domenica 7 giugno 2015

“ARMI, ACCIAIO E MALATTIE” NELLA STORIA MONDIALE DI JARED DIAMOND

Non ricordo più da dove ho tratto la segnalazione di questo libro che risale al 1997 (nel 1998 premio Pulitzer, e traduzione italiana presso Einaudi, pagg. 366, con il sotto-titolo “Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila  anni”), ma l’ho trovato attuale e interessante, anche se forse le scienze specialistiche su cui si appoggia (archeologia, linguistica, genetica, ecc.) hanno compiuto ulteriori importanti acquisizioni nei successivi diciotto anni.
Sono materie abbastanza lontane dalle mie abituali letture dirette, ma per ricostruire uno scenario di insieme in tali campi mi avvalgo, per interposta persona, dei più vari interessi culturali di Anna, mia moglie e compagna di vita culturale; imitando, nel mio piccolo, lo stesso Diamond, che – laureato in medicina, come il padre, e divenuto ornitologo e poi geografo, svolgendo poi lunghe indagini in Nuova Guinea e altre terre “selvagge” – si sente antropologo e quant’altro occorre alla sua “storia mondiale” anche attraverso l’esperienza di una madre linguista e di una moglie psicologa.

Al culmine di una carriera  multidisciplinare e di una vita cosmopolita, Diamond ha scritto questo testo (attribuendo grande importanza al precedente “Storia e geografia dei geni umani” di L. Luca Cavalli-Sforza&C, uno dei pochissimi italiani citati nell’ampia bibliografia) per rispondere alla domanda posta dal suo amico guineano Yali: perché gli occidentali hanno tutto e noi quasi nulla? E soprattutto per non rispondere che tale divario dipende da diversità razziali innate, bensì essenzialmente dai condizionamenti ambientali.

Ripercorrendo le varie combinazioni di opportunità e casualità che hanno determinato i diversi sviluppi della specie umana negli ultimi millenni nei 5 continenti abitati (così come in generale l’evoluzione delle altre specie), e soprattutto nel passaggio da uno stile di vita paleolitico (raccoglitori-cacciatori in prevalenza nomadi) alle varie forme del neolitico (attraverso la stanzialità, la domesticazione di piante ed animali e quindi la pastorizia e l’agricoltura), Diamond individua il salto di qualità verso l’accumulazione tecnologica nella peculiare dislocazione orizzontale (nella direzione dei paralleli) delle civiltà eurasiatiche, contro la dislocazione verticale (nella direzione dei meridiani) per Africa, Americhe e – interposti mari, in antico più “stretti” – area indonesiana/oceanica.
La contiguità su fasce “orizzontali” con climi analoghi e ragionevolmente temperati dal Mediterraneo (nord-Africa incluso) al Giappone, passando per la “Mezzaluna fertile” del Medio- Oriente (ora assai meno fertile)  e la Cina, avrebbe consentito in Eurasia un frequente scambio (e/o imitazione od imposizione) di innovazioni colturali e culturali (tra cui la ruota, la scrittura e le armi in acciaio), approfittando al massimo della offerta naturale di specie vegetali ed animali oggettivamente domesticabili (il cui numero del mondo è comunque assai limitato), mentre negli altri continenti, frequentati dall’homo sapiens in tempi antichissimi (Africa, origine del Sapiens, ma anche Australia) o più recenti (Americhe), la minore offerta delle suddette opportunità è rimasta molto più circoscritta ai singoli popoli, per la difficoltà di trasmissione attraverso fasce climatiche contigue troppo disparate sull’asse nord-sud.
Contestualmente la prossimità e promiscuità con gli animali addomesticati avrebbe portato le popolazioni eurasiatiche ad accumulare intensi focolai di malattie contagiose, con frequenti crisi demografiche e però con progressiva crescita di  molte specifiche, anche parziali, immunità a tali epidemie, che si sono invece poi scatenate con esiti letali ai primi contatti con le popolazioni esterne al mondo eurasiatico; e solo in alcune regioni africane le malattie locali (malaria, febbre gialla) sono risultate quasi insuperabili per la colonizzazione da parte dei “bianchi”.       
  
