“IL TERRITORIO BENE
COMUNE DEGLI ITALIANI” di Paolo Maddalena è un volumetto agile ma molto denso
(denso anche di citazioni di altri dotti giuristi, e di alcune importanti
sentenze), in cui l’ex-vice presidente della Corte Costituzionale (fino al
2011, ed in precedenza docente di diritto, magistrato contabile, consulente del
ministero dell’Ambiente) espone le sue posizioni, giuridiche e politiche,
alquanto radicali, non solo riguardo al territorio, ma anche riguardo ad altri
beni comuni nella sfera ambientale e sociale, fino alla sovranità monetaria.
Riassunto:
-
i principi dei beni
comuni nel diritto romano (e germanico?)
-
dal Medioevo al Codice
Napoleonico, dallo Statuto Albertino al (vigente) Codice Civile
-
il salto culturale
della Costituzione Repubblicana e la sua mancata attuazione, fino alle tendenze
opposte nella legislazione degli ultimi decenni:
o
libertà di impresa
o
cessione di beni
pubblici
o
cartolarizzazione dei
debiti
-
mercati, debiti e
finanza (sotto l’influenza negativa della common law anglo-sassone)
in corsivo gli ampli commenti personali del recensore
I
ragionamenti di Maddalena1 si fondano soprattutto sulla storia e
sull’evoluzione del diritto, ed in particolare sugli aspetti ‘progressivi’
della Costituzione Repubblicana, di cui l’Autore mostra le ascendenze in
diversi istituti del diritto romano (e germanico, talora afferma, ma senza
svilupparne la dimostrazione; da lì forse gli insistenti richiami di Maddalena
al pensiero di Carl Schmitt – non certo un fior di democratico - sulla
“super-proprietà” del popolo sovrano?) ; mentre ritiene fuorvianti le proposte
– pur progressiste - derivate dalla common-law anglosassone, dal concetto di
comunanza degli usi alla class action, e giudica perniciose le influenze giuridico-culturali anglo-americane in
materia di economia e finanza, dalle cartolarizzazioni dei debiti alla
proliferazione dei ‘derivati’).
Il
nocciolo del pensiero di Maddalena sta nel rapporto tra proprietà collettiva e
proprietà privata, dove la prima prevale sulla seconda, non riconosciuta tra i
diritti fondamentali dei cittadini nei primi articoli della Costituzione, e ben
delimitata e condizionata negli articoli 41, 42 e 43, che più direttamente se
ne occupano (vedi testi in appendice): con qualche filiazione, per l’appunto,
da alcune concezioni dell’ AGER PUBLICUS nella Roma dei Re e della Repubblica,
che ne vedeva l’assegnazione in proprietà privata (DIVISIO) ma con modalità
specifiche (il MANCIPIUM per la sussistenza originaria delle famiglie; la
POSSESSIO, commerciabile, ma più simile a un diritto di uso temporaneo),e ferme
restando le proprietà collettive dei pascoli e di altre risorse naturali, nonché – anche in epoca imperiale – la
limitazione o ablazione della proprietà, in caso di AGER DESERTUS (terre
abbandonate) e gli interventi di
INTERDICTIO (espropri punitivi, anche su istanza di terzi).
Mi permetterei di
rilevare tuttavia che in questa rilettura del diritto romano Maddalena da un
lato sottovaluta (confinandola alla tarda Repubblica) la dimensione totalizzante della potestà del
PATER-FAMILIAS, anche in materia di immobili, e quindi la profonda radice
romanistica del diritto di proprietà (ed in particolare con un’ombra proiettata
sullo IUS AEDIFICANDI, che non era certo estraneo al “DOMINIUM EX IURE
QUIRITIUM”, il concetto originario di appartenenza delle cose ai singoli CIVES),
e dall’altro trascuri le peculiari commistioni tra privato e pubblico nella
stessa gestione della RES-PUBLICA, dall’armamento degli eserciti alla
realizzazione di ‘grandi opere’, fino alle stesse elargizioni di ‘PANEM ET
CIRCENSES’ in cambio di consenso (qui le origini del clientelismo e del voto di
scambio?).
