venerdì 29 giugno 2018

ANCORA SUL GOVERNO DEL CAMBIAMENTO


Anche se l’evidenza delle cose, dette, fatte e non-fatte, dal solo Ministro degli Interni, in queste prime settimane, qualifica a sufficienza il “Governo del Cambiamento”, ho ritenuto doveroso completare una mia valutazione sulla ‘sostenibilità ambientale’ del Contratto di Governo (come ho preannunciato nel mio primo commento del 2 giugno) attraverso la lettura del testo ufficiale siglato dalle due forze politiche e fatto proprio dal Presidente del Consiglio, e quindi dal Parlamento.



La discriminante dell’UMANITÀ emerge a chiare lettere anche dal testo, e non solo dalla priorità mostrata dal Governo nel respingere profughi e migranti e nel criminalizzare le Organizzazioni Non Governative impegnate nei salvataggi dei naufraghi nel Mar Libico: “UMANITÀ” che non compare mai quale soggetto unitario, titolare dei problemi globali del pianeta Terra (ci sono solo “gli italiani”, oppure “i cittadini”), ed “UMANITÀ” che si esclude di provare come sentimento portante ed empatia nei confronti degli ultimi della Terra, né per accoglierli quando bussano alle nostre porte (i richiedenti asilo visti come dovere mal sopportato, da ripartire con gli altri paesi europei, migranti visti come “la minaccia dal fronte meridionale alla sicurezza della nazione”), né per “aiutarli a casa loro”, perchè dei programmi di cooperazione internazionale non vi è traccia nel contratto, troppo impegnato sul benessere “dei cittadini”.

A mio avvio senza compartecipazione con l’intera umanità non esiste una vera sostenibilità ambientale, e non solo per motivi di equità, ma anche perché l’aggravamento degli squilibri internazionali alla lunga non giova né alla stabilità politica (e quindi alla sicurezza militare) né alla implementazione delle politiche ecologiche.



Altra questione fondamentale è quella delle DISUGUAGLIANZE SOCIALI, che nel Contratto sono esaminate solo verso il basso, prospettando ai disoccupati (italiani) il reddito di cittadinanza ed il sostegno nella ricerca del lavoro, il salario minimo e la riaffermazione dei diritti sociali fondamentali (istruzione e sanità; acqua pubblica; NOTA: non invece la casa, l’informazione, l’energia), ma volutamente ignorate verso l’alto, con 3 sole eccezioni:

-          la ricerca di una tassazione dei colossi multinazionali del web, ma isolata da una visione complessiva sia del ruolo monopolistico e manipolatorio (sui nostri dati) da parte di tali imprese, sia del controllo fiscale su tutte le multinazionali e sul connesso problema dei ‘paradisi fiscali’;

-          i privilegi della ‘casta dei politici in pensione’ (vitalizi) e dell’attigua ‘casta dei pensionati d’oro’ (la cui auspicabile eliminazione produrrà pochi quattrini, mentre il denunciarli ha fruttato milioni di voti…).

La contestuale promessa della “flat tax”, cioè dell’abbattimento delle aliquote progressive nelle imposte sui redditi,  equivale alla proclamazione della SANTITÀ DI TUTTI GLI ALTRI PRIVILEGI SOCIALI, derivanti da rendita o da profitto, dagli altissimi  stipendi dei manager e dai proventi delle speculazioni finanziarie, perché, apparentemente, non sono soldi ‘tolti ai cittadini’ (salvo promettere a parte di questi privilegiati anche convenienti forme di condono fiscale, queste sì a spese degli altri cittadini, che spero in tal caso scendano in piazza gridando “Onestà, Onestà”).

E senza lotta alle disuguaglianze, sempre a mio avviso, non c’è sostenibilità ambientale, non solo per motivi etici, ma perché il pianeta Terra non potrà sopportare a lungo l’espansione di consumi opulenti, né il sistema finanziario sopportare l’accumulo senza fine di ricchezze finanziarie ‘vaganti’ (soprattutto se vagano ‘off shore’).



Tralascerei, benchè decisiva, la questione della COMPATIBILITÀ ECONOMICA delle promesse di governo rispetto alle risorse disponibili, perché argomento già dissezionato da molti autorevoli commentatori (forse tra questi va contemplato anche il ministro dell’Economia Tria, i cui  pacati ragionamenti sembrano estranei agli slanci della compagine del suo stesso governo: vedremo a settembre  chi scriverà la ‘Finanziaria’ e cosa ci scriverà dentro): ma il conflitto tra le facili promesse e la dura realtà economica non mina la sostenibilità ambientale solo sul fronte della stabilità dei prezzi e dei risparmi (a mio avviso non c’è sostenibilità ambientale senza sostenibilità socio-economica, e non possono esserci priorità ecologiche di spesa se franano le finanze pubbliche), ma anche nella prospettiva (per altro, credo, fallace) di un rilancio della crescita del PIL oltre il 3% annuo, in un paese già sviluppato, misura che renderebbe forse credibili le ipotesi di diminuzione del debito pur attraverso un temporaneo maggior ‘deficit spending’ (un keynesismo assai fuori contesto), ma minaccerebbe in sostanza la stessa compatibilità ambientale in quanto fondato su un eccesso di ‘consumi opulenti’.



E qui vengo al punto specifico del paragrafo ambientale del Patto di Governo, che risulta decorosamente scritto (con positivi accenni allo stop al consumo di suolo, ai trasporti pubblici, alla prevenzione idro-geologica – ma non a quella anti-sismica -), però imperniandosi su un concetto di ‘ECONOMIA CIRCOLARE’ che prevede, per le risorse non rinnovabili, un obbligo di investimenti compensativi per la ricerca di risorse alternative (e rinnovabili), ma non mette in discussione il tabù della CRESCITA INFINITA (il tema della ’decrescita felice’, echeggiato dal M5Stelle dei primordi, si è estinto lungo il percorso di avvicinamento alla governabilità, ben prima di associarsi alle armate leghiste): così ai trasporti pubblici sembra affiancarsi una allegra simpatia verso i veicoli privati, purché elettrici, e gli allarmi per le problematiche di manutenzione del territorio (fragilità idro-geologica e sismica) non si coniugano con la necessità di ingenti e prioritari investimenti pubblici (od agevolati), investimenti non quantificati dal Patto, ed a mio avviso non compatibili con le promesse di tassazione non progressiva e di sostegno ai consumi privati (anche attraverso il reddito di cittadinanza).



Per finire questa carrellata sui punti nodali del Patto e della sua sostenibilità (mi riservo di commentare successivamente altri temi presenti nel Patto, ma che non a caso sono stati ignorati in Parlamento e rimangono marginali nel confronto mediatico, come democrazia diretta, scuola, università) mi sembra che la carenza più vistosa sia quella sulla VISIONE INTERNAZIONALE: nel documento l’Italia appare vessata dall’Europa (e si elencano puntigliosamente le possibili rivendicazioni, in parte anche condivisibili) e minacciata a Sud dai gommoni dei migranti; in questa chiave la Russia è solo un cliente commerciale per il ns. Export agroalimentare, da liberare dalle sanzioni, ed un possibile alleato ‘contro il terrorismo’ (tranne evidentemente quello dei suoi amici governativi siriani, ceceni o egiziani).

Non si coglie nulla di quanto tragicamente sta avvenendo nel mondo, riguardo al ritorno ai nazionalismi, dalle guerre commerciali/daziarie alla nuova corsa agli armamenti, riguardo al rafforzarsi dell’autoritarismo in regimi formalmente democratici, come la Turchia e la suddetta Russia, oppure formalmente ‘comunisti’, come la grande potenza cinese, riguardo all’incancrenirsi delle tensioni in Medio Oriente (malgrado la sconfitta dell’ISIS), riguardo all’affanno delle democrazie in America Latina, per non parlare dell’Africa, e nemmeno sulla pericolosità della presidenza Trump, con particolare attenzione all’abbandono delle opzioni ambientaliste sul cambio climatico, ed anche – a mio modesto avviso -  alla permanenza di basi americane (non basi “NATO”) in Italia, al comando di un megalomane imprevedibile e fuori dalla sovranità italiana (dove va a finire il sovranismo?); nonché allo strapotere dei nuovi monopoli del web, delle imprese multinazionali e della grande finanza.

E’ rispetto a questa realtà che andrebbe definito il ruolo dell’Italia in Europa, ed il ruolo dell’Europa nel mondo (e non solo per le grandi questioni della pace, del clima, dell’energia, ma anche di conseguenza per gli indirizzi di politica industriale e di politica della ricerca), mentre mi pare abbastanza trascurabile il possibile ruolo autonomo della sola Italia in questo tipo di mondo: a che vale strappare dai partners europei uno 0,5% di deficit in deroga oppure il trasferimento di una quota di richiedenti asilo, se non si contrasta (o forse lo si auspica?) il possibile tracollo del disegno complessivo dell’Europa e del suo insostituibile posto nel mondo come faro dei diritti/del diritto e della coesistenza pacifica, dell’ambientalismo  e dell’inclusione sociale (meglio se un po’ di più di quella sopravvissuta alla crisi)?

