“SESSANTOTTO”
di Anna Maria Vailati e
di Aldo Vecchi
Una duplice riflessione
sul ’68 svolta in parallelo da due testimoni che ricordano e interpretano in
modo diverso una storia vissuta per buona parte in comune
da pag. 2 a pag. 7 il
testo di Anna Maria Vailati
“IL ’68 COME LO
RICORDO”
Sommario:
domande
storia
violenza
comunisti
comunicazione
donne
moda
retaggi
da pag. 8 a pag. 22 il
testo di Aldo Vecchi
“IL MIO ‘68”
Sommario:
premessa
le epifanie culminanti
la lunga fase crescente
il ’68 e la violenza
i nodi al pettine:
lotte operaie, potere dello stato, rivoluzione (?)
il tramonto (e il 77)
considerazioni finali
“IL ’68, COME LO
RICORDO”
di Anna Maria Vailati
Una simil-intervista a
più voci sui momenti salienti delle trasformazioni soggettive attraversate da
chi allora aveva vent’anni
Sommario:
domande
storia
violenza
comunisti
comunicazione
donne
moda
retaggi
VOCE
A “Ho fatto il ‘68”
VOCE B “Hai 70 anni,
terribile!”
VOCE C “Racconta”
VOCE
A “Non sono uno storico…”
VOCE B “Dici ‘Ho fatto
il ’68’ come se fosse ‘Ho fatto la varicella, il morbillo’, come se fosse una
malattia infantile.”
VOCE
A “Certo, una malattia infantile che Ti ricordi con angoscia, ma anche con
affetto; lo stesso sentimento ambivalente, con in più una vaga sensazione di nausea,
dovuta al fatto che ricordare costa fatica e sofferenza e che in questo 2018,
cinquantesimo anniversario, si scrive e si dice molto su quegli eventi”
VOCE B “Cinquant’anni
sono tanti”
VOCE
A “Se pensi che il ’68 e la Resistenza erano distanti circa 25 anni, un
rapporto analogo deve farsi con la Prima Guerra Mondiale e con la nascita del Fascismo
(1918-1968-2018). Con la Resistenza c’è stato poi un filo diretto; dopo la
strage di Piazza Fontana ci saremmo sentiti gli eredi di quella fase eroica;
dovevamo concludere una rivoluzione interrotta”
VOCE C “Andiamo con
ordine…”
VOCE
A “Come per molti eventi, il Sessantotto si può declinare al plurale, ‘i
sessantotto’. Ogni persona che ha vissuto quell’esperienza ne ha un ricordo diverso,
ma sempre importante, perché fu un’esperienza formativa. E si trattava di un
fenomeno globale, che coinvolse molti Paesi e molte realtà giovanili, e non
solo; al tempo stesso multiforme per le problematiche sollevate e molto aperto
agli apporti individuali.
Eravamo
studenti, generalmente di famiglie borghesi o piccolo-borghesi e di formazione
cattolica, che avrebbero dovuto vedere nel conseguimento di una laurea il
realizzarsi di uno scontato progetto di vita.”
VOCE B : “Aveva ragione
Pasolini!”
VOCE
A “Invece e anche a causa di avvenimenti degli anni precedenti, come il
Concilio Vaticano II, la pubblicazione di “Lettera a una professoressa”,
l’esperienza di “Gioventù Studentesca”, il caso “Zanzara”, la guerra del Vietnam, abbiamo cominciato a
porci delle domande, di tutti i tipi: sul contenuto delle discipline
scolastiche che dovevamo acquisire, sul ruolo futuro come professionisti, sulla
famiglia, il sesso, il potere, la politica. Abbiamo cercato di prendere
coscienza, di aprire gli occhi: l’obbedienza non era più una virtù.”
VOCE B “Come Alice nel Paese delle Meraviglie”
VOCE
A “Nella Facoltà di Architettura seguivo le assemblee e i seminari didattici,
avevo l’impressione che molto del detto mi sfuggisse, molti facevano discorsi
complessi. Se volevo capire, però, dovevo starci dentro, in quel pentolone
ribollente, perché avevo la sensazione di partecipare alla storia, di fare la
storia”
VOCE B ”Addirittura la Storia?”
