sabato 5 gennaio 2013

PENSIONI ED EQUITA'

GENNAIO 2012
In riferimento alla manovra Monti, si parla molto di equità, ed in particolare di equità tra generazioni, riguardo alla problematica delle pensioni.
Premetto che ogni equità parziale va sempre rapportata all’equità generale: ad esempio, nel mondo antico poteva essere rilevante anche l’equità di trattamento tra i singoli schiavi, ma la prima iniquità rimaneva quella tra schiavi e padroni;  ed anche oggi permangono immense iniquità generali, tra sfruttati e sfruttatori, sia a livello globale che a livello locale; nel concreto del contesto italiano si sono pertanto giustamente richiamate in questi giorni le iniquità della casta politica, delle pensioni e liquidazioni d’oro, dei mega stipendi dei manager: meno quelle più generali tra i lavoratori dipendenti ed i percettori di profitti e rendite.
Premetto inoltre che nel confronto in corso, in particolare nell’arrogante, ancorché educata, ripulsa della concertazione con i sindacati da parte del governo Monti in materia di pensioni e di fisco, risulta perduto il concetto di salario complessivo e di salario differito: i sindacati dovrebbero essere limitati a contrattare le condizioni di lavoro ed il salario diretto, e subire le decisioni politiche riguardo a tutti gli altri aspetti della loro vita economica e sociale (casa trasporti salute ecc.), che ricadono invece in realtà pur sempre nei rapporti tra lavoro salariato e capitale, quindi stanno strutturalmente al centro della vita economica del paese.
In questa visione mi sembrano del tutto inaccettabili gli interventi del governo sulle pensioni:
-         Il taglio delle indicizzazioni (e quindi una tassa diretta sui redditi più bassi, proporzionale all’inflazione, nel frattempo sovralimentata dalle imposte sui carburanti e dall’aumento dell’IVA), perché incide a posteriori sul salario differito, acquisito o conquistato dalle generazioni in precedenza attive (le cui scelte in materia di lavoro ed età di pensionamento sono state anche notevolmente influenzate dai rapporti contrattuali e dalle garanzie previdenziali al tempo ottenute);
-         Il nuovo scalone sulle età di pensionamento ed il passaggio retroattivo (rispetto alla riforma Dini) al sistema contributivo perché mirano ad una eguaglianza esclusivamente verso il basso tra gli attuali pensionandi e le fasce demografiche successive:
-         1 - approfondendo la differenza e forse il risentimento rispetto ai “privilegiati” già in pensione con il sistema retributivo (ma i percettori delle pensioni retributive non possono tornare indietro ora a lavorare di più oppure a rivendicare o versare maggiori contributi)
-         2 - evitando di affrontare invece il problema principale dell’oggi e del futuro, e cioè l’impoverimento progressivo dei giovani lavoratori/precari/disoccupati, che la pensione contributiva faticheranno a vederla, per carenza di lavoro e di contributi, e che risulteranno inoltre beffati dalla promessa posta alla base della riforma Dini, e cioè la contemporanea crescita delle forme di previdenza complementari di tipo capitalistico (impossibili senza reddito e comunque falciate dalla crisi finanziaria)
-         (nota: ma la flessibilità del lavoro e la previdenza complementare non dovevano essere i pilastri del nuovo sviluppo neo-liberista?)
-         3 -   approfondendo nel breve/medio periodo la mancanza di posti di lavoro per i giovani, perché la permanenza dei sessantenni al lavoro per  altri  5 o 6 anni (chi il lavoro lo ha), chiude ogni possibilità di turn over nei posti stessi (ciò avviene meno con un allungamento progressivo dell’età pensionabile, cui potrebbero affiancarsi forme di part time abbinato tra lavoratore uscente elaboratore entrante).
I giovani avranno senz’altro vantaggio da una virtuosa uscita dal circuito deficit/debito, ma questo obiettivo, pur comportando un graduale aumento dell’età di pensione, in rapporto all’allungamento delle speranze di vita, non può dipendere solo dal saldo del bilancio INPS (tuttora positivo, per altro, per i lavoratori dipendenti), bensì dall’insieme delle grandezze macro-economiche (costo del lavoro, produttività, precariato, fisco, evasione, ecc.) e quindi dai rapporti di forza complessivi tra lavoro e capitale, tra profitti e rendite, con la ovvia complicazione della scala internazionale (e sempre più energetica/ambientale) di queste problematiche.
In tale contesto non sarebbe ingiustificato che una parte della spesa pensionistica sia pagata dalla fiscalità generale (ad esempio in favore di chi non riesca  percorrere un adeguato percorso contributivo); mi pare invece che si stia andando nella direzione opposta, con i risparmi sulle pensioni usati per finanziare genericamente la spesa pubblica, compresi sprechi e spese militari.  

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