sabato 5 gennaio 2013

PER UN' I.V.A. ECOLOGICA

Mi sembra che finora l’orizzonte delle alternative al neo-liberismo si limiti alla ricerca di ricette per il rilancio dello sviluppo – contro le politiche monetariste e di austerità finanziaria oltranzista – e per una umanizzazione della crisi, senza aggredire la problematica dell’esaurimento delle risorse e dei limiti di sostenibilità ambientale del pianeta Terra, che impone una revisione profonda del modello di sviluppo (e imporrebbe forse altri criteri e livelli di austerità, almeno per i consumatori più opulenti, non solo occidentali).
I temi ambientali ed il cambiamento climatico non sembrano essere tra le priorità del governo Monti.
Governo, partiti e parti sociali si affannano soprattutto sulla ripresa della crescita, cercando di superare i colpi che il tradizionale modello di sviluppo subisce, sia per la crisi più generale, sia per gli effetti recessivi specifici delle manovre finanziarie correttive approvate dal Parlamento.
Tra queste incombe tuttora, per il 2° semestre del 2013, anche un ulteriore pesante aumento di 2 punti percentuali dell’IVA, su gran parte dei prodotti, esclusi quelli con la tariffa agevolata del 4% (articoli di prima necessità), che avrebbe avuto evidenti effetti inflazionistici sui prezzi e depressivi sui volumi complessivi di consumo.
Inoltre la spending review, come per ora decretata, comporta tagli con ulteriori iniquità sociali ed effetti recessivi.
Mi chiedo se non sia il caso di utilizzare questo dibattito per lanciare e approfondire una seria proposta alternativa (preferibilmente a scala europea), finalizzata ad un superamento della spirale oscillatoria tra recessione e tentativi di rilancio (sempre più difficoltosi) del vecchio modello di sviluppo, ed orientata, invece che a contenere o rilanciare  i consumi, a riqualificare produzione e consumi, a partire per l’appunto dalla leva fiscale (fiscal review) ed in particolare dalla differenziazione “ecologica” delle aliquote IVA (e degli incnetivi alle industrie), generalizzando una logica da “carbon tax”.
Si tratterebbe ad esempio di introdurre una quarta aliquota, nettamente superiore, verso il 30% o 33% (e rivedendo nel contempo con i medesimi criteri la ripartizione degli altri prodotti nelle 3 aliquote inferiori, magari riportando al 20% l’aliquota ordinaria) per i prodotti di lusso e/o particolarmente superflui (od inutilmente esotici), e per tutti quelli che presentino negativi risvolti ambientali, sia nelle fasi di produzione e commercializzazione, sia nelle fasi di utilizzo e smaltimento finale, riguardo a:
-         Consumo di suolo agricolo (fabbricati, impianti produttivi ed energetici)
-         Consumo di energia (veicoli ed elettrodomestici, ed anche fabbricati, con consumi elevati; merci con eccessivi consumi energetici per i trasporti)
-         Emissioni di inquinanti (liquidi, aeriformi, acustici, luminosi)
-         Produzione di imballaggi e di rifiuti residuali.
Una incentivazione e disincentivazione fiscale decisa (volendo anche con gradualità) ed esplicitamente orientata potrebbe innescare virtuosi processi di selezione dei consumi (limitando il peso inflazionisitico per i redditi più bassi e per i consumatori più saggi) e di riorganizzazione produttiva.
Con questa ipotesi di rimodulazione ecologica dell’IVA, se nel frattempo le promesse di revisione della spesa pubblica improduttiva e di lotta all’evasione fiscale dessero buoni risultati, se ne potrebbero utilizzare i benefici non sul fronte IVA, bensì su quelli più strategici del “cuneo fiscale”, sia agendo sull’IRAP (anche qui con discriminanti qualitative, legate anche all’innovazione) sia soprattutto sull’IRPEF a carico degli scaglioni di reddito più bassi, restituendo in permanenza il “fiscal drag”, che raddoppia in beffa il prelievo improprio costituito dall’inflazione, e rappresenta un costante insulto al concetto di “equità”.
Non so se il risultato sarebbe una “decrescita felice”, ma mi accontenterei che si cercasse di evitare una recessione stupida oppure un rilancio miope.
Credo che si debba  coglie positivamente l’occasione di una crisi evidentemente strutturale (connessa anche alla saturazione di  alcuni settori merceologici nei paesi avanzati, ed all’orizzonte di scarsità di alcune materie prime a fronte della crescente domanda mondiale) per mettere in discussione (sfidando le lobbies di settore ad un confronto esplicito sui costi e benefici sociali e ambientali di ogni prodotto) i contenuti della realtà economica italiana ed europea; all’opposto di chi voleva modificare l’art. 41 della Costituzione per consentire tutto ciò che non è vietato: è più che mai necessario verificare socialmente cosa, come e dove produrre (e trasportare) merci.
Altrimenti parlare di ambiente, ecologia e “green economy” continuerà a rimanere un orpello decorativo per i programmi dei governi e dei grandi partiti, ed una mera nicchia di rendita propagandistica per i piccoli partiti, più o meno verdi, e per i movimenti di opposizione radicale.


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