Non ricordo più da dove ho tratto
la segnalazione di questo libro che risale al 1997 (nel 1998 premio Pulitzer, e
traduzione italiana presso Einaudi, pagg. 366, con il sotto-titolo “Breve
storia del mondo negli ultimi tredicimila
anni”), ma l’ho trovato attuale e interessante, anche se forse le
scienze specialistiche su cui si appoggia (archeologia, linguistica, genetica, ecc.)
hanno compiuto ulteriori importanti acquisizioni nei successivi diciotto anni.
Sono materie abbastanza lontane
dalle mie abituali letture dirette, ma per ricostruire uno scenario di insieme
in tali campi mi avvalgo, per interposta persona, dei più vari interessi
culturali di Anna, mia moglie e compagna di vita culturale; imitando, nel mio
piccolo, lo stesso Diamond, che – laureato in medicina, come il padre, e
divenuto ornitologo e poi geografo, svolgendo poi lunghe indagini in Nuova
Guinea e altre terre “selvagge” – si sente antropologo e quant’altro occorre
alla sua “storia mondiale” anche attraverso l’esperienza di una madre linguista
e di una moglie psicologa.
Al culmine di una carriera multidisciplinare e di una vita cosmopolita,
Diamond ha scritto questo testo (attribuendo grande importanza al precedente
“Storia e geografia dei geni umani” di L. Luca Cavalli-Sforza&C, uno dei
pochissimi italiani citati nell’ampia bibliografia) per rispondere alla domanda
posta dal suo amico guineano Yali: perché gli occidentali hanno tutto e noi
quasi nulla? E soprattutto per non rispondere che tale divario dipende da
diversità razziali innate, bensì essenzialmente dai condizionamenti ambientali.
Ripercorrendo le varie
combinazioni di opportunità e casualità che hanno determinato i diversi
sviluppi della specie umana negli ultimi millenni nei 5 continenti abitati
(così come in generale l’evoluzione delle altre specie), e soprattutto nel
passaggio da uno stile di vita paleolitico (raccoglitori-cacciatori in
prevalenza nomadi) alle varie forme del neolitico (attraverso la stanzialità,
la domesticazione di piante ed animali e quindi la pastorizia e l’agricoltura),
Diamond individua il salto di qualità verso l’accumulazione tecnologica nella
peculiare dislocazione orizzontale (nella direzione dei paralleli) delle
civiltà eurasiatiche, contro la dislocazione verticale (nella direzione dei
meridiani) per Africa, Americhe e – interposti mari, in antico più “stretti” –
area indonesiana/oceanica.
La contiguità su fasce
“orizzontali” con climi analoghi e ragionevolmente temperati dal Mediterraneo
(nord-Africa incluso) al Giappone, passando per la “Mezzaluna fertile” del
Medio- Oriente (ora assai meno fertile) e la Cina, avrebbe consentito in Eurasia un
frequente scambio (e/o imitazione od imposizione) di innovazioni colturali e
culturali (tra cui la ruota, la scrittura e le armi in acciaio), approfittando
al massimo della offerta naturale di specie vegetali ed animali oggettivamente
domesticabili (il cui numero del mondo è comunque assai limitato), mentre negli
altri continenti, frequentati dall’homo sapiens in tempi antichissimi (Africa,
origine del Sapiens, ma anche Australia) o più recenti (Americhe), la minore
offerta delle suddette opportunità è rimasta molto più circoscritta ai singoli
popoli, per la difficoltà di trasmissione attraverso fasce climatiche contigue
troppo disparate sull’asse nord-sud.
Contestualmente la prossimità e
promiscuità con gli animali addomesticati avrebbe portato le popolazioni
eurasiatiche ad accumulare intensi focolai di malattie contagiose, con
frequenti crisi demografiche e però con progressiva crescita di molte specifiche, anche parziali, immunità a
tali epidemie, che si sono invece poi scatenate con esiti letali ai primi
contatti con le popolazioni esterne al mondo eurasiatico; e solo in alcune
regioni africane le malattie locali (malaria, febbre gialla) sono risultate
quasi insuperabili per la colonizzazione da parte dei “bianchi”.
Il testo di Diamond approfondisce
le vicende preistoriche dei vari continenti, con particolare attenzione al
rapporto Europa/America (molto bello lo zoom sulla conquista spagnola del Perù,
con i 168 armigeri corazzati ed i cavalli di Pizarro contro gli 80.000 inca di
Atahualpa e conseguenti inganni e stermini e schiavizzazione – nonché epidemie -, il tutto in nome di Cristo) ed al
laboratorio genetico e linguistico dell’Oceania, colonizzata in parte dapprima
da uomini paleolitici (con scarsissima successiva evoluzione, soprattutto, ad
esempio, in Tasmania), poi da “austronesiani”, neo-litici di origine
probabilmente cinese, dotati di canoe a bilanciere, a partire dal 2000 a.C.
