domenica 19 luglio 2015

LO STATO INNOVATORE DI MARIANA MAZZUCATO

Il testo “Lo stato innovatore” (Laterza, Bari pagg. 351) di Mariana Mazzucato è uscito (tradotto) in Italia nel maggio 2014 (in USA e Gran Bretagna nel 2013) ed ha suscitato l’anno scorso un discreto dibattito,  tra gli specialisti e sui media, sia per l’autorevolezza dell’Autrice, ricercatrice e docente italo-americana e cattedratica dell’Università del Sussex, sia per la chiarezza e nettezza dei contenuti.
Spiace constatare che, passato il clamore mediatico, il dibattito politico-economico nostrano (ed europeo) resti incagliato sui consueti temi, senza apparenti scalfitture e però anche senza serie confutazioni delle tesi della Mazzucato.

Dimostrando le sue affermazioni con documentate ricerche, proprie ed altrui, l’Autrice tende a smontare alcuni miti ricorrenti nel pensiero economico e nella pratica politica di molti paesi; tra questi:
-          che la piccola impresa sia comunque e sempre da privilegiare perché dinamica e creativa;
-          che il successo delle nuove imprese (tipo Silicon Valley) sia effettivamente sostenuto dagli investimenti del “venture capital”, il quale invece interviene solo in fase di imminente decollo della commercializzazione di nuovi prodotti (senza scommettere sulla ricerca di base), per poi uscirne al più presto con la quotazione in borsa o cessione/fusione delle nuove aziende (con il rischio di stroncarne l’effettiva capacità innovativa);
-          che la crescita e l’innovazione siano direttamente proporzionali al numero dei brevetti (i quali invece divengono spesso elementi di freno e ingabbiamento della ricerca) ed all’entità della spesa  ufficialmente definita di “Ricerca&Sviluppo”, mentre tale importo può includere mere spese di marketing e commercializzazione: è invece decisivo distinguere la qualità delle connessioni che si istaurano tra università, enti di ricerca ed aziende (la rete eco-simbiotica dell’innovazione).

Viceversa la Mazzucato, attraversando in lungo ed in largo le vicende dello sviluppo tecnologico ed economico dei trascorsi decenni, si impegna a dimostrare il ruolo, indispensabile e spesso misconosciuto, svolto da specifiche agenzie e iniziative statali, nella liberistica America (anche sotto i presidenti repubblicani) e altrove, per la realizzazione dei più importanti percorsi strategici dell’innovazione, quali ad esempio:
-          informatica e internet, dalla Darpa americana (iniziata a fine anni 50 in risposta ai successi tecnologico-militari dell’Union Sovietica, al tempo degli Sputnik) alla concertazione Stato-imprese peculiare del Giappone  e della Corea;
-          energie rinnovabili, dalla Germania alla Danimarca, e poi in Cina ed in Brasile, ma anche con grandi investimenti pubblici, ancorché discontinui (anche per le resistenze delle lobbies carbon-petrolifere), e per questo meno efficaci, degli stessi USA;
-          bio-tecnologie, nanotecnologie, ricerca farmaceutica per le malattie rare.
In tutti questi (ed altri) casi, secondo la Mazzucato, solo lo Stato può avere le risorse, il coraggio e la pazienza per sostenere ricerche di base ed applicative senza immediato sbocco, con grossi rischi di fallimenti (vedi il caso dell’aereo Concorde), che però lo Stato stesso può bilanciare con l’insieme dei risultati positivi del suo ruolo di Grande Innovatore.

La Mazzucato non intende sminuire il compito centrale delle imprese private nello sviluppo commerciale dei nuovi prodotti, ma sottolinea come lo Stato, oltre ad assicurare le funzioni fondamentali del vivere civile ed a sobbarcarsi i costi delle infrastrutture materiali ed immateriali di scarso rendimento finanziario (dalle ferrovie all’istruzione), oltre a regolare ed orientare i mercati – e quindi anche la domanda dei nuovi prodotti – con le norme ed il fisco, oltre ad agevolare l’iniziativa delle imprese stesse ed a smorzarne i rischi o gli effetti dei fallimenti, deve intervenire pesantemente e costantemente nella promozione dei nuovi fronti di ricerca, per assicurarsi il conseguimento di obiettivi generali (dalla egoistica supremazia politico militare del proprio stato ai più nobili fronti della qualità ambientale e della salute e del benessere dei cittadini).

Il testo si occupa in particolare del successo della Apple (anche perché tanto pubblicizzato dall’azienda stessa) per indicare quanto i nuovi prodotti dell’azienda di Cupertino siano in realtà fondati su fondamentali scoperte messe a disposizione della ricerca pubblica, dai micro-processori agli schermi a cristalli liquidi, da internet al GPS (per citare solo 4 dei 12 capi d’accusa); ed analizza Apple anche come tipico esempio di multinazionale che de-localizza il lavoro ed elude il fisco (giocando anche tra le diverse aliquote di imposta tra California e Nevada), comprime i salari e le carriere dei livelli medio-bassi a vantaggio di top-manager e azionisti, in un processo complessivo di privatizzazione dei guadagni e di socializzazione dei costi (analogo e forse più spudorato processo è quello illustrato dall’Autrice per il settore farmaceutico).

Un altro lungo capitolo (molto interessante per chi abbia sensibilità ecologiche) è dedicato alle strettoie, tecnologiche e finanziarie, del difficile cammino verso un’industria energetica non inquinante.

Nella parte conclusiva il testo propone alcuni criteri per la riappropriazione pubblica dei benefici derivanti dall’impegno innovatore dello Stato (del tipo royalties sulle scoperte della ricerca di base, restituzione a lungo termine dei fondi iniziali di sostegno alle nuove imprese oppure mantenimento di quote azionarie) in un quadro generale di riequilibrio fiscale, fondato su una corretta ri-considerazione del premio da riconoscere al rischio (non dei soli azionisti e top-manager, ma anche dei lavoratori e dello stesso Stato) e finalizzato a sostenere una copiosa  e costante politica di investimento nell’istruzione  e nella ricerca (anche e soprattutto nei paesi più deboli dell’Europa, tra cui l’Italia, dove invece si punta solo a ridurre l’insieme della spesa pubblica). 

Complessivamente “Lo Stato Innovatore” si configura a mio avviso soprattutto come uno strumento di battaglia culturale per la de-mistificazione di alcuni fondamenti del pensiero e della propaganda neo-liberista (del tipo “stato minimo e briglia sciolta alle imprese”, “tutto il merito va al venture capital, quindi detassateci”, “il valore azionario premia il rischio” ), e la sua importanza risiede anche nella autorevolezza della  Mazzucato all’interno del mondo accademico anglosassone.
L’ottica della Mazzucato resta comunque “sviluppista” ed assume la sostenibilità ambientale solo quale ragionevole ed auspicabile scelta di uno stato innovatore, e non come una necessià oggettiva, correlata ai limiti delle risorse.
Tuttavia, nel debole panorama delle serie alternative allo “stato di cose presente”, cioè del finanz-capitalismo e della privatizzazione imperante, la posizione della Mazzucato si differenzia dalla mera riproposizione delle ricette neo-keynesiane (rilancio dei consumi e della spesa pubblica, anche in deficit) così come dalla generica invocazione di una “politica industriale” e di un rilancio degli investimenti pubblici, perché mostra precisamente in quali fasi del processo di ricerca e di nascita di aziende innovative si collochi il necessario ed insostituibile intervento dello Stato, che rischia e che sceglie, guidato da una visione generale di lungo respiro.
(Che per l’Europa, se sopravvive alla crisi greca, dovrebbe secondo me assumere una dimensione continentale)
Intanto in Italia, paese ideologicamente orientato in prevalenza verso le privatizzazioni (ma in realtà tuttora permeato da ENI ENEL FS POSTE FINMECCANICA MUNICIPALIZZATE ecc.), ed attraversato da inestricabili gorghi corruttivi, la proposta di nuove connessioni tra pubblico e privato, con la discrezionalità e l’agilità suggerite dalla Mazzuccato, non può che spaventare: cosicché gli intrecci di fatto continuano, mentre manca un trasparente confronto sul miglior orientamento delle risorse pubbliche (a partire da quelle esistenti) nella direzione di una effettiva e strategica innovazione.

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