Il dibattito estivo
sull’economia, ora concentrato sul pareggio tra Italia e Germania a -0,2% di
PIL, si era in precedenza attivato sui soli casi nostrani, facendo emergere
malumori verso il finora laudatissimo premier Renzi e portando i più a ribadire
le precedenti ricette di ciascuno, dalle destre che vogliono abolire l’art. 18
dello Statuto dei lavoratori ai neo-Keinesiani che vogliono meno austerità, con
in mezzo i centristi governativi che si arrabattano in equilibrismi per
coniugare crescita e rigore.
(Non conto Grillo, che vuole di nuovo tornare alla lira, ma almeno ci
risparmia l’esempio virtuoso dell’Argentina, e nemmeno Salvini, che ripropone
l’aliquota fiscale unica al 20% su tutti i redditi, ma la presenta come astuta
mossa contro i ricchi per “costringerli” a pagare molto meno di prima).
Più originali, perché di salda
matrice padronale, la ministra Guidi e l’imprenditore Bombassei, che hanno promesso/rivendicato
una “politica industriale”, il che dovrebbe tradursi in un ragionamento sul
ruolo produttivo dell’Italia e conseguenti scelte di priorità nelle
incentivazioni ecc.: tale tema – probabilmente declinato in modo diverso - era
finora era circoscritto alla sinistra ed ai sindacati, mentre da destra si
confidava abitualmente nelle capacità automatiche del mercato e del sistema
delle imprese.
Una riflessione ancora più profonda
sulla direzione in cui muoversi (non solo per l’Italia, e non solo per l’Europa)
emerge dai dubbi espressi da altri, tra cui Gad Lerner e Michele Serra, che si
chiedono se è così giusto e possibile insistere a cercare la crescita, oppure
se è venuto il momento di accettare come ineluttabile l’orizzonte della
stagnazione e cercare di conviverci al meglio, con l’obiettivo di conseguire
meno infelicità per tutti (e probabilmente anche una miglior salute del pianeta
Terra).
Purtroppo su questa opzione (su
cui convergono i miei sentimenti), manca una elaborazione programmatica
credibile, politica ed economica, che faccia da ponte tra la sensibilità di alcuni
opinionisti illuminati e l’estremismo della “decrescita felice” di Latouche o
di Pallante (vedi post e pagina 2, par. 6, di questo blog).
Nessun commento:
Posta un commento