Non dimenticando
inoltre che gran parte dell’ager publicus era territorio sottratto ai popoli
sconfitti, e che la corsa alla POSSESSIO premiava i più forti, un po’ come nel
Far West, e veniva poi gestito con un sistema prettamente schiavistico:
insomma, non il massimo come precedente ‘ugualitario’ per la dottrina dei beni
comuni.
La
dissertazione storica per i periodi successivi non è altrettanto dettagliata:
il testo evidenzia la formazione di un “demanio” funzionale, distinto dal più
generale “dominio” e dai “beni della corona” in pieno Medio Evo (Federico II ed
i giuristi del 13° secolo) e poi la contrapposizione tra assolutismo e
contrattualismo, da cui nascono le moderne costituzioni; con un prodromo libertario
ed egualitario nella rivoluzione francese ed invece una netta involuzione
“borghese”, con l’affermazione della centralità della proprietà privata, nel
successivo codice napoleonico, matrice anche delle “costituzioni concesse” come
lo Statuto Albertino ed il conseguente codice civile del 1942, tuttora vigente
in Italia.
Ben
si staglia quindi la svolta concettuale della nostra Costituzione che agli
artt. 41-42-43-44 tende ad incardinare la libertà di impresa e la proprietà
privata in un sistema complesso, con prevalenti finalità sociali (mi pare che Maddalena però esageri nella
sua interpretazione, quando vuol forzare in senso collettivista anche il
concetto di “rendere [la proprietà] accessibile a tutti”, espressione che a mio
avviso invece sta ad indicare una propensione dei padri costituenti in favore
della diffusione della proprietà privata, riguardo alla terra, alla casa e
forse all’azionariato popolare); e correttamente l’Autore evidenzia (anche
con il supporto di corpose citazioni di illuminanti passi di Stefano Rodotà2)
le contraddizione tra tali enunciati e grossa parte della realtà
giuridico-economica della storia repubblicana, dal permanere degli istituti
privatistici del suddetto Codice Civile (riguardo alla proprietà e riguardo ai
contratti) a diverse sentenze della stessa Corte Costituzionale in materia di
urbanistica ed espropri, fino al prevalere – talvolta bipartisan – dei nuovi
dogmi neo-liberisti, con passaggi emblematici quali:
- la legge sulla libertà di impresa (n°
148/2011) che afferma tra l’altro “è permesso tutto ciò che non è espressamente
vietato dalla legge” e contrasta palesemente con l’art.41 Cost. (articolo che
infatti il ministro Tremonti avrebbe voluto esplicitamente modificare, così
come l’art 1, laddove fonda la Repubblica sul lavoro)
- le varie e contorte procedure per la
sdemanalizzazione e alienazione di beni pubblici (qui però mi sembra che Maddalena esageri sia nell’ignorare i
temperamenti che il centro-sinistra ha apportato all’impostazione
berlusconiana, limitandone la portata e passando per lo più dalla cessione dei
beni alla concessione temporanea in uso ai privati, sia demonizzando la
devoluzione di una parte di tali beni a Regioni e Comuni, operazione che – al di là degli
aspetti di propaganda ‘federalista’- non coincide con la loro alienazione,
essendo comunque gli enti locali “cosa pubblica”; inoltre posso testimoniare di
persona che – ad esempio – il passaggio alla gestione intercomunale del demanio
costiero dei laghi ha comportato un balzo in avanti in termini di rigore,
efficienza ed attenzione agli interessi pubblici ed ambientali, troncando le
storiche collusioni tra interessi privati particolari e precedenti gestioni
statali).
- la cartolarizzazione dei debiti
(legge n° 130 del 1999, governo D’Alema), meccanismo poi ampiamente praticato
da Tremonti, e significativamente risultato al centro dell’origine americana
della crisi finanziaria del 2007.