Quale sarà la “sostenibilità ambientale” di un mondo senza una seria unità europea? Assai precaria ed improbabile, a mio avviso.


venerdì 15 giugno 2018

IL GOVERNO DEL CAMBIAMENTO


A fronte della faticosa gestazione del nuovo governo 5Stelle/Lega, molti commentatori hanno già evidenziato le anomalie di metodo rispetto al dettato costituzionale (da ultimo riguardo al rispetto del ruolo del Presidente della Repubblica nella nomina sia del Primo che degli altri Ministri); mi pare di poter sottolineare che in questi comportamenti affiorano molte analogie con le abitudini in atto nella cosiddetta Prima Repubblica per la formazione di governi di coalizione (abitudini attenuate ma non scomparse nel periodo delle leggi elettorali maggioritarie, tra il 1994 ed il 2013, cosiddetta Seconda Repubblica):

-              gli accordi di governo comportavano lunghe negoziazioni preliminari sui programmi (e non solo sulle “poltrone”: un ministero del Bilancio affidato al socialista Antonio Giolitti, negli anni 60 o 70, ad esempio, implicava precise, anche se poi spesso disattese, concessioni della DC in materia di politica economica), anche se non assumevano la forma quasi privatistica del “contratto”, ma quella più sfumata delle “dichiarazioni programmatiche” (la riduzione di 7 decenni di storia repubblicana ad un mero balletto di poltrone mi sembrerebbe una inaccettabile caricatura);

-              il “manuale Cencelli” per la spartizione ed il bilanciamento delle cariche parlamentari, governative e sotto-governative vigeva allora come vige oggi, perché è una oggettiva legge della politica, salvo che dagli anni ’40 ad oggi nessuno aveva promesso di trasmettere tutte le trattative in diretta streaming, mentre oggi chi lo ha promesso ha anche poi rapidamente cancellato tale dogma;

-              il ventilato “comitato di conciliazione” tra gli alleati di governo per dirimere eventuali controversie, assomiglia parecchio, in sostanza, alla tradizione delle “verifiche di maggioranza” in cui i maggiorenti dei partiti sottoponevano Governi e Ministri (ma anche Sindaci e Assessori, ecc., un po’ meno dopo le leggi sull’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti di Regione).

Quanto sopra a mio avviso può attenuare lo scandalo per gli strappi istituzionali (anche se vigilare è comunque opportuno da parte dell’opinione pubblica, che ad oggi però può contare sul Presidente  Mattarella), ma evidenzia quanto poco di nuovo ci sia – sotto questo profilo – nel conclamato “Governo di Cambiamento”.

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Riguardo ai contenuti, con riserva di un esame approfondito del programma governativo sotto il profilo della “sostenibilità ambientale”, la maggior parte dei commentatori (tra cui gli autorevoli professori Cottarelli e Perotti) ne ha evidenziato la probabile insostenibilità economica, che potrebbe tradursi in una insostenibilità sociale quando l’Italia cominciasse a risentire dei contraccolpi finanziari evocati dall’allegro ricorso ad un ulteriore indebitamento, anche se a breve termine potrà prevalere il consenso demagogico alle diverse promesse elettorali enunciate. Il “cambiamento” promesso è vasto, resta da vedere quanto sarà attuabile  quanto (poco?) sarà apprezzabile; perché propone alcuni rimedi agli effetti del neo-liberismo, mentre ne rafforza gli elementi strutturali (disuguaglianze).

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Mi pare invece che si possa esprimere di già qualche giudizio sull’asse politico del contratto programmatico tra Lega e 5Stelle, valutando ciò che effettivamente unisce le 2 componenti, oltre alla semplice sommatoria delle rispettive istanze programmatiche (pur talora contraddittorie), che ciascuna parte cercherà di far valere dalle postazioni ministeriali conquistate (Salvini agli Interni contro i migranti; Di Maio al Lavoro per il reddito di cittadinanza, ecc. ecc. ecc.).

Per una valutazione di questo genere, a mio avviso occorre risalire a monte della crisi economica dell’ultimo decennio, e cioè alle radici del declino delle democrazie parlamentari (nonché in particolare delle forze politiche socialdemocratiche) e degli stessi stati nazionali, manifestatosi sul finire del Novecento, a fronte della globalizzazione e dell’offensiva neo-liberista.

Le risposte tentate, con qualche parziale successo dagli anni ’90 fino a ieri, dal multiforme schieramento del Centro-Sinistra italiano, sono consistite da un lato nel rafforzamento delle istituzioni sovranazionali (Europa innanzitutto, ovvero una nuova sovranità condivisa e con dimensioni adeguate al mondo contemporaneo, ma anche ONU, WTO, ecc.) e dall’altro lato in una riforma del sistema politico nazionale (primarie, leggi elettorali maggioritarie, bipartitismo, aggiornamenti della Costituzione). Senza una sostanziale alternativa, ma solo parziali attenuazioni, rispetto alle politiche economiche neo-liberiste

Alle loro origini, i due movimenti, che ora convergono al Governo, hanno incarnato invece due divergenti possibili correttivi:

- la Lega, quando era Nord, aveva raccolto l’egoismo sociale delle provincie più ricche sotto le bandiere delle identità locali e del federalismo (non antagonistico alla ”Europa delle Regioni”, ma contrapposto a “Roma Ladrona”),

- i 5Stelle, allo stato nascente, avevano polarizzato il rancore diffuso contro “la casta” in direzione della democrazia diretta (uno-vale-uno, i portavoce a rotazione, la diretta streaming, le votazioni in rete).

Entrambe queste posizioni sono state progressivamente o repentinamente abbandonate e superate, senza un granché di spiegazioni (anche se permane un ministro senza portafoglio “alla democrazia diretta”, e e talvolta circa quarantamila fedelissimi della piattaforma Rousseau vengono chiamati a ratificare le scelte dei vertici del non-partito, decidendo per conto di milioni di elettori), assumendo come elemento unificante e caratterizzante la contrapposizione allo spirito solidaristico sovranazionale, ed in particolare verso l’Europa e verso i profughi e migranti.

In particolare il cemento sovranista che unisce Lega e 5Stelle (e sull’onda dell’entusiasmo anti-europeo, ora attrae anche i Fratelli d’Italia) si alimenta del disagio provocato dalla crisi e lo indirizza “contro la Germania”, fomentando un vittimismo nazionalista che ricorda (spero ripetendola in farsa, e non in tragedia) la sindrome della “vittoria mutilata”, che dopo la prima guerra mondiale polarizzo l’insoddisfazione dei combattenti-e-reduci verso i complotti delle potenze dominanti (Francia, Gran Bretagna, USA).

(Dimenticando che il più grande debito pubblico d’Europa è stato accumulato nei decenni dagli stessi Italiani, votando Andreotti&C, Craxi, e da ultimo Berlusconi).

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Non escludo che il declino della democrazia rappresentativa e del welfare state (sullo sfondo dei limiti ecologici del pianeta) comporti la ricerca di nuove strade (democrazia inclusiva di piccole comunità in orizzonti universalisti pacifici?); il ritorno al nazionalismo va nella direzione opposta e reazionaria: è di certo un “cambiamento”, di certo non è il mio “cambiamento”.

UTOPIA21 - MAGGIO 2018: IL TERRITORIO COME BENE COMUNE PER PAOLO MADDALENA





“IL TERRITORIO BENE COMUNE DEGLI ITALIANI” di Paolo Maddalena è un volumetto agile ma molto denso (denso anche di citazioni di altri dotti giuristi, e di alcune importanti sentenze), in cui l’ex-vice presidente della Corte Costituzionale (fino al 2011, ed in precedenza docente di diritto, magistrato contabile, consulente del ministero dell’Ambiente) espone le sue posizioni, giuridiche e politiche, alquanto radicali, non solo riguardo al territorio, ma anche riguardo ad altri beni comuni nella sfera ambientale e sociale, fino alla sovranità monetaria.   



Riassunto:

-       i principi dei beni comuni nel diritto romano (e germanico?)

-       dal Medioevo al Codice Napoleonico, dallo Statuto Albertino al (vigente) Codice Civile

-       il salto culturale della Costituzione Repubblicana e la sua mancata attuazione, fino alle tendenze opposte nella legislazione degli ultimi decenni:

o   libertà di impresa

o   cessione di beni pubblici

o   cartolarizzazione dei debiti

-       mercati, debiti e finanza (sotto l’influenza negativa della common law anglo-sassone)

in corsivo gli ampli commenti personali del recensore



I ragionamenti di Maddalena1 si fondano soprattutto sulla storia e sull’evoluzione del diritto, ed in particolare sugli aspetti ‘progressivi’ della Costituzione Repubblicana, di cui l’Autore mostra le ascendenze in diversi istituti del diritto romano (e germanico, talora afferma, ma senza svilupparne la dimostrazione; da lì forse gli insistenti richiami di Maddalena al pensiero di Carl Schmitt – non certo un fior di democratico - sulla “super-proprietà” del popolo sovrano?) ; mentre ritiene fuorvianti le proposte – pur progressiste - derivate dalla common-law anglosassone, dal concetto di comunanza degli usi alla class action, e giudica perniciose le influenze  giuridico-culturali anglo-americane in materia di economia e finanza, dalle cartolarizzazioni dei debiti alla proliferazione dei ‘derivati’).



Il nocciolo del pensiero di Maddalena sta nel rapporto tra proprietà collettiva e proprietà privata, dove la prima prevale sulla seconda, non riconosciuta tra i diritti fondamentali dei cittadini nei primi articoli della Costituzione, e ben delimitata e condizionata negli articoli 41, 42 e 43, che più direttamente se ne occupano (vedi testi in appendice): con qualche filiazione, per l’appunto, da alcune concezioni dell’ AGER PUBLICUS nella Roma dei Re e della Repubblica, che ne vedeva l’assegnazione in proprietà privata (DIVISIO) ma con modalità specifiche (il MANCIPIUM per la sussistenza originaria delle famiglie; la POSSESSIO, commerciabile, ma più simile a un diritto di uso temporaneo),e ferme restando le proprietà collettive dei pascoli e di altre risorse naturali,  nonché – anche in epoca imperiale – la limitazione o ablazione della proprietà, in caso di AGER DESERTUS (terre abbandonate) e gli  interventi di INTERDICTIO (espropri punitivi, anche su istanza di terzi).