(Indonesia) fino al 500 d.C. (Isola di Pasqua, ma anche – ad ovest e presso
l’Africa – il Madagascar), e da ultimo dai bianchi occidentali, spesso
sterminatori, dal 18° secolo, con svariati esiti dovuti in gran parte alle
differenti condizioni ambientali.
Meno approfonditi mi sono
sembrati i racconti sull’Africa e sulle dinamiche interne all’enorme complesso
eurasiatico (e quasi nulla è detto sull’India): in particolare solo
nell’epilogo Diamond tende a rispondere ad un'altra fondamentale domanda, cioè
perché a metà dell’ultimo millennio gli europei svilupparono aggressivamente il
loro (più tardivo) accumulo di tecnologie verso il resto del mondo, mentre gli
imperi orientali (Cina e Giappone) rallentarono i loro sviluppi e subirono l’iniziativa
occidentale; la spiegazione abbozzata da Diamond fa riferimento alla
articolazione e varietà geografica dell’Europa (catene montuose, però
valicabili, isole e penisole) a fronte di una sostanziale continuità geografica
e ad un maggior relativo isolamento (catena himalayana e deserti dell’Asia
centrale) del territorio cinese: da qui una unificazione politico-culturale
relativamente più facile per la Cina ed i progressi tecnologici assoggettati ai
capricci delle élites centralistiche (ad esempio la distruzione della flotta
transoceanica nel 15° secolo, e l’abbandono di orologi e filatoi ad acqua;
analogamente in Giappone per le armi da fuoco), contro la permanente
frammentazione e contrapposizione dei singoli stati europei post-medievali, che
non permetteva a nessuno di essi lunghe fasi di isolazionismo e protezionismo
anti-tecnologico, pena la subordinazione ai voraci vicini.
Tale spiegazione mi sembra
parziale, ed a mio avviso è meritevole di essere verificata e/o integrata con
altre considerazioni, ad esempio, sul ruolo dei mercati e dei mercanti, delle
religioni e delle ideologie, delle famiglie e degli stati, del debito e
dell’accumulazione del capitale (vedi tra le mie recensioni i contributi di
Paolo Prodi, David Graeber, Gerard Delille, Acemoglu&Robinson, Giovanni
Arrighi).
Parimenti interessante, ma a mio
avviso troppo schematica, è nel testo di Diamond la proposizione di una
evoluzione dell’organizzazione socio-politica della specie umana in 4 tappe:
-
la banda, costituita da pochi gruppi familiari e
senza una sistematica divisione del lavoro;
-
la tribù, più numerosa, ma dove comunque tutti
si conoscono, e dove il capo è - inter
pares – uno dei capo-famiglia;
-
la “chefferie” (che io tradurrei in “signoria”),
che raggruppa più tribù e più villaggi sotto il comando di un solo capo, con
potere spesso assoluto ed ereditario, ed una sostanziale specializzazione nei
mestieri, tra cui quello del soldato, mediante prelievi dal surplus produttivo
dell’agricoltura;
-
lo stato, caratterizzato da una burocrazia
permanente ed articolata, sorretta da un sistema organico di tassazione (e
sostanzialmente dalla presenza della moneta e dalla spersonalizzazione dei rapporti di lavoro e di scambio).
Anche se queste fasi sono
collocate su un percorso crescente “dall’uguaglianza alla cleptocrazia”, e
malgrado la simpatia dell’Autore verso gli uomini più primitivi da lui
personalmente incontrati, Diamond si distanzia dalla nostalgia dell’età “dell’oro
e della pace” propria di molti antropologi con (limitate) esperienze sul campo,
soprattutto perché evidenzia i gravi limiti di insicurezza nella gestione dei
conflitti con gli ”altri” nelle fasi primordiali, non appena la densità del
popolamento renda frequenti i contatti tra bande e tribù diverse e con essi gli omicidi come causa prima e
crescente di morte; solo la “chefferie” e poi lo stato, monopolizzando la
violenza legale, riesce a disinnescare la catena aggressiva delle “molecole
sociali” primitive, al prezzo della estrazione del surplus produttivo, con
tassi variabili di depredazione aristocratica o ridistribuzione socializzante
(e parallelo esercizio più o meno feroce della violenza legalizzata)
all’interno della compagine, e rovesciando fuori dai confini (di comunità più
vaste) la carica di aggressività (guerre, schiavitù).
Nel finale Diamond si occupa
soprattutto del futuro della storia come disciplina scientifica (forse perché
come geografo/biologo/ecc. si sente respinto dall’attigua accademia degli
storici) e meno del futuro dell’umanità, sul quale a mio avviso il vasto paesaggio
storico/geografico di questo testo può aiutare a porre importanti domande (pur
senza alcuna meccanicistica risposta).
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