Il terzo numero della serie di
“Urbanistica” con direzione Oliva, pur molto interessante, mantiene abbastanza
poco la promessa di occuparsi più della città (europea) che dei “piani”.
Così è infatti:
-
per la commemorazione di Bruno Gabrielli, perché
il delicato e avvincente racconto di Paolo Fusero tratta più di Piani travolti
da cambi di maggioranze comunali (Piacenza, Parma) che non dei Piani attuati o
dell’esperienza decennale di Gabrielli a Genova come Assessore (colgo l’occasione per aggiungere il mio
piccolo personale ricordo di Gabrielli come comunicatore chiaro, concreto e
assai poco presuntuoso, in vari convegni dell’INU, così come appariva anche dai
suoi testi);
-
per gli articoli sui “piani di rigenerazione”
proposti da Arturo Lanzani in Brianza, fondati sulla ricucitura dei margini tra
urbano e “ambientale”, e da Carlo Gasparrini in varie località del Centro-Sud,
assumendo il paesaggio come chiave di ricomposizione progettuale, ed a maggior
ragione per il commento di Bertrando Bonfantini che li accompagna, ravvisandone
una svolta di paradigma rispetto al modello di Piano conforme allo “schema
INU”, ormai codificato da un serie di manuali (sempre parlando di Piani, dalle riflessioni di Lanzani su Desio e
Monza, che si aprono in parte anche ad una rivisitazione della figura
sociale/politica degli urbanisti ed ai limiti della legislazione regionale
lombarda, mi sarei aspettato un maggior approfondimento critico sulla
esperienza del primo ciclo dei Piani di Governo del Territorio in Lombardia, ed
in particolare sulle diverse versioni del primo PGT di Monza, avviato da
Massimo Giuliani con il criterio della “selezione-concorsuale” tra possibili
ambiti di trasformazione, ampiamente illustrato in incontri e riviste dell’INU)
;
-
per gli interventi di Calavita e Coppola sul
prelievo “laterale” sulla rendita urbana attraverso le peculiari forme locali
dell’urbanistica contrattata negli USA, sia perché per l’appunto si parla di
America e non di Europa (come invece sul tema rendita fanno più avanti Munoz e
Cuadrado), ma anche perché si espongono casi in fase progettuale più che non
nelle successive fasi di attuazione e gestione;
-
ed in parte anche per il servizio centrale sul
rischio sismico, perché, pur riferendo concretamente i diversi esiti parziali
dei processi di ricostruzione in Abruzzo ed in Emilia, l’accento è posto
soprattutto sul mancato utilizzo operativo degli specifici contributi offerti
dagli urbanisti (in particolare per L’Aquila) e sulle difficoltà del recupero
dei centri storici emiliani, pur nell’ambito di un successo complessivo degli
altri aspetti di questa vicenda di rapida ricostruzione.
A partire dai temi di fondo di
questo numero di “Urbanistica”, attinenti alla ricerca di una maggior
“resilienza” nell’auspicata “rigenerazione urbana”, mi appare opportuno
connettere alcune proposizioni emergenti da singoli articoli:
-
Stefano Storchi, nel riassumere l’esperienza di
Bruno Gabrielli alla guida (trentennale) dell’ANCSA - Associazione Nazionale
Centri Storici – ne ricordava la soddisfazione per avere vinto come
Associazione, dal 1960 al 2010, la battaglia culturale per l’idea della
salvaguardia dei tessuti storici, e nel contempo la preoccupazione per le
difficoltà di rendere effettiva tale salvaguardia sul terreno concreto della
manutenzione, dalla ri-progettazione funzionale, della gestione;
-
Federico Oliva evidenzia un ulteriore grado di
importanza della ri-progettazione per comparti (impiantistica, energetica,
catastale e funzionale, oltre il “dov’era e com’era”) per una efficace recupero
dei centri storici colpiti dai terremoti;
-
Scira Menoni, in forma più scientifica, e
Giuseppe Campos Venuti, in forma memorial-anedottica, richiamano la qualità culturale
acquisita nelle esperienze italiane di ricostruzione post-terremoti ed anche di
prevenzione del rischio sismico;
-
L’intervista di Federico Oliva al prefetto
Franco Gabrielli, evidenzia invece la sproporzione tra quanto l’Italia spende
ogni anno per la riparazione dei danni derivanti dai terremoti (oltre 3
miliardi di €, che includono l’adeguamento anti-sismico dei territori colpiti),
il poco che investe per la prevenzione nei restanti territori (3 miliardi di €
in 30 anni, destinati alla classificazione dei rischi ed al rafforzamento di
edifici strategici quali scuole, ospedali ecc.) e l’enorme importo che avrebbe
un programma integrale di messa in sicurezza del patrimonio edilizio pubblico e
privato (centinaia di miliardi di €).
Un
programma che – anche attuandolo gradualmente, ma sul serio, cioè in 20 anni ad
esempio, e non in un secolo - comporterebbe il capovolgimento di priorità
tra consumi e investimenti, tassazione e debito pubblico, e che la società
italiana (prima ancora dei partiti che la rappresentano) non mostra affatto di
volersi prendere in carico (le cose stanno un po’ meno peggio, a quel che ho
capito, nella sproporzione tra bisogni e risorse sul fronte dei rischi
idrogeologici, dove comunque finora pesa una rilevante inefficienza nella
attuazione dei programmi delineati): il che a mio avviso vanifica nella
sostanza gran parte della bontà culturale accumulata in materia di resilienza, di rigenerazione
urbana e di salvaguardia del patrimonio storico.
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