Mi permetterei di rilevare tuttavia che in questa rilettura del diritto romano Maddalena da un lato sottovaluta (confinandola alla tarda Repubblica) la  dimensione totalizzante della potestà del PATER-FAMILIAS, anche in materia di immobili, e quindi la profonda radice romanistica del diritto di proprietà (ed in particolare con un’ombra proiettata sullo IUS AEDIFICANDI, che non era certo estraneo al “DOMINIUM EX IURE QUIRITIUM”, il concetto originario di appartenenza delle cose ai singoli CIVES), e dall’altro trascuri le peculiari commistioni tra privato e pubblico nella stessa gestione della RES-PUBLICA, dall’armamento degli eserciti alla realizzazione di ‘grandi opere’, fino alle stesse elargizioni di ‘PANEM ET CIRCENSES’ in cambio di consenso (qui le origini del clientelismo e del voto di scambio?).

Non dimenticando inoltre che gran parte dell’ager publicus era territorio sottratto ai popoli sconfitti, e che la corsa alla POSSESSIO premiava i più forti, un po’ come nel Far West, e veniva poi gestito con un sistema prettamente schiavistico: insomma, non il massimo come precedente ‘ugualitario’ per la dottrina dei beni comuni.



La dissertazione storica per i periodi successivi non è altrettanto dettagliata: il testo evidenzia la formazione di un “demanio” funzionale, distinto dal più generale “dominio” e dai “beni della corona” in pieno Medio Evo (Federico II ed i giuristi del 13° secolo) e poi la contrapposizione tra assolutismo e contrattualismo, da cui nascono le moderne costituzioni; con un prodromo libertario ed egualitario nella rivoluzione francese ed invece una netta involuzione “borghese”, con l’affermazione della centralità della proprietà privata, nel successivo codice napoleonico, matrice anche delle “costituzioni concesse” come lo Statuto Albertino ed il conseguente codice civile del 1942, tuttora vigente in Italia.



Ben si staglia quindi la svolta concettuale della nostra Costituzione che agli artt. 41-42-43-44 tende ad incardinare la libertà di impresa e la proprietà privata in un sistema complesso, con prevalenti finalità sociali (mi pare che Maddalena però esageri nella sua interpretazione, quando vuol forzare in senso collettivista anche il concetto di “rendere [la proprietà] accessibile a tutti”, espressione che a mio avviso invece sta ad indicare una propensione dei padri costituenti in favore della diffusione della proprietà privata, riguardo alla terra, alla casa e forse all’azionariato popolare); e correttamente l’Autore evidenzia (anche con il supporto di corpose citazioni di illuminanti passi di Stefano Rodotà2) le contraddizione tra tali enunciati e grossa parte della realtà giuridico-economica della storia repubblicana, dal permanere degli istituti privatistici del suddetto Codice Civile (riguardo alla proprietà e riguardo ai contratti) a diverse sentenze della stessa Corte Costituzionale in materia di urbanistica ed espropri, fino al prevalere – talvolta bipartisan – dei nuovi dogmi neo-liberisti, con passaggi emblematici quali:

-           la legge sulla libertà di impresa (n° 148/2011) che afferma tra l’altro “è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge” e contrasta palesemente con l’art.41 Cost. (articolo che infatti il ministro Tremonti avrebbe voluto esplicitamente modificare, così come l’art 1, laddove fonda la Repubblica sul lavoro)

-           le varie e contorte procedure per la sdemanalizzazione e alienazione di beni pubblici (qui però mi sembra che Maddalena esageri sia nell’ignorare i temperamenti che il centro-sinistra ha apportato all’impostazione berlusconiana, limitandone la portata e passando per lo più dalla cessione dei beni alla concessione temporanea in uso ai privati, sia demonizzando la devoluzione di una parte di tali beni a Regioni e  Comuni, operazione che – al di là degli aspetti di propaganda ‘federalista’- non coincide con la loro alienazione, essendo comunque gli enti locali “cosa pubblica”; inoltre posso testimoniare di persona che – ad esempio – il passaggio alla gestione intercomunale del demanio costiero dei laghi ha comportato un balzo in avanti in termini di rigore, efficienza ed attenzione agli interessi pubblici ed ambientali, troncando le storiche collusioni tra interessi privati particolari e precedenti gestioni statali). 

-           la cartolarizzazione dei debiti (legge n° 130 del 1999, governo D’Alema), meccanismo poi ampiamente praticato da Tremonti, e significativamente risultato al centro dell’origine americana della crisi finanziaria del 2007.



E qui arriviamo alla seconda parte del testo di Maddalena, che denuncia il prevalere a scala globale del solo principio giuridico della libertà di mercato (e di esigibilità dei crediti), a danno degli interessi collettivi dei popoli e dello stesso potere dei singoli stati, recependo le analisi di Luciano Gallino sul finanz-capitalismo 3, 4 ed a mio avviso accodandosi poi ad un coro ormai un po’ datato di catastrofismo sulle sorti dell’Euro, con uno svolgimento piuttosto propagandistico, ove si perde la chiarezza giuridica della prima parte del testo, anche se ne riprende i concetti fondamentali di “popolo-territorio-sovranità” (con un certo disprezzo invece verso gli istituti sovranazionali ed il cosmopolitismo, visti come asserviti alla globalizzazione  neo-liberista).  



In particolare, pur concordando pienamente con Maddalena nello sgomento di fronte al continuo espandersi delle ricchezze finanziarie virtuali, disuguali e speculative, con permanente e crescente rischio di crollo a danno di tutti, non riesco a capire perché dovrei preferire un crescita esponenziale dei debiti pubblici, anch’essi forieri di potenziali immani squilibri, in particolare se dichiaratamente non esigibili. 

Ma anche nella prima parte del libro, pur apprezzandone stimoli e contributi, mi pare che aleggi un equivoco di fondo, in un contesto che appare di sola ‘storia del diritto’ (quasi idealistica), senza cimentarsi con la storia nel suo insieme, che è concretezza di scontri di potere e di interessi tra le classi ed i gruppi sociali.



Infatti il protagonista immanente delle argomentazioni di Maddalena è un (misconosciuto) soggetto collettivo, ma astratto, il “popolo” e lo “stato come comunità”, proprietario del “territorio”: a partire da una implicita idealizzazione di SENATUSPOPULUSQUEROMANORUM (come se la storia di Roma non fosse invece una selvaggia vicenda di appropriazioni di beni pubblici e di contrapposizioni di interessi, di cui i 2 Gracchi sono solo i più illustri tra le vittime)5 e ad arrivare ad una idilliaca apparizione della Costituzione Repubblicana (mentre ci sono stati di mezzo: una guerra persa ed una guerra civile; la caduta, ma non la dissoluzione, di un regime dittatoriale che aveva acquisito un consenso di massa;  la semi-continuità di uno stato addirittura pre-borghese, con la sua concretezza di potere poliziesco e burocratico. E mentre si avviava una poderosa discontinuità nello sviluppo economico, con l’industrializzazione di massa).



Significativa in tal senso mi sembra l’insufficiente spiegazione della sconfitta del riformismo del primo centro-sinistra sul disegno di legge Sullo in materia urbanistica (che prevedeva l’esproprio a prezzi agricoli di tutte le aree allora necessarie per l’espansione urbana, e la successiva cessione in diritto di superficie delle aree urbanizzate): secondo Maddalena “prevalse una ideologia borghese”, senza ulteriori spiegazioni.



A mio avviso non è né esatto né sufficiente (e non mi pare che sul tema basti pensare alla complessità del consenso complessivo al regime democristiano di quegli anni).

Penso che – anche tra i ceti non abbienti, in maggioranza tra gli elettori di diversi partiti – abbia pesato il mito contadino (e non strettamente “borghese”) della proprietà della terra (diffuso anche tra i mezzadri, fittavoli e braccianti, che quella terra non avevano mai posseduto ma certo desiderato; ed in parte quindi anche tra gli operai, che contadini erano stati appena ieri, o ancora lo erano a part-time e culturalmente, e nei legami famigliari). 

E penso inoltre che tale meccanismo abbia funzionato ancora, qualche decennio dopo, in favore della propaganda berlusconiana attorno al tema “padroni a casa propria”, dai condoni edilizi alla de-regulation urbanistica, fino all’abolizione dell’IMU, imposta sulla prima casa; non a caso in questa società italiana (non così in altri paesi europei) nel frattempo buona parte dei non-abbienti, pur rimanendo tra i ceti subalterni, erano divenuti ‘piccoli abbienti’, in quanto proprietari della propria casa (o eredi di vecchie case avite nei luoghi di origine).



Tali mie valutazioni non intendono sfociare in un fatalismo disfattista, nel senso della ineluttabilità della sconfitte del primo centro-sinistra degli anni ’60 e dell’ultimo degli anni 2000, ma indicare la necessità di una costruzione laboriosa e socialmente articolata delle possibili vittorie del riformismo.



Con queste mie critiche infatti non voglio negare l’utilità delle enunciazioni giuridiche e delle rivendicazioni in favore dell’attuazione della Costituzione: ma non ritengo che tali proclamazioni siano sufficienti né a definire una linea politica (si tratti di “Articolo 1” oppure del “ritorno alla Costituzione” enunciato tra gli altri da Tomaso Montanari e Anna Falcone) né a conseguire un’evoluzione progressiva del diritto stesso (ad esempio in materia di risparmio del consumo di suolo), se manca una analisi delle dinamiche sociali capace di sostituire alla mitica “comunità dei cittadini” (ben rappresentata nell’Introduzione di Salvatore Settis al libro in esame: cittadini contro i partiti, come è – o era - nella retorica del Movimento5Stelle, e come invece non è esplicitato nel testo di Maddalena) la concreta comprensione della moderne società complesse, degli interessi che le pervadono, dei conflitti che le agitano, dei linguaggi che le attraversano. 7



APPENDICE: TESTO DEGLI ARTT. 41-42-43-44 DELLA COSTITUZIONE

Art. 41.

L'iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.



Art. 42.

La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.

La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.

La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale.

La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.