E
qui arriviamo alla seconda parte del testo di Maddalena, che denuncia il
prevalere a scala globale del solo principio giuridico della libertà di mercato
(e di esigibilità dei crediti), a danno degli interessi collettivi dei popoli e
dello stesso potere dei singoli stati, recependo le analisi di Luciano Gallino
sul finanz-capitalismo 3, 4 ed a mio avviso accodandosi poi ad un
coro ormai un po’ datato di catastrofismo sulle sorti dell’Euro, con uno
svolgimento piuttosto propagandistico, ove si perde la chiarezza giuridica
della prima parte del testo, anche se ne riprende i concetti fondamentali di
“popolo-territorio-sovranità” (con un certo disprezzo invece verso gli istituti
sovranazionali ed il cosmopolitismo, visti come asserviti alla
globalizzazione neo-liberista).
In particolare, pur
concordando pienamente con Maddalena nello sgomento di fronte al continuo espandersi
delle ricchezze finanziarie virtuali, disuguali e speculative, con permanente e
crescente rischio di crollo a danno di tutti, non riesco a capire perché dovrei
preferire un crescita esponenziale dei debiti pubblici, anch’essi forieri di
potenziali immani squilibri, in particolare se dichiaratamente non
esigibili.
Ma anche nella prima
parte del libro, pur apprezzandone stimoli e contributi, mi pare che aleggi un
equivoco di fondo, in un contesto che appare di sola ‘storia del diritto’
(quasi idealistica), senza cimentarsi con la storia nel suo insieme, che è
concretezza di scontri di potere e di interessi tra le classi ed i gruppi
sociali.
Infatti il protagonista
immanente delle argomentazioni di Maddalena è un (misconosciuto) soggetto
collettivo, ma astratto, il “popolo” e lo “stato come comunità”, proprietario
del “territorio”: a partire da una implicita idealizzazione di
SENATUSPOPULUSQUEROMANORUM (come se la storia di Roma non fosse invece una
selvaggia vicenda di appropriazioni di beni pubblici e di contrapposizioni di
interessi, di cui i 2 Gracchi sono solo i più illustri tra le vittime)5
e ad arrivare ad una idilliaca apparizione della Costituzione Repubblicana
(mentre ci sono stati di mezzo: una guerra persa ed una guerra civile; la
caduta, ma non la dissoluzione, di un regime dittatoriale che aveva acquisito
un consenso di massa; la semi-continuità
di uno stato addirittura pre-borghese, con la sua concretezza di potere
poliziesco e burocratico. E mentre si avviava una poderosa discontinuità nello
sviluppo economico, con l’industrializzazione di massa).
Significativa in tal
senso mi sembra l’insufficiente spiegazione della sconfitta del riformismo del
primo centro-sinistra sul disegno di legge Sullo in materia urbanistica (che
prevedeva l’esproprio a prezzi agricoli di tutte le aree allora necessarie per l’espansione
urbana, e la successiva cessione in diritto di superficie delle aree
urbanizzate): secondo Maddalena “prevalse una ideologia borghese”, senza
ulteriori spiegazioni.
A mio avviso non è né
esatto né sufficiente (e non mi pare che sul tema basti pensare alla
complessità del consenso complessivo al regime democristiano di quegli anni).
Penso che – anche tra i
ceti non abbienti, in maggioranza tra gli elettori di diversi partiti – abbia
pesato il mito contadino (e non strettamente “borghese”) della proprietà della
terra (diffuso anche tra i mezzadri, fittavoli e braccianti, che quella terra
non avevano mai posseduto ma certo desiderato; ed in parte quindi anche tra gli
operai, che contadini erano stati appena ieri, o ancora lo erano a part-time e culturalmente,
e nei legami famigliari).