VOCE C “Allora tutto
bello…”
VOCE
A “Finora ho raccontato solo in parte la mia esperienza di un periodo iniziale,
che considero il vero Sessantotto, che è definitivamente tramontato con un
botto, la bomba di piazza Fontana, il 12 dicembre 1969”
VOCE C “Non c’era più
posto per Alice”
VOCE
A “Fu una risposta violenta contro degli innocenti. Valle Giulia a Roma e Largo
Gemelli a Milano erano stati degli scontri di piazza, facevamo delle azioni e
la Polizia rispondeva duramente, ci prendevamo le nostre responsabilità. A
Largo Gemelli eravamo tanti studenti, con i libri sotto il braccio, convenuti
un po’ per caso a solidarizzare con gli espulsi dalla Cattolica serrata dalle
Autorità: l’azione dal punto di vista “militare” era un po’ folle, chiusi
dentro in un cul-de-sac, di fronte a una caserma; mi ricordo i tre squilli di
tromba, tutti che correvamo verso Sant’Ambrogio inseguiti dalla manganellate poliziesche
e però anche rincuorati a fine fuga da qualche divisa più pietosa. Io non ho
preso manganellate, ma ho rischiato di prendere due sberle da mia mamma al
ritorno a casa.
I
morti del 12 dicembre erano innocenti. Le bombe mettevano in atto la strategia
della tensione e i successivi anni bui”
VOCE C “Ma contro chi
erano quelle bombe?”
VOCE
A “Innanzitutto e di fatto
contro le vittime e le loro famiglie, e,
come disegno politico, contro tutto quello che era in movimento,
i lavoratori e gli studenti, la società che stava cambiando, mentre lo Stato
faceva fatica a capire. Alcune forze avevano paura della dialettica sociale,
che doveva essere riportata all’Ordine. Questa rigidità dallo Stato mi fa
tornare in mente quelle belle immagini di generali del grande fumettista
Chiappori”
VOCE C “Avevate un
disegno complessivo di società?”
VOCE
A “Probabilmente le nostre domande, le nostre speranze non erano in grado di
strutturarsi in un progetto articolato, in una prospettiva; spesso erano solo
brandelli di esigenze, rivendicazioni inserite in un flusso multiforme, con
alcuni nuclei come l’anti-autoritarismo, la denuncia della selezione di classe.
Il dibattito e le decisioni avvenivano in assemblea con grande fluidità di
schieramenti, in genere non pre-costituiti; ambiti in cui sono emerse le figure
di nuovi leaders. Nel caso particolare della facoltà di Architettura di Milano,
già occupata in precedenza, con
la pubblicazione di un “Libro Bianco”, si è passati nel ’68 alla sperimentazione
didattica, coinvolgendo gran parte dei professori e la quasi totalità
degli studenti nel lavoro intellettuale in “ricerche” a tema. Un’esperienza
complessa e controversa, culminata negli esami collettivi, poi annullati dal
Ministero nel silenzio dell’agosto, mentre noi scoprivamo l’emozione delle
vacanze collettive in tenda, la
bellezza dei paesaggi del Sud e la concretezza della questione
meridionale”
VOCE B “Ma siete
diventati tutti comunisti, addirittura maoisti”
VOCE
A “L’incapacità delle autorità accademiche e l’ottusità della repressione
politica e poliziesca hanno spinto alla radicalizzazione anche molti studenti
moderati. Ed è in questo snodo che è emersa maggiormente la nostra incapacità
di essere creativi ed il ricadere invece su schemi precostituiti e nel
settarismo: dalla fase assembleare magmatica si è passati alla
cristallizzazione organizzativa nei “gruppi” e nei partitini.