Art. 43.

A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.



Art. 44.

Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive; aiuta la piccola e la media proprietà.

La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane.

Fonti:

1. Paolo Maddalena “IL TERRITORIO BENE COMUNE DEGLI ITALIANI” - Donzelli Editore, Roma 2014

2. Stefano Rodotà “IL TERRIBILE DIRITTO. STUDI SULLA PROPRIETÀ PRIVATA E I BENI COMUNI” - Il Mulino, Bologna 2013

4. Luciano Gallino “FINANZ-CAPITALISMO” - Einaudi 2011

5. Commento a “FINANZ-CAPITALISMO su questo blog “relativamente, sì” – www.aldomarcovecchi.blogspot\pagine – PAG. I^ FILOSOFIA-SOCIOLOGIA-ECONOMIA

6. Francesco De Martino “STORIA ECONOMICA DI ROMA ANTICA” - La nuova Italia, Firenze 1979

7. Richiamo anche, per contiguità tematica, Ermanno Vitale “CONTRO I BENI COMUNI – UNA CRITICA ILLUMINISTA” – Editori Laterza 2013 , da me recensito su UTOPIA21, ottobre 2016

UTOPIA21 - MAGGIO 2018: LA PROPOSTA DI LEGGE SUL SUOLO DI “SALVIAMO-IL-PAESAGGIO”






Dopo una legislatura trascorsa in vana attesa dell’approvazione del Disegno di Legge Catania del 2012, l’associazione Salviamo-il-Paesaggio ha completato – alla vigilia delle elezioni politiche del 4 marzo 2018 - la promessa stesura partecipata di un proprio progetto di legge assai più radicale.

A mio avviso emergono alcuni elementi di eccessivo estremismo, quasi ‘monastico’ (un timore di confrontarsi con la realtà?), da cui possono conseguire difficoltà di approvazione prima e poi di applicazione, in un contesto politico ancora assai problematico.



Riassunto:

-       La mancata approvazione del Disegno di Legge governativo nella scorsa legislatura

-       La conclusione del processo partecipato di formazione della proposta di legge di Salviamo-il-Paesaggio, reso noto alla vigilia delle elezioni politiche

-       Le definizioni rigorose degli usi del suolo, fondate sulle ricerche di I.S.P.R.A.

-       Un meccanismo drastico per conseguire lo stop al consumo di suolo all’indomani dell’approvazione della nuova legge (fatta salva la provvista di permessi di costruire nel frattempo accumulati)

-       Un rigore forse eccessivo: blocco del consumo e non ricerca del saldo-zero in un processo di ricomposizione organico; nessuna deroga per le funzioni pubbliche

-       La problematica del recupero e della rigenerazione urbana

-       Il tentativo di avviare, a partire dal censimento dei suoli e degli immobili inutilizzati, una acquisizione gratuita ad usi sociali dei beni abbandonati, in attuazione dell’art. 42 della Costituzione

-       (in corsivo i commenti personali del recensore)

Su UTOPIA21 di settembre e di novembre 20161,2 avevo trattato il tema del risparmio del consumo di suolo, soprattutto alla luce dei rapporti ISPRA3,4, ed il dibattito attorno al disegno di legge avanzato dal ministro Catania (governo Monti) nel 2012, e poi approvato dalla sola Camera dei Deputati nella sofferta legislatura 2013-2018.NOTA A

Il giudizio su tale testo legislativo di gran parte del mondo ambientalista, e soprattutto dell’associazione Salviamo-il-Paesaggio5 (che raccoglie a sua volta – oltre a singoli intellettuali ed a numerosi comitati locali – le principali associazioni ambientaliste nazionali NOTA B), e per altri versi anche dell’Istituto Nazionale di Urbanistica6, era piuttosto negativo, sia per l’ottica limitata alla salvaguardia dei suoli agricoli produttivi, sia per il gradualismo eccessivo, che consentiva (e garantiva, pertanto quasi ‘spingeva’) negli anni successivi l’utilizzo urbano di quote decrescenti dei suoli liberi, da spalmare in tutti i comuni, senza conteggiare i consumi di suolo per infrastrutture e occupandosi quasi marginalmente del grande problema della rigenerazione dei suoli consumati e dismessi.

Tuttavia la possibilità di una approvazione definitiva del DDL anche al Senato (spinta dalla relatrice sen. Puppato, del PD, ma non dai vertici del suo partito NOTA C ), sarebbe stata salutata come un segnale politico positivo, un “primo passo in avanti” verso la consapevolezza del problema-suolo, convergente con le migliori attenzioni europee: così come la mancata approvazione si è tramutata nel suo opposto (unica conquista ambientalista dell’ultimo minuto nella finanziaria per il 2018, è l’auspicato divieto per i Comuni di utilizzare per spese correnti – anziché per opere pubbliche - gli oneri di urbanizzazione pagati dai costruttori; divieto posposto però all’anno 2019).



Nel corso del 2017 ha pertanto ripreso piena motivazione ed un qualche slancio l’elaborazione di un proprio disegno di legge, da promuovere come iniziativa popolare e/o da suggerire al Parlamento, da parte di Salviamo-il-Paesaggio (sempre però nell’ambito di un procedere lento e faticoso, tipico di una associazione plurale e ‘federale’: attenta ad esempio anche alla formulazione di potenziali emendamenti da parte di soggetti come lo scrivente, intellettuale isolato e non aderente né a formazioni locali né al gruppo di lavoro ufficiale degli esperti).

Già ho segnalato, nell’articolo sui programmi elettorali (UTOPIA 21 di marzo)7 la tardività dell’uscita della proposta di Salviamo-il-Paesaggio rispetto ai confronti elettorali, con la raccolta affrettata di alcune adesioni di massima, talora senza approfondimento (ad esempio che conto effettivo ne tiene il MoVimento5Stelle, che non ha incluso l’argomento tra i 20 punti prioritari, sui quali ha raccolto il suo evidente ma parziale successo?). La natura essenzialmente proporzionale della nuova legge elettorale (coerente in ciò con il segno politico dell’esito referendario del dicembre 2017 in materia istituzionale) rende ora molto difficile valutare le probabilità di successo del PDL di Salviamo-il-Paesaggio nella legislatura entrante. Mi limiterò pertanto a riferirne ed a commentarlo nel merito della sua impostazione concettuale, come se fosse un ‘manifesto’ di natura teorica.

Poiché il testo è di facile lettura8 ed accompagnato da una altrettanto succinta e chiara relazione9, nonché presentato da sintetici comunicati-stampa10, cui rimando, evito un riassunto puntuale e mi concentro sui caratteri salienti della proposta. 

Le definizioni assunte (“suolo”, “consumo di suolo”, “superficie agricola, superficie naturale e semi-naturale”, “copertura artificiale del suolo”, “impermeabilizzazione”, “area urbanizzata”, “area edificata”, “area di pertinenza”, “area infrastrutturata”, “rigenerazione urbana”, “servizi eco-sistemici” ed “edificio”) sono assai rigorose, fondate sull’esperienza scientifica dell’ISPRA e sull’esperienza pratica dei pochi Comuni che hanno seriamente sperimentato la ‘crescita zero’: rigore finalizzato a non lasciare spazio alle tradizionali ‘italiche interpretazioni’, e mirato a controllare l’insieme delle trasformazioni dei suoli liberi (non solo di quelli coltivati o coltivabili), sia in ambito urbano che extraurbano. NOTA D

Le limitazioni da imporre ai Comuni sono drastiche, si vieta il consumo di suoli liberi a decorrere dall’entrata in vigore delle legge, senza periodi di transizione o quote residue a scalare: l’obiettivo del “consumo di suolo zero”, che si vagheggia a scala europea per il 2050, verrebbe pertanto notevolmente anticipato nel nostro paese (anche perché ricade tra i maggiori consumatori di suolo), fatta salva però la probabile ‘provvista’ di convenzioni per piani attuativi e di permessi di costruire che gran parte degli operatori potrebbe accaparrarsi (seppur onerosamente) sulle aree classificate edificabili fino al giorno prima della promulgazione della legge; tutte le altre aree edificabili, non utilizzate o “prenotate”, sono da cancellare con variante automatica ai piani vigenti (e senza indennizzo, in conformità ad un principio già sancito dal Consiglio di Stato): operazione di notevole audacia politica (e pertanto di difficoltosa approvazione).

Mi sono permesso di segnalare ai Coordinatori di S-il-P a proposito di questo assunto centrale della legge, e ritengo opportuno qui rilevare, un eccesso di rigidità del testo: l’azzeramento del consumo di suolo risulta infatti inteso fisicamente, sui confini (spesso irrazionali) delle espansioni urbane finora delineate, e non come possibile “saldo zero” tra partite in dare-e-avere che potrebbero razionalizzare tali confini, e soprattutto conseguire opportuni scambi tra alcune porzioni di suoli oggi consumati (che dovrebbero essere preventivamente sgomberati e bonificati a spese dei privati interessati) e alcune porzioni di suolo libero (che potrebbero risultare intercluse e povere di interesse ambientale, oppure strategicamente necessarie per specifici sviluppi di imprese e comunità): il tutto a scala sovracomunale (ovvero in ‘area vasta’), perché non si può postulare un perfetto equilibrio tra domanda ed offerta di aree usate-e-riutilizzabili nel ristretto ambito di ogni singolo Comune. La formulazione licenziata da S-il-P escluderebbe ad esempio sia le proposte di Ennio Nonni per il territorio Faentino11,12 (demolire volumi isolati in campagna offrendo in cambio diritti volumetrici addensabili in città) sia quelle ispirate ad Arturo Lanzani dalla critica situazione Brianzola12,13,14 (bonificare aree dismesse come nuovi parchi in cambio di limitati interventi di completamento logistico-produttivo).