E penso inoltre che
tale meccanismo abbia funzionato ancora, qualche decennio dopo, in favore della
propaganda berlusconiana attorno al tema “padroni a casa propria”, dai condoni
edilizi alla de-regulation urbanistica, fino all’abolizione dell’IMU, imposta
sulla prima casa; non a caso in questa società italiana (non così in altri
paesi europei) nel frattempo buona parte dei non-abbienti, pur rimanendo tra i
ceti subalterni, erano divenuti ‘piccoli abbienti’, in quanto proprietari della
propria casa (o eredi di vecchie case avite nei luoghi di origine).
Tali mie valutazioni
non intendono sfociare in un fatalismo disfattista, nel senso della
ineluttabilità della sconfitte del primo centro-sinistra degli anni ’60 e dell’ultimo
degli anni 2000, ma indicare la necessità di una costruzione laboriosa e
socialmente articolata delle possibili vittorie del riformismo.
Con queste mie critiche
infatti non voglio negare l’utilità delle enunciazioni giuridiche e delle
rivendicazioni in favore dell’attuazione della Costituzione: ma non ritengo che
tali proclamazioni siano sufficienti né a definire una linea politica (si
tratti di “Articolo 1” oppure del “ritorno alla Costituzione” enunciato tra gli
altri da Tomaso Montanari e Anna Falcone) né a conseguire un’evoluzione
progressiva del diritto stesso (ad esempio in materia di risparmio del consumo
di suolo), se manca una analisi delle dinamiche sociali capace di sostituire
alla mitica “comunità dei cittadini” (ben rappresentata nell’Introduzione di
Salvatore Settis al libro in esame: cittadini contro i partiti, come è – o era
- nella retorica del Movimento5Stelle, e come invece non è esplicitato nel
testo di Maddalena) la concreta comprensione della moderne società complesse,
degli interessi che le pervadono, dei conflitti che le agitano, dei linguaggi
che le attraversano. 7
APPENDICE: TESTO DEGLI ARTT.
41-42-43-44 DELLA COSTITUZIONE
Art. 41.
L'iniziativa economica privata è
libera.
Non può svolgersi in contrasto con
l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla
dignità umana.
La legge determina i programmi e i
controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere
indirizzata e coordinata a fini sociali.
Art. 42.
La proprietà è pubblica o privata. I
beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.
La proprietà privata è riconosciuta e
garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i
limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile
a tutti.
La proprietà privata può essere, nei
casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi
d'interesse generale.
La legge stabilisce le norme ed i
limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato
sulle eredità.
Art. 43.
A fini di utilità generale la legge
può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo
indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti
determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi
pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano
carattere di preminente interesse generale.
Art. 44.
Al fine di conseguire il razionale
sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone
obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua
estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica
delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità
produttive; aiuta la piccola e la media proprietà.
La legge dispone provvedimenti a
favore delle zone montane.
Fonti:
1. Paolo Maddalena “IL
TERRITORIO BENE COMUNE DEGLI ITALIANI” - Donzelli Editore, Roma 2014
2. Stefano Rodotà “IL TERRIBILE
DIRITTO. STUDI SULLA PROPRIETÀ PRIVATA E I BENI COMUNI” - Il Mulino, Bologna 2013
4. Luciano Gallino
“FINANZ-CAPITALISMO” - Einaudi 2011
5. Commento a
“FINANZ-CAPITALISMO su questo blog “relativamente, sì” – www.aldomarcovecchi.blogspot\pagine – PAG. I^
FILOSOFIA-SOCIOLOGIA-ECONOMIA
6. Francesco De Martino
“STORIA ECONOMICA DI ROMA ANTICA” - La nuova Italia, Firenze 1979
7. Richiamo anche, per
contiguità tematica, Ermanno Vitale “CONTRO I BENI COMUNI – UNA CRITICA
ILLUMINISTA” – Editori Laterza 2013 , da me recensito su UTOPIA21, ottobre 2016
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