Il testo di Diamond approfondisce le vicende preistoriche dei vari continenti, con particolare attenzione al rapporto Europa/America (molto bello lo zoom sulla conquista spagnola del Perù, con i 168 armigeri corazzati ed i cavalli di Pizarro contro gli 80.000 inca di Atahualpa e conseguenti inganni e stermini e schiavizzazione – nonché  epidemie -, il tutto in nome di Cristo) ed al laboratorio genetico e linguistico dell’Oceania, colonizzata in parte dapprima da uomini paleolitici (con scarsissima successiva evoluzione, soprattutto, ad esempio, in Tasmania), poi da “austronesiani”, neo-litici di origine probabilmente cinese, dotati di canoe a bilanciere, a partire dal 2000 a.C. (Indonesia) fino al 500 d.C. (Isola di Pasqua, ma anche – ad ovest e presso l’Africa – il Madagascar), e da ultimo dai bianchi occidentali, spesso sterminatori, dal 18° secolo, con svariati esiti dovuti in gran parte alle differenti condizioni ambientali.
Meno approfonditi mi sono sembrati i racconti sull’Africa e sulle dinamiche interne all’enorme complesso eurasiatico (e quasi nulla è detto sull’India): in particolare solo nell’epilogo Diamond tende a rispondere ad un'altra fondamentale domanda, cioè perché a metà dell’ultimo millennio gli europei svilupparono aggressivamente il loro (più tardivo) accumulo di tecnologie verso il resto del mondo, mentre gli imperi orientali (Cina e Giappone) rallentarono i loro sviluppi e subirono l’iniziativa occidentale; la spiegazione abbozzata da Diamond fa riferimento alla articolazione e varietà geografica dell’Europa (catene montuose, però valicabili, isole e penisole) a fronte di una sostanziale continuità geografica e ad un maggior relativo isolamento (catena himalayana e deserti dell’Asia centrale) del territorio cinese: da qui una unificazione politico-culturale relativamente più facile per la Cina ed i progressi tecnologici assoggettati ai capricci delle élites centralistiche (ad esempio la distruzione della flotta transoceanica nel 15° secolo, e l’abbandono di orologi e filatoi ad acqua; analogamente in Giappone per le armi da fuoco), contro la permanente frammentazione e contrapposizione dei singoli stati europei post-medievali, che non permetteva a nessuno di essi lunghe fasi di isolazionismo e protezionismo anti-tecnologico, pena la subordinazione ai voraci vicini.
Tale spiegazione mi sembra parziale, ed a mio avviso è meritevole di essere verificata e/o integrata con altre considerazioni, ad esempio, sul ruolo dei mercati e dei mercanti, delle religioni e delle ideologie, delle famiglie e degli stati, del debito e dell’accumulazione del capitale (vedi tra le mie recensioni i contributi di Paolo Prodi, David Graeber, Gerard Delille, Acemoglu&Robinson, Giovanni Arrighi).

Parimenti interessante, ma a mio avviso troppo schematica, è nel testo di Diamond la proposizione di una evoluzione dell’organizzazione socio-politica della specie umana in 4 tappe:
-          la banda, costituita da pochi gruppi familiari e senza una sistematica divisione del lavoro;
-          la tribù, più numerosa, ma dove comunque tutti si conoscono, e dove il capo è  - inter pares – uno dei capo-famiglia;
-          la “chefferie” (che io tradurrei in “signoria”), che raggruppa più tribù e più villaggi sotto il comando di un solo capo, con potere spesso assoluto ed ereditario, ed una sostanziale specializzazione nei mestieri, tra cui quello del soldato, mediante prelievi dal surplus produttivo dell’agricoltura; 
-          lo stato, caratterizzato da una burocrazia permanente ed articolata, sorretta da un sistema organico di tassazione (e sostanzialmente dalla presenza della moneta e dalla spersonalizzazione  dei rapporti di lavoro e di scambio).
Anche se queste fasi sono collocate su un percorso crescente “dall’uguaglianza alla cleptocrazia”, e malgrado la simpatia dell’Autore verso gli uomini più primitivi da lui personalmente incontrati, Diamond si distanzia dalla nostalgia dell’età “dell’oro e della pace” propria di molti antropologi con (limitate) esperienze sul campo, soprattutto perché evidenzia i gravi limiti di insicurezza nella gestione dei conflitti con gli ”altri” nelle fasi primordiali, non appena la densità del popolamento renda frequenti i contatti tra bande  e tribù diverse e  con essi gli omicidi come causa prima e crescente di morte; solo la “chefferie” e poi lo stato, monopolizzando la violenza legale, riesce a disinnescare la catena aggressiva delle “molecole sociali” primitive, al prezzo della estrazione del surplus produttivo, con tassi variabili di depredazione aristocratica o ridistribuzione socializzante (e parallelo esercizio più o meno feroce della violenza legalizzata) all’interno della compagine, e rovesciando fuori dai confini (di comunità più vaste) la carica di aggressività (guerre, schiavitù).


Nel finale Diamond si occupa soprattutto del futuro della storia come disciplina scientifica (forse perché come geografo/biologo/ecc. si sente respinto dall’attigua accademia degli storici) e meno del futuro dell’umanità,  sul quale a mio avviso il vasto paesaggio storico/geografico di questo testo può aiutare a porre importanti domande (pur senza alcuna meccanicistica risposta). 

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