Un’altra grave rigidità della proposta di S-il-P a mio avviso è la mancanza di qualsivoglia deroga per il consumo di suoli agricoli ad uso pubblico, cioè per servizi ed infrastrutture, locali o sovra-locali, come se fosse certa e pre-determinata la possibilità di soddisfare sempre tali bisogni nel campo delle aree già in precedenza occupate (un eccesso opposto e simmetrico a quello del disegno di legge Catania, che escludeva addirittura dai conteggi, ‘a prescindere’, i consumi di suoli per qualunque utilizzo dichiarato di interesse pubblico). NOTA E-    



A fianco del rilievo dei suoli liberi, indispensabile per la prima attuazione della legge proposta, applicandone le puntuali definizioni di cui sopra, in rapporto dialettico con ISPRA, il progetto di legge impegna i Comuni in un accurato censimento dei lotti e dei volumi parzialmente o totalmente inutilizzati o sfitti, indirizzando su questo patrimonio, assai cospicuo in molte zone d’Italia (per svariate ragioni, e perciò con differenziata incidenza), le future attività di recupero ed anche di rigenerazione urbana, sommariamente definite dagli artt.  2/l e 5 del PDL, e probabilmente da meglio organizzare in una auspicabile revisione delle leggi urbanistiche, nazionali e regionali, per renderle coerenti con questi precisi indirizzi generali ‘salva-suolo’. La proposta di legge di S-il-P prevede forme di incentivazione economica per tali recuperi, ma in modo generico, perché non si configura come legge di spesa. (Ribadisce inoltre la destinazione vincolata degli oneri di urbanizzazione per le sole opere pubbliche, vedi sopra).



La proposta di S-il-P non affronta in via ordinaria la questione degli indennizzi espropriativi (e dei costi delle bonifiche), che la ricomposizione urbana nei confini dell’esistente porterebbe all’attenzione per soddisfare i bisogni di servizi e spazi pubblici (l’arresto delle espansioni comporta anche un assottigliamento della modalità ‘perequativa’ per l’acquisizione di tali spazi).

Introduce invece alcuni principi e criteri per l’attuazione dell’art. 42 della Costituzione, riguardo alla “funzione sociale della proprietà” ed in particolare per la ricognizione e potenziale acquisizione (gratuita) al demanio comunale dei beni immobiliari abbandonati, previa diffida ai proprietari per richiamarli entro tempi certi ad un effettivo ripristino e riutilizzo.  

Si tratta a mio avviso di un nodo estremamente importante (si pensi per analogia a quali applicazioni sarebbero possibile sul fronte delle imprese che delocalizzano oppure inquinano, ecc.), che nell’art. 1.7 è enunciato sinteticamente ed è poi sviluppato all’art. 8 con una discreta articolazione, ma che mi sembra inadeguato a reggere le inevitabili contestazioni (in fase di discussione del progetto di legge) e di contenzioso giuridico (nell’eventuale applicazione della legge approvata), perché non prevede organi ‘terzi’ di garanzia nell’ambito del procedimento amministrativo, e quindi scarica ogni facoltà di ricorso sulla magistratura amministrativa e/o ordinaria.NOTA F



NOTA A – Ho trattato il tema in termini più ampi anche nel trittico di articoli “ IL DIBATTITO SULLA CRESCITA E SULLA  SOSTENIBILITA' DEI FENOMENI URBANI E METROPOLITANI”, su Utopia21 di maggio/luglio/settembre 2017  e nell’intervista ad Arturo Lanzani (maggio 17); l’argomento è stato trattato anche nel Festival dell’Utopia di Varese, edizione 2017, convegno “suolo, bene comune” del 21 aprile 2017 https://www.universauser.it/documentazione/convegno-suolo-bene-comune.html

NOTA B – FAI, Italia Nostra, LegaAmbiente, LIPU, SlowFood, TCI, WWF

NOTA C -  probabilmente per un calcolo elettoralistico (erroneo), in parallelo alle scelte sull’IMU per la prima casa e sul referendum “trivelle”, regali apprezzati da settori moderati, che poi puntualmente non hanno votato PD.

NOTA D – tra le definizioni di cui all’art. 2 continua a lasciarmi perplesso, per meri motivi di chiarezza semantica, l’inclusione tra le aree “urbanizzate” di impianti tecnologici (esempio centrali energetiche) o produttivi (esempio: cave e miniere) isolati ed avulsi da effettivi fenomeni di “urbanizzazione”, e che potrebbero meglio ricadere in altra definizione di suolo consumato.

NOTA E – un altro eccesso di zelo si riscontra su un fronte collaterale della proposta di legge, laddove si delinea un divieto assoluto di trasformare in aree coltivabili tutti i suoli attualmente allo stato naturale o semi-naturale: se mi è chiaro che la odierna cultura ambientalista esclude in generale il ricorso a ‘bonifiche’  di zone umide e ad arature dei pascoli montani, tuttavia non credo che questo tipo di scelte, da ponderarsi nei singoli casi e nei singoli contesti territoriali (e quindi paesaggistici ed ambientali) possa e debba essere troncata da una legge draconiana (o grida manzoniana?). Che tra l’altro rischierebbe di escludere forme di restauro del paesaggio agrario talora fortemente auspicabili sotto il profilo idrogeologico, come il ripristino delle colture su terrazzamenti artificiali abbandonati.

NOTA F: l’elaborazione di questa parte della legge si deve al giurista ed ex vice-presidente della Corte Costituzionale Paolo Maddalena, sul cui testo “IL TERRITORIO BENE COMUNE DEGLI ITALIANI” (retroterra culturale delle proposte in esame) ho sviluppato una recensione in questo stesso numero di Utopia21



Fonti:

1,2. Aldo Vecchi “LA LIMITAZIONE AL CONSUMO DI SUOLO”, 1^ e 2^ parte, su      UTOPIA21, ottobre e novembre 2016 http://www.universauser.it/images/consumo_suolo_parte_1.pdf


3. I.S.P.R.A. – CONSUMO DI SUOLO, DINAMICHE TERRITORIALI E SERVIZI

ECOSISTEMICI edizione 2016 www.isprambiente.gov.it

4. I.S.P.R.A. & SALVIAMO-IL-PAESAGGIO & SLOW FOOD ITALIA – CONVEGNO “RECUPERIAMO TERRENO” – MILANO 06-05-2015 – atti, sessione poster, Volume I e II www.isprambiente.gov.it



7. Aldo Vecchi “LETTURA E CRITICA DEI PROGRAMMI ELETTORALI PER IL 4 MARZO 2018”  su UTOPIA21, marzo 2018  https://drive.google.com/file/d/1-pOGmRevCBAEFoVD79kPcjPurVoAPYMM/view?usp=sharing


11. Ennio Nonni ed altri “BIO-URBANISTICA – ENERGIA E PIANIFICAZIONE” Comune di Faenza/Tipografia Valgimigli, Faenza 2013 (progetto Europeo EnSURE, Energy Saving in Urban Quarters trough Rehabilitation and New Ways of Energy Supply)

12. sulle teorie di Ennio Nonni e Arturo Lanzani: Aldo Vecchi “IL DIBATTITO SULLA CRESCITA E SULLA SOSTENIBILITA’ DEI FENOMENI URBANI E METROPOLITANI (PARTE 3^)” su UTOPIA21, settembre 2017 https://drive.google.com/file/d/0BzaFw8WEAEgYWmd2MmZTMmc1NWs/view?usp=sharing

13. Arturo Lanzani “CITTA’ TERRITORIO URBANISTICA, TRA CRISI E CONTRAZIONE” Franco Angeli, Milano 2015

14. Aldo Vecchi “CONVERSAZIONE – INTERVISTA CON  ARTURO LANZANI” su UTOPIA21, maggio 2017 https://drive.google.com/file/d/0BzaFw8WEAEgYNnYzRUJXOFJtZHM/view?usp=sharing


UTOPIA21 - MAGGIO 2018: INTERVISTA A MARIO VARALLI SULLA STORIA DEI VETRAI SESTESI




In connessione con il dibattito sulla trasformazione del lavoro che è in atto e sulle ipotesi di ulteriori salti qualitativi, che UTOPIA21 sta sviluppando (anche in relazione al Festival dell’Utopia 2017 in Varese), questa intervista a Mario Varalli, in quanto storico del movimento operaio e socialista a Sesto Calende, cerca di enucleare i motivi e le modalità della svolta nei rapporti di lavoro che maturò a cavallo tra Ottocento e Novecento, in particolare nella categoria dei vetrai, ed i successivi sviluppi nel secolo seguente, con il conseguimento di obiettivi che allora parevano largamente utopici come il primo contratto collettivo nazionale di lavoro per una categoria e la formazione di una grande cooperativa di produzione

Sommario:

-       L’industria del vetro a fine Ottocento a Sesto Calende ed in generale in Italia

-       Rapporti di lavoro e gerarchia professionale

-       Dai contratti di lavoro individuali e stagionali (e nomadi) al primo contratto nazionale di categoria nel 1901; contenuti specifici del contratto

-       La Federazione dei Bottigliai e le altre forme di organizzazione sociali, politiche e culturali a Sesto Calende

-       La Fondazione della Vetreria Operaia Federale, con 6 stabilimenti in Italia nel 1910, tra cui Livorno e Sesto Calende; la successiva crisi da cui si salva a Vetreria di Sesto

-       Il ruolo degli agitatori socialisti e il solidarismo dei vetrai

-       La resistenza al Fascismo e la trasformazione della Cooperativa in Società per Azioni; l’assorbimento in gruppi privati negli anni ‘60

-       Riflessioni sugli echi di questa e di altre simili esperienze di autogestione nel cooperativismo di oggi e nella trasformazione delle imprese

-        

 PER LE IMMAGINI, VEDI "UTOPIA21" SUL SITO www.universauser.it



 Nel seguito D) segnala una mia domanda R) la risposta di Varalli.