La
migliore risposta sta in una frase di Vittorio Foa, riportata da Guido Crainz
in un articolo su ‘L’Espresso” del 28 gennaio 18 ‘Straordinarie energie
giovanili furono disperse nel riscoprire e ripetere la Dottrina, nel ricostruire
spesso come caricatura, quello che si era pensato di mandare al macero’. Questo
brano mi è sembrato esemplare, perché diceva ciò che con difficoltà da tanto
cercavo di formulare. La mia generazione non è stata capace di costruire un
progetto politico e culturale autenticamente nuovo ed idoneo ai tempi.”
VOCE C “I buoni e i
cattivi maestri”
VOCE
A “Non ho mai creduto alla vulgata dei ‘cattivi maestri’, sia perché eravamo
comunque tutti adulti, sia perché in quella fase caratterizzata da un forte
spontaneismo, i suggerimenti di letture, di film, di esperienze da parte di
compagni più informati erano sì diffusi, ma non polarizzati.
VOCE B “Il movimento
era maschilista”
VOCE
A “Se eravamo gli ‘angeli del ciclostile’, con un ruolo spesso gregario, è
perché non siamo state capaci di capire che quella contraddizione era fondamentale
dentro la società che combattevamo. Mi rammarico, con il senno di poi, di non
aver prestato allora attenzione a ‘sorelle’ che già avevano evidenziato la peculiarità
della condizione femminile. Ritengo che il maschilismo e la violenza siano
componenti dello stesso nodo, che si è stretto soprattutto nella fase dei
“gruppi” ed erano assai meno pervasivi nella fase nascente e assembleare.
VOCE B “Ma che cos’è il
ciclostile?
VOCE
A “Gli strumenti di comunicazione e propaganda usati dal movimento oggi
sembrano arcaici: i “dazebao”, manifesti scritti a mano con pennarelli, le
scritte sui muri, spesso ironiche, gli slogan gridati nelle manifestazione, le foto, i fumetti, le serigrafie ed i
volantini, le mozioni, i documenti duplicati con il ciclostile, una macchina a
mano od elettrica che utilizzava matrice dattiloscritte, inchiostro moto
invasivo e carta in risme di scarsa qualità. Le abilità acquisite in queste
attività hanno portato alcuni a carriere in campo artistico o editoriale.
A
parte le riviste di avanguardia, come ‘Quindici’, ‘Quaderni piacentini’, ecc.,
solo in qualche caso il movimento riuscì anche ad accedere con le proprie voci
ai mezzi di comunicazione ufficiali con ospitate in giornali e trasmissioni e
radio-televisive, che altrimenti trattavano di noi solo come problema di
‘ordine pubblico’.
VOCE C “Ma torniamo al
ruolo delle donne”
VOCE
A: Nonostante la presenza femminile in diverse facoltà fosse ormai cospicua,
indubbiamente i leader emergenti erano in genere maschi, le ragazze assumevano
ruoli più subalterni e talvolta gregari, soprattutto nelle attività politiche,
mentre in quelle didattiche c’era più spazio per affermarsi. Complessivamente
la differenza di ruoli rispetto al genere rifletteva le gerarchie esistenti
nella società.
Mi
ricordo un episodio, un giorno alla Statale occupata, con la Polizia alle porte
che incombeva, io ed un’altra ragazza, a caso, fummo mandate in aula remota ad
‘accudire’ un gruppo di studenti medi, presenti all’assemblea, che si
progettava di far evacuare da una porticina laterale in caso di irruzione
poliziesca. Ma non ci fu un finale avventuroso.”
VOCE B “Portavate tutti
l’eskimo?”
VOCE
A “Si è detto poi che il sessantotto ha promosso la nuova categoria dei
‘giovani’ come specifico target del consumismo. In effetti la modificazione
delle abitudini nell’abbigliamento risultò molto forte nel caso dei maschi, che
sono passati dal vestito buono, con giacca e cravatta, o almeno camicia e
maglioncino, ai jeans, alle T-shirt, con barba e capelli lunghi, e a quella
giacca verdastra di origine militare e di aspetto castrista che era l’eskimo,
tutti indumenti di basso costo tipo ‘mercatino di Livorno’; invece le fanciulle
hanno continuato per un po’ a portare capelli cotonati, gonne tese, o
finalmente pantaloni, e maglioncini adeguati; le gonne lunