Il testo “Lo stato innovatore”
(Laterza, Bari pagg. 351) di Mariana Mazzucato è uscito (tradotto) in Italia
nel maggio 2014 (in USA e Gran Bretagna nel 2013) ed ha suscitato l’anno scorso
un discreto dibattito, tra gli
specialisti e sui media, sia per l’autorevolezza dell’Autrice, ricercatrice e
docente italo-americana e cattedratica dell’Università del Sussex, sia per la
chiarezza e nettezza dei contenuti.
Spiace constatare che, passato il clamore mediatico, il dibattito
politico-economico nostrano (ed europeo) resti incagliato sui consueti temi,
senza apparenti scalfitture e però anche senza serie confutazioni delle tesi
della Mazzucato.
Dimostrando le sue affermazioni
con documentate ricerche, proprie ed altrui, l’Autrice tende a smontare alcuni
miti ricorrenti nel pensiero economico e nella pratica politica di molti paesi;
tra questi:
-
che la piccola impresa sia comunque e sempre da
privilegiare perché dinamica e creativa;
-
che il successo delle nuove imprese (tipo Silicon
Valley) sia effettivamente sostenuto dagli investimenti del “venture capital”,
il quale invece interviene solo in fase di imminente decollo della
commercializzazione di nuovi prodotti (senza scommettere sulla ricerca di base),
per poi uscirne al più presto con la quotazione in borsa o cessione/fusione
delle nuove aziende (con il rischio di stroncarne l’effettiva capacità
innovativa);
-
che la crescita e l’innovazione siano
direttamente proporzionali al numero dei brevetti (i quali invece divengono
spesso elementi di freno e ingabbiamento della ricerca) ed all’entità della
spesa ufficialmente definita di
“Ricerca&Sviluppo”, mentre tale importo può includere mere spese di
marketing e commercializzazione: è invece decisivo distinguere la qualità delle
connessioni che si istaurano tra università, enti di ricerca ed aziende (la
rete eco-simbiotica dell’innovazione).
Viceversa la Mazzucato,
attraversando in lungo ed in largo le vicende dello sviluppo tecnologico ed
economico dei trascorsi decenni, si impegna a dimostrare il ruolo,
indispensabile e spesso misconosciuto, svolto da specifiche agenzie e
iniziative statali, nella liberistica America (anche sotto i presidenti
repubblicani) e altrove, per la realizzazione dei più importanti percorsi
strategici dell’innovazione, quali ad esempio:
-
informatica e internet, dalla Darpa americana
(iniziata a fine anni 50 in risposta ai successi tecnologico-militari
dell’Union Sovietica, al tempo degli Sputnik) alla concertazione Stato-imprese
peculiare del Giappone e della Corea;
-
energie rinnovabili, dalla Germania alla
Danimarca, e poi in Cina ed in Brasile, ma anche con grandi investimenti
pubblici, ancorché discontinui (anche per le resistenze delle lobbies
carbon-petrolifere), e per questo meno efficaci, degli stessi USA;
-
bio-tecnologie, nanotecnologie, ricerca
farmaceutica per le malattie rare.
In tutti questi (ed altri) casi,
secondo la Mazzucato, solo lo Stato può avere le risorse, il coraggio e la
pazienza per sostenere ricerche di base ed applicative senza immediato sbocco,
con grossi rischi di fallimenti (vedi il caso dell’aereo Concorde), che però lo
Stato stesso può bilanciare con l’insieme dei risultati positivi del suo ruolo
di Grande Innovatore.
La Mazzucato non intende sminuire
il compito centrale delle imprese private nello sviluppo commerciale dei nuovi
prodotti, ma sottolinea come lo Stato, oltre ad assicurare le funzioni
fondamentali del vivere civile ed a sobbarcarsi i costi delle infrastrutture
materiali ed immateriali di scarso rendimento finanziario (dalle ferrovie
all’istruzione), oltre a regolare ed orientare i mercati – e quindi anche la
domanda dei nuovi prodotti – con le norme ed il fisco, oltre ad agevolare
l’iniziativa delle imprese stesse ed a smorzarne i rischi o gli effetti dei
fallimenti, deve intervenire pesantemente e costantemente nella promozione dei
nuovi fronti di ricerca, per assicurarsi il conseguimento di obiettivi generali
(dalla egoistica supremazia politico militare del proprio stato ai più nobili
fronti della qualità ambientale e della salute e del benessere dei cittadini).
Il testo si occupa in particolare
del successo della Apple (anche perché tanto pubblicizzato dall’azienda stessa)
per indicare quanto i nuovi prodotti dell’azienda di Cupertino siano in realtà
fondati su fondamentali scoperte messe a disposizione della ricerca pubblica,
dai micro-processori agli schermi a cristalli liquidi, da internet al GPS (per
citare solo 4 dei 12 capi d’accusa); ed analizza Apple anche come tipico
esempio di multinazionale che de-localizza il lavoro ed elude il fisco
(giocando anche tra le diverse aliquote di imposta tra California e Nevada),
comprime i salari e le carriere dei livelli medio-bassi a vantaggio di
top-manager e azionisti, in un processo complessivo di privatizzazione dei
guadagni e di socializzazione dei costi (analogo e forse più spudorato processo
è quello illustrato dall’Autrice per il settore farmaceutico).
Un altro lungo capitolo (molto interessante per chi abbia
sensibilità ecologiche) è dedicato alle strettoie, tecnologiche e finanziarie,
del difficile cammino verso un’industria energetica non inquinante.
Nella parte conclusiva il testo
propone alcuni criteri per la riappropriazione pubblica dei benefici derivanti
dall’impegno innovatore dello Stato (del tipo royalties sulle scoperte della
ricerca di base, restituzione a lungo termine dei fondi iniziali di sostegno
alle nuove imprese oppure mantenimento di quote azionarie) in un quadro
generale di riequilibrio fiscale, fondato su una corretta ri-considerazione del
premio da riconoscere al rischio (non dei soli azionisti e top-manager, ma
anche dei lavoratori e dello stesso Stato) e finalizzato a sostenere una
copiosa e costante politica di investimento
nell’istruzione e nella ricerca (anche e
soprattutto nei paesi più deboli dell’Europa, tra cui l’Italia, dove invece si
punta solo a ridurre l’insieme della spesa pubblica).
Complessivamente “Lo Stato Innovatore” si configura a mio avviso soprattutto
come uno strumento di battaglia culturale per la de-mistificazione di alcuni
fondamenti del pensiero e della propaganda neo-liberista (del tipo “stato
minimo e briglia sciolta alle imprese”, “tutto il merito va al venture capital,
quindi detassateci”, “il valore azionario premia il rischio” ), e la sua
importanza risiede anche nella autorevolezza della Mazzucato all’interno del mondo accademico
anglosassone.
L’ottica della Mazzucato resta comunque “sviluppista” ed assume la
sostenibilità ambientale solo quale ragionevole ed auspicabile scelta di uno
stato innovatore, e non come una necessià oggettiva, correlata ai limiti delle
risorse.
Tuttavia, nel debole panorama delle serie alternative allo “stato di
cose presente”, cioè del finanz-capitalismo e della privatizzazione imperante,
la posizione della Mazzucato si differenzia dalla mera riproposizione delle
ricette neo-keynesiane (rilancio dei consumi e della spesa pubblica, anche in
deficit) così come dalla generica invocazione di una “politica industriale” e
di un rilancio degli investimenti pubblici, perché mostra precisamente in quali
fasi del processo di ricerca e di nascita di aziende innovative si collochi il
necessario ed insostituibile intervento dello Stato, che rischia e che sceglie,
guidato da una visione generale di lungo respiro.
(Che per l’Europa, se sopravvive alla crisi greca, dovrebbe secondo me
assumere una dimensione continentale)
Intanto
in Italia, paese ideologicamente orientato in prevalenza verso le
privatizzazioni (ma in realtà tuttora permeato da ENI ENEL FS POSTE
FINMECCANICA MUNICIPALIZZATE ecc.), ed attraversato da inestricabili gorghi
corruttivi, la proposta di nuove connessioni tra pubblico e privato, con la
discrezionalità e l’agilità suggerite dalla Mazzuccato, non può che spaventare:
cosicché gli intrecci di fatto continuano, mentre manca un trasparente
confronto sul miglior orientamento delle risorse pubbliche (a partire da quelle
esistenti) nella direzione di una effettiva e strategica innovazione.
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