PREMESSA: Data la scarsa conoscenza dei fatti storici e la difficoltà di accedere a parte della bibliografia, si è ritenuto necessario inserire qua e là qualche breve riassunto, tratto dalla bibliografia, a cura dell’intervistatore.  



RIASSUNTO PRIMO
Negli ultimi decenni dell’Ottocento si estese nel Verbano, sulla scorta di antiche tradizioni e della disponibilità di materie prime, l’industria vetraria (in prevalenza orientata verso la produzione di bottiglie, damigiane, bicchieri) che però era essenzialmente fondata sul lavoro manuale e sulla soffiatura del vetro fuso, come nei due precedenti millenni: una lavorazione artigianale, ma applicata a scala industriale con riguardo alla serialità della produzione, all’ingente peso degli investimenti – soprattutto per i forni – ed ai rapporti di lavoro ed alle modalità di commercializzazione, che nell’Ottocento erano  ormai divenuti di tipo capitalistico.
L’organizzazione del lavoro era stata inizialmente fortemente corporativa, con trasmissione ereditaria del sapere e del ruolo dei “maestri vetrai” (o “monsu’”, per le ascendenze francesi di asserita nobiltà) e fortissimi differenze di ruolo e di retribuzione e di orari tra questi, i loro primi aiutanti o “gran garzoni”, i subalterni “levavetro” (a contatto più diretto con il fuoco) e giù giù a figure ausiliarie, comprendenti donne e bambini.
Per tutti quanti i contratti erano individuali e stagionali (la “campagna lavorativa” escludeva i mesi estivi), anche con trasferimenti in regioni remote, e non c’era previdenza né per malattie ed infortuni né per le pensioni.
Nella lotta per la conquista del primo contratto, e nel contratto stesso, comparvero strumenti ed istituti molto lontani dalle nostre esperienze negli ultimi decenni: scioperi ad oltranza sorretti da collette, boicottaggio verso le aziende più aggressive e che utilizzavano i “crumiri”, esercizio “monopolistico” da parte delle stesse leghe sindacali del collocamento dei lavoratori, autogestione delle prime forme di previdenza sotto forma di cassa mutua.



D) Nel raccontare l’esemplare (e a mio avviso anche  commovente) vicenda dei vetrai sestesi dalla fine dell’Ottocento, Tu segnalavi, nel 1993, che queste pagine peculiari nella storia del movimento operaio (i vetrai furono la prima categoria ad ottenere un contratto collettivo nazionale di lavoro, nel 1901) erano state trascurate dagli storici  a scala nazionale, con la sola eccezione di Alessandro Marianelli1 (le cui opere segnaliamo tra le fonti di questa intervista, anche se le trovo assenti dal sistema bibliotecario varesino, mentre vi si possono reperire gli scritti Tuoi2,3,4 e quello di Gianni di Bella5): Ti risulta che sia ancora così? Dove si possono consultare i documenti originali, come le raccolte dei periodici sindacali dei “bottigliai”?



R) Alessandro Marianelli è tuttora il massimo storico dei vetrai italiani. Il suo lavoro principale, ”Proletariato di fabbrica e organizzazione sindacale in Italia all'inizio del secolo: il caso dei lavoratori del vetro”,1 purtroppo manca sia nel Sistema Bibliotecario Urbano di Varese che nella Rete Bibliotecaria Provinciale di Varese. E' però disponibile a Milano in diverse sedi (come specificato nella NOTA A, ove sono elencate altre sue opere connesse, di cui una reperibile a Varese).

   Ricordo che il professor Marianelli è stato ospite a Sesto Calende, il 20 marzo 1994, al convegno “Il passato per il futuro. 90° di fondazione della Vetreria Operaia Federale”, promosso dalla Cooperativa “La Proletaria” e dall'Ente Autonomo pro Cultura Popolare, dove ha svolto la relazione “La Federazione Bottigliai nella storia del movimento operaio italiano”.

   Dopo è uscito uno studio di Massimo Sanacore, dell'Archivio di Stato di Livorno, “Capitalisti e imprese del vetro a Livorno dall'unificazione alla prima guerra mondiale“  sulla rivista “Nuovi Studi Livornesi”, vol. II, 1994 che, pur essendo incentrato sulla città labronica, tratta in generale della Vetreria Operaia Federale.

   Non conosco altre opere degne.

   Fonte fondamentale sulla storia dei vetrai a bottiglie è il periodico “La Bottiglia”, organo della Federazione Italiana dei Bottigliai, consultabile presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze o la Biblioteca Civica A. G. Barrili di Savona.



D) Di fronte alla rigidità corporativa dei “Monsù”, come riuscirono Ernesto Varalli (Tuo nonno) ed altri vetrai sestesi a superare il livello di “gran garzoni”?



R) Nelle vetrerie a bottiglie l'unità lavorativa era chiamata piazza (cioè lo spazio antistante la bocca del forno) ed era composta da quattro lavoratori: il levavetro che immergeva la punta della canna nella massa in fusione ed estraeva la quantità di vetro necessaria a fare la bottiglia e la passava al grangarzone che iniziava la soffiatura, il maestro poi realizzava la bottiglia, infine il portantino la trasportava nel forno di ricottura detto ferrazza. Marx, nel Capitale, prende proprio la piazza come esempio di manifattura organica. Il lavoro era parcellizzato, rigidamente gerarchico, con alla testa il maestro, responsabile dell'ordine della piazza e della produzione e gratificato da un livello salariale superiore alla media. Il sistema della soffiatura a canna è rimasto inalterato dal I secolo dopo Cristo e ciò ha consentito la permanenza tra i vetrai di un residuo di corporazione medioevale con la trasmissione ereditaria del mestiere, che veniva chiamata casta. Fino a tutto Ottocento solo i figli dei vetrai delle varie categorie potevano fare apprendistato con il padre. Questa situazione cambia con il nuovo secolo, con iniziativa separata ma convergente dei datori di lavoro e dei prestatori d'opera (oppure padroni e lavoratori, se vogliamo evitare il "terrore semantico" e il "risarcimento linguistico" disapprovati da Tullio De Mauro e Andrea Camilleri). Ai primi conveniva l'allargamento dell'apprendistato e il passaggio da una mansione all'altra per avere a disposizione una maggiore quantità di mano d'opera e ridurre quindi la forza contrattuale dei maestri. Fra i secondi si diffondono i principi socialisti di uguaglianza e solidarietà di classe e infatti al congresso di Livorno del 1900, nel quale viene fondata la Federazione Italiana dei Bottigliai, viene abolito il privilegio dell'ereditarietà, il principio ugualitario socialista predicato dall'apostolo dei vetrai Giuseppe Emanuele Modigliani prevale sul concetto della casta.

     Il mio bisnonno Luigi Pedretti, nato nel 1863, pur essendo capace di svolgere il lavoro del maestro non poteva averne la qualifica e non lo poteva esercitare, non essendo figlio di maestro, ed era inchiodato alla mansione di grangarzone. A fine Ottocento si trovava a fare la campagna, così si chiamava il contratto annuale, alla Vetreria Rachetti di Torino e i vicini di casa lo chiamavano monsù, appellativo che spettava ai maestri; questo per dire come le cose stavano cambiando nella mentalità comune.

     A Sesto, il primo colpo alla casta è inferto, già nel 1881, alla Vetreria Bertoluzzi di Sant'Anna dalla proprietà: il cambiamento del vecchio forno con uno più moderno richiede maggiore personale e così dei portantini sono promossi levavetro e dei levavetro grangarzone.

     Comunque sarà poi l'introduzione delle macchine che porrà fine allo status sociale privilegiato dei maestri.



D) Con una situazione di partenza così caratterizzata dalle diversità gerarchiche tra i lavoratori, come fu possibile in pochi anni (tra il 1897 ed il 1901), sebbene con alterne vicende, costituire organizzazioni unitarie, inclusive anche delle figure professionali più umili? Senza un precedente in Italia, era un’utopia arrivare ad un contratto collettivo nazionale di lavoro? Quanto pesavano le condizioni materiali e quelle culturali dei lavoratori (la diffusa provenienza dal mondo contadino, la netta separazione rispetto ai ceti più elevati, l’alfabetizzazione promossa con fatica dopo l’Unità d’Italia) e quanto la predicazione dei primi “apostoli del socialismo”?



                      



              Figure 1 e 2: Ernesto Varalli e Giuseppe Emanuele Modigliani     



R) I vetrai lavorano con un contratto individuale annuale e, terminata la campagna, facilmente si spostano in un'altra vetreria dove c'è lavoro o retribuzione più interessante, questo fenomeno è chiamato nomadismo. Questi continui spostamenti, in Italia o all'estero (a Bilbao ci sarà una sezione della Federazione Italiana dei Bottigliai), rendono i vetrai più colti rispetto agli altri lavoratori, nel caso di Sesto rispetto ai contadini o alle operaie tessili che vivono in un ambiente ristretto. Girare per vetrerie consente di vedere ambienti nuovi, conoscere gente, frequentare vetrai italiani o stranieri (in Italia vengono ad esempio vetrai dalla Prussia) e conoscere esperienze di organizzazione proletaria. A questo si aggiunge la predicazione e l'azione sindacale dei socialisti. Nel caso dei bottigliai, alla loro testa c'è un grande personaggio, Giuseppe Emanuele Modigliani, un uomo che, rinunciando alla vita tranquilla e agiata che gli avrebbe potuto procurare la professione di avvocato, dedica l'intera vita all'emancipazione della classe lavoratrice, subendo carcere, aggressioni fasciste, esilio e povertà. A quei tempi non c'era l'incompatibilità sindacale vigente oggi e i socialisti operavano, come si diceva allora, nell'economico e nel politico, cioè svolgevano contemporaneamente attività di partito e sindacale. Modigliani ha organizzato, nel tempo, scalpellini, scaricatori del porto, contadini, metallurgici, tranvieri e, quello che interessa a noi ora, i bottigliai ai quali ha portato i principi socialisti dell'egualitarismo e della solidarietà.

