alle “condizioni” della “Troika” EU+BCE+FMI che risultano a-priori anti-popolari: si può sperare che una prevalenza delle sinistre nei paesi europei comporti “democraticamente”  un diverso contenuto nel ricettario socio-economico dell’alta burocrazia europea?

Perché Europa, ad esempio, deve significare più facilità di licenziamento e non invece più garanzie per i lavoratori?

In questa ottica i capitoli della “Carta” su Lavoro, Uguaglianza, Diritti e Beni Comuni assumono una diversa e maggiore valenza, mentre il capitolo sullo “Sviluppo sostenibile” andrebbe approfondito, delineando meglio i capisaldi di una revisione radicale, anche se graduale, del ruolo produttivo dell’Italia e dell’Europa nel contesto di una equa ripartizione del consumo delle risorse (energia e materie prime, natura e paesaggio, sapere e salute) su scala mondiale.  

La tragicomica marcia indietro del Governo sulle “bibite gassate” non è un buon sintomo sulla disponibilità dell’opinione pubblica ad affrontare un serio dibattito su cosa, come e dove produrre (e pertanto su cosa incentivare e cosa tassare maggiormente), in attuazione dell’articolo 41 della Costituzione (che i liberisti vorrebbero abolire o comunque ignorare); ma questo dovrebbe essere a mio avviso compito del centro sinistra, innanzitutto come battaglia culturale e politica: anche se comportasse la imposizione di nuovi sacrifici, ma ben  motivati ad uscire davvero dalla crisi, e non finalizzati solo a  rilanciare in modo miope il vecchio modello di sviluppo ed i connessi privilegi di padroni locali e finanzieri internazionali.

Prima ancora di “usare il consenso per governare bene”, occorre far crescere il consenso su questa idea universale di “bene comune”, nella piena consapevolezza della dimensione globale della crisi e delle problematiche ambientali connesse; e rendere quanto più possibile protagonisti i cittadini-elettori, in modo tale che non si sentano “usati dai riformisti”, neanche a fin di bene, ma “utilizzatori” in proprio di una  buona politica.

Il Capitolo 2 “DEMOCRAZIA”, giustamente devoto alla legalità ed ai valori costituzionali, trascura un necessario approfondimento sul tema della “partecipazione”, che è appena accennato (e non può esaurirsi con la super-delega delle primarie); la possibilità di nuove forme di democrazia diretta, su scala locale oppure attraverso Internet, dove potrebbero svolgersi consultazioni tematiche (non con blog anonimi, ma con accessi individuali certificati), non è in contrasto con la difesa della democrazia rappresentativa, quale forma storicamente evoluta dello Stato, né con il ruolo dei corpi intermedi (partiti, sindacati, movimenti): perché regalarla a forze antagoniste e confonderla con il populismo (che è invece l’esaltazione della delega, temperata dal mugugno isterico)?

Post Scriptum sui costi della politica: limitare gli emolumenti alla “media europea” andrà bene quando salari e pensioni si avvicineranno alla media europea.


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