     L'utopia del contratto collettivo nazionale di lavoro è progettata al congresso di Livorno del 1900, con l'obiettivo della conquista entro due campagne e ridiscussa al congresso di Sesto del 1901. Allora Modigliani si trovava a trattare con gli industriali vetrari divisi in due gruppi, denominati Il Vetro e Fabbriche Vetrarie Consorziate in concorrenza tra loro. La situazione era resa ulteriormente difficile, anzi grave, dal fatto che il Vetro aveva deciso di introdurre il lavoro a macchina dimezzando il personale e abbassando il salario a un terzo e di conseguenza le Consorziate, prive di macchine, avrebbero dimezzato la produzione e il personale. Quindi Modigliani, con mossa dettata da intelligente pragmatismo, restringe la trattativa alle Consorziate con le quali conclude un contratto collettivo basato su punti significativi: tariffa unica nazionale deliberata del congresso di Sesto, riduzione della sperequazione tra qualifiche, riduzione del turno da otto a sei ore per occupare maggiore personale ed esclusiva della Federazione nel collocamento. E nelle vetrerie della Vetro viene proclamato lo sciopero generale a tempo indeterminato. Questo nel 1901.



D) Quali furono i limiti del contratto del 1901, sia riguardo alla estensione ai vari gruppi aziendali, sia riguardo alla durata temporale?



R) Nel 1904 le Consorziate acquisiscono la Vetro, con la conseguente estensione del contratto collettivo e così finisce lo sciopero che era durato ben tre anni. A questo punto il contratto valeva per tutte le principali vetrerie a bottiglie italiane.

     Il contratto collettivo nazionale aveva valore annuale, come annuale era la durata della campagna, solitamente dall'inizio di settembre alla fine di giugno (in estate venivano rifatti i forni per la corrosione subita dal materiale refrattario). 



D) Dai Tuoi testi emerge una stretta connessione, nel periodo da fine Ottocento alla Prima Guerra Mondiale, tra le attività più strettamente sindacali dei vetrai sestesi, la nascita di altre leghe di lavoratori, la crescita della sezione del Partito Socialista e la fondazione della Cooperativa di Consumo “La proletaria”, nonché dell’Ente Autonomo pro Cultura Popolare (biblioteca, banda musicale,  corsi e conferenze): che rapporto c’era con le altre forme associative preesistenti, come la Società Operaia di Mutuo Soccorso, le tradizioni mazziniane/garibaldine e – quasi contrapposto - il mondo cattolico?



R)  La Società di Mutuo Soccorso è espressione di una benemerita filantropia borghese ed è presieduta da Carlo Bertoluzzi, l'industriale vetrario di Sant'Anna. Nel 1905 "Popolo e Libertà", il settimanale socialista del Gallaratese, pubblica una lettera aperta di un bottigliaio che afferma essere Bertoluzzi indegno di ricoprire la carica di presidente causa il suo comportamento antisindacale, infatti allora la vetreria di Sant'Anna aveva rifiutato l'applicazione del contratto nazionale, era boicottata dai vetrai e aveva ingaggiato crumiri provenienti dall'estero. Poi, nel 1908, i lavoratori conquistano la maggioranza del consiglio di amministrazione della Società che diventa un ulteriore tassello dell'egemonia socialista nella Sesto del primo ventennio del secolo.

     Non c'era amore tra vetrai e preti, i vetrai erano tutti socialisti e abbracciavano quell'orientamento culturale del socialismo di cent'anni fa che vedeva una netta contrapposizione tra socialismo e Chiesa, che era poi l'antitesi tra progresso sociale e conservazione. Il Primo Maggio 1907 è emblematico: ci sono due distinti cortei, con bande e bandiere, oltre al solito corteo socialista c'è anche, per la prima volta, quello delle organizzazioni cattoliche (Circolo San Bernardino e Lega del Lavoro). Quando i due cortei si incontrano, davanti all'ingresso della Vetreria Operaia Federale, si comincia con i fischi e si finisce con la rissa e le aste delle bandiere che colpiscono gli avversari. La forza pubblica separa i contendenti che si ritroveranno però il mese successivo davanti al Pretore di Gallarate.



D) Nei Tuoi racconti emergono anche aspetti di specifico interesse antropologico, come ad esempio la questione di quali malattie potevano essere coperte dalla cassa mutua oppure il ruolo delle donne nella tutela del risparmio familiare e la difficoltà di coinvolgerle nelle raccolte di fondi per gli scioperi, prima, e per la fondazione della vetrerie cooperative poi…



R. Si, mi riferisco al congresso di Livorno della Federazione del 1904 nel quale viene deliberata la creazione di una mutua per sussidiare i vetrai che, in seguito a malattia, sono impossibilitati a lavorare. E' esclusa dal beneficio la malattia causata da abuso di bevande alcooliche o da rissa. C'è da dire che già nel congresso di Livorno del 1900 era stata votata una risoluzione contro l'alcoolismo, forse favorita dalla campagna educativa e dissuasiva che dalla vicina Università di Pisa svolgeva il penalista socialista Adolfo Zerboglio, professore di Modigliani. L'alcoolismo era infatti allora una grave piaga che i socialisti cercavano di combattere e questo è testimoniato dal vecchio slogan "per il libro, contro il litro". E già che siamo in argomento di bevande, ricordiamo che il lavoro accanto ai forni costringeva i vetrai a berne giornalmente litri e litri, ovviamente non vino ma acqua, resa più gradevole da qualche goccia di limone. E esistevano anche degli ausiliari, con qualifica di acquaioli che avevano il compito di dare l'acqua ai maestri. Tornando alla mutua, c'è una minoranza, compresi anche alcuni congressisti sestesi, che vorrebbe escludere dalla previdenza gli affetti da malattie veneree. L'orientamento maggioritario è ben espresso da Modigliani in nome del superamento dei "vecchi pregiudizi di una morale che ha fatto il suo tempo". L'argomento era importante per i vetrai, la sifilide era una loro malattia professionale, trasmessa con l'uso promiscuo della canna da soffio. Il problema verrà superato con l'invenzione di un bocchino mobile di dotazione individuale.



RIASSUNTO SECONDO
Per sfuggire alla aleatorietà dei contratti ed alle manovre padronali (connesse anche ai primi tentativi di introdurre delle macchine automatiche) i vetrai sindacalizzati decisero di fondare una vetreria cooperativa, arrivando a costruire e gestire fino ad un massimo di 6 stabilimenti nel 1910  (Livorno, Imola, Sesto Calende, Vietri, Asti, Gaeta), con oltre 1.000 posti di lavoro.
La Vetreria Operaia Federale riuscì ad essere il primo produttore nazionale. Fallì commercialmente però, nell’ambito di una crisi settoriale di sovra-produzione, nel 1911. Dal 1912 risorse a Sesto in forma cooperativa la “Vetreria Lombarda”, che “nel 1919 istituisce una cassa pensioni interna e nel 1923 costruisce le case per i vetrai”. Avversata dal fascismo, si convertì formalmente in Società per Azioni nel 1924 (introducendo le macchine automatiche dal 1936, quando i lavoratori erano circa 150) e conservò tale assetto, di sostanziale autogestione dei soci operai, fino al 1961, quando la maggioranza delle azioni fu rilevata da un gruppo capitalistico nazionale.
Lo stabilimento di Sesto continuò la produzione fino al 1997, quando il passaggio del controllo ad un gruppo americano ne determinò la chiusura, suggerita anche da problematiche ambientali.



D) Se il contratto nazionale poteva apparire utopico, ma generalizzava i contratti individuali e si rifaceva ad esempi europei, la scelta di fondare una vetreria con i risparmi dei vetrai sembra ancora più utopico, quasi senza precedenti e modelli. Sopprimere il profitto padronale sembrò sufficiente per essere competitivi sul mercato?  Proponendosi nel contempo obiettivi di avanzamento nelle condizioni di lavoro, nelle limitazioni di orario e di cottimi?



R) L'idea, avanzata già nel 1901 al congresso di Sesto dalle sezioni di Sarzana e Bilbao, di creare una propria vetreria era diventata nel 1902 una necessità dato che in seguito allo sciopero proclamato contro la Vetro, e in corso ormai da un anno, i vetrai lavoravano solo sei ore al giorno e dovevano inoltre versare un sussidio a favore dei disoccupati. Era un'idea sicuramente molto audace, l'unico precedente era la Verrerie Ouvrière di Albi creata dai vetrai di Carmaux dopo un lungo sciopero fallito. Lo stesso Modigliani era esitante, ma l'idea partì grazie alla lungimiranza di Cesare Ricciardi. Egli era stato assunto, dopo il congresso di Sesto, come segretario della Federazione e, al pari degli altri socialisti riformisti, era tenace assertore della cooperazione tant'è che, oltre alla Vetreria Operaia Federale, fu promotore di altre cooperative a Livorno: l'Unione Poligrafica, la Cooperativa Falegnami e le cooperative di consumo Avanti! e San Jacopo. La VOF è decollata pur facendo a meno di un imprenditore ed è stata sicuramente competitiva sul mercato, ciò è dimostrato dal fatto che è diventata la più grande vetreria italiana.



             



                Figura 3: La Vetreria Operaia Federale di Sesto Calende



D) Nel successo della fondazione della V.O.F. quanto contarono però il lavoro volontario, gli straordinari non pagati, l’aiuto degli intellettuali/agitatori socialisti?



R) La prima cosa che ha contato nel successo della fondazione della VOF è stata la fiducia dei vetrai, che hanno creduto nella loro capacità di emanciparsi e hanno impegnato i loro soldi per costituire il capitale sociale; molti arrivano a ipotecare la casa, il maestro Giuseppe Milano per partecipare vende la bicicletta. Ha contato molto anche la guida di Modigliani e l'entusiasmo di Ricciardi, grande trascinatore.

     E vorrei aggiungere che, adesso che è stata sistemata l'area della Vetreria a nuova destinazione, sarebbe doveroso che la toponomastica del luogo ricordasse, con l'intitolazione di via Modigliani e via Ricciardi, chi tanto ha dato alla crescita di Sesto.



D) Quanto ha contato in quest'esperienza una specificità tutta locale, un contesto sociale particolarmente favorevole? Ci sono casi simili nella storia del movimento cooperativo per durata e dimensioni raggiunte?



R) Penso che all'origine della vivacità sestese di allora ci fosse il fatto che la prima vetreria di Sant'Anna è stata aperta nel 1813 e da noi sono venuti i maestri di Altare, i Prussiani e i Francesi e questo deve pure aver aperto la mente dei nostri nonni e bisnonni.

   Nella storia, ci sono state altre cooperative di produzione, di lavoro e di consumo di grandi dimensioni, ma non avendone conoscenza diretta non posso fare raffronti con la VOF.



            



    Figure 4 e 5: una azione della Vetreria Operaia Federale; Cesare Ricciardi





D) Come ha funzionato nel tempo la governance della cooperativa? C'è stata continuità, o fasi e trasformazioni? Se si, che motivazioni ne erano alla base? Ci sono state figure che hanno assicurato nel tempo continuità gestionale?



R) Il governo d'impresa della VOF, della Vetreria Lombarda cooperativa e della Vetreria Lombarda società per azioni è basato sull'assemblea dei soci e sull'elezione, democratica e combattuta, del consiglio di amministrazione. I soci hanno molto peso, lo dimostra l'esempio dell'introduzione delle macchine che a Sesto avviene solo nel 1936, molto tardi rispetto ad altre vetrerie (avevamo detto prima che la Vetro le aveva introdotte nel 1901) proprio per non togliere il lavoro ai vecchi soffiatori.

     C'è stata sicuramente continuità gestionale, Ricciardi è stato direttore generale per tutto il periodo di attività della VOF e a Sesto Ernesto Varalli è stato direttore per cinquant'anni.

     Chiaramente non è sempre stata una happy family, la fraternità socialista non può certo essere introdotta da una delibera. Ci sono stati contrasti, anche molto forti. Ricordo ad esempio un oppositore, Marco Bruscherini: egli era un grangarzone, segretario del PSI sestese nel 1903, diventa poi anarchico; la sua critica a Ricciardi è talmente forte da finire nelle aule dei tribunali. Per concludere, un altro episodio significativo: ad un certo punto Ricciardi, per contrasti interni, si dimette da direttore e accetta poi di tornare in carica, ponendo però alcune condizioni una delle quali era che i vetrai analfabeti in servizio dovessero obbligatoriamente alfabetizzarsi.



D) La capacità di resistenza e resilienza, anche mimetica (trasformazione in S.p.A.) dei vetrai sotto il fascismo (e non solo dei vetrai, stando a quanto racconti della Cooperativa “La proletaria” poi “Italia” e poi di nuovo “Proletaria”) ha dell’incredibile e testimonia evidentemente di una compatta solidarietà sociale. Tutto questo è venuto meno invece al cospetto del neo-capitalismo e del consumismo, negli anni del “boom”?



R)  L'atteggiamento dei fascisti nei confronti della Vetreria, come del resto succede per tutta la cooperazione, non segue una linea coerente. Inizialmente c'è l'attacco violento: irruzione squadristica (respinta dai vetrai armati di canne con attaccato il vetro fuso), ingaggio delle squadracce di Gallarate per assalto con bombe a mano e incendio della fabbrica (annullato all'ultimo momento), bando dell'impiegato Sanguanini, aggressione mortale del presidente Masnaghetti e del consigliere Brusa. Successivamente c'è l'intenzione di impadronirsi della Vetreria. Cosa che viene sventata con mossa abile e rapida: il direttore Ernesto Varalli si reca a Milano e torna a Sesto dopo due giorni con in tasca la trasformazione della cooperativa in società per azioni e la costituzione di un sindacato interno vincolativo per il trasferimento delle azioni. L'astuta operazione lascia con un palmo di naso i fascisti che pretendevano le azioni della cooperativa e si trovano invece di fronte al muro della S.p.A.       Ovviamente la Vetreria deve convivere con la dominazione fascista ma, con la trasformazione societaria, ha evitato odiose infiltrazioni politiche ed è rimasta un'isola democratica dove non era richiesta la "tessera del pane". Anche se formalmente non era più una cooperativa, in pratica ne manteneva la sostanza avendo un azionariato molto diffuso, i dipendenti erano azionisti. E questa sostanza è rimasta anche dopo il fascismo e sintomatico è lo svolgimento delle assemblee della società: gli operai si riunivano nella mensa aziendale.



D) Oggi il modello cooperativo, se può annoverare un colosso presente in molti settori, sembra però aver perso la sua "spinta propulsiva" di carattere solidale. Che valutazioni si possono dare? Che futuro potrebbe avere anche alla luce del caso sestese? E' naturalmente confinato alla piccola scala o ha la possibilità di "scalare" a dimensioni di grande impresa?



R) Oggi in Italia, per fortuna, la cooperazione è una componente importante dell'economia nazionale. Ci sono delle grandi imprese cooperative, se guardiamo il rapporto dell'Osservatorio Grandi Imprese dell'Alleanza delle Cooperative Italiane dal titolo “Le grandi cooperative italiane”, vediamo che nel 2015 c'erano ben duecentocinquanta cooperative che vantavano ricavi superiori a 50 milioni di euro. Se oggi si fa fatica a vedere la spinta di carattere solidale nella cooperazione tradizionale, la si vede, eccome, nelle cooperative sociali, prevalentemente giovanili, nate in gran numero in questi ultimi anni e dedicate alla gestione dei servizi sociosanitari e educativi o all'inserimento lavorativo, in ambiente protetto, di soggetti svantaggiati. In Provincia di Varese sono ben più di cento le cooperative sociali attive, a Sesto abbiamo l'opportunità di averne due, L'Aquilone che progetta e attua interventi educativi e sociali rivolti a bambini, adolescenti e giovani e Erre Esse che svolge attività di inserimento lavorativo, sia nel proprio laboratorio che nella gestione del verde.



D) Che cosa insegna la governance della cooperativa dei vetrai sestesi del ‘900 alla governance di imprese orientate al profitto, ma sensibili a temi di responsabilità sociale (in senso “olivettiano”)? Quali forme potrebbero essere estese dall'uno all'altro campo?



R) Indubbiamente nelle imprese capitalistiche si sta facendo strada una nuova idea del lavoro basata sul concetto di responsabilità sociale d'impresa. In una fase storica nella quale il contenimento della spesa pubblica avviene sulle spalle delle fasce più deboli della popolazione con la progressiva dismissione del welfare, assume rilievo quello che viene definito welfare d'impresa, già presente, secondo i dati di Assolombarda, in un terzo degli accordi aziendali stipulati in Italia. Si tratta di buone pratiche, per esempio l'orario flessibile o le prestazioni integrative sanitarie e previdenziali, rivolte al benessere dei lavoratori e delle famiglie che migliorano il clima aziendale e la competitività dell'impresa.

     La responsabilità sociale d'impresa che adesso si afferma era già stata "inventata" più di cent'anni fa dalle cooperative dei vetrai con i sussidi ai malati, agli orfani, ai disoccupati, le pensioni e le case.    



    

    

      Figura 6: le Case dei Vetrai in Sesto Calende    



E' sempre utile studiare la storia, vedere come in passato sono stati affrontati i problemi aiuta a risolverli oggi.



NOTA A: Il testo di Marianelli è reperibile alla Biblioteca Nazionale Braidense, alla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli (dove ha condotto la ricerca), all'Istituto Ferruccio Parri e alle Biblioteche di Scienze Politiche e di Scienze della Storia dell'Università degli Studi di Milano. Sempre a Milano, alla Fondazione Feltrinelli e alla Biblioteca di Scienze Politiche, è presente il volume miscellaneo “G. E. Modigliani e il socialismo italiano” nel quale compare il suo contributo “Modigliani e gli operai del vetro”. E' reperibile inoltre nell'emeroteca della Biblioteca Civica di Varese “I lavoratori del vetro in Italia all'inizio del '900: condizioni di vita e di lavoro“ (“Società e storia”, n. 8, 1980) e nell'emeroteca della Braidense “Un'aristocrazia operaia agli inizi del Novecento: i lavoratori del vetro“ (“Calendario del popolo”, n. 437, ottobre 1981).





Fonti

1.    Alessandro Marianelli  ”PROLETARIATO DI FABBRICA E ORGANIZZAZIONE SINDACALE IN ITALIA ALL'INIZIO DEL SECOLO: IL CASO DEI LAVORATORI DEL VETRO” Franco Angeli, Milano, 1983

2.    Mario Varalli “GIUSEPPE EMANUELE MODIGLIANI E I VETRAI DI SESTO CALENDE. 1900-1906” in TRACCE, volumi 14-15, 1993

3.    Mario Varalli “SESTO CALENDE:UNA STORIA DI VETRO” in Autori Vari : “ARCHITETTURE NEL SEGNO DELL'ACQUA”, a cura di Luciano Crespi, Alinea Editrice, Firenze 1998

4.    Mario Varalli “LA PROLETARIA – CENTODIECI ANNI PER I SESTESI”, edito da “La Proletaria Cooperativa di Consumo e Agricola, Sesto Calende 2017

5.    Giovanni Di Bella “LA VETRERIA OPERAIA FEDERALE DI SESTO CALENDE E IL MANOSCRITTO DI GUGLIELMO ZAMPERINI” Pro Sesto, Sesto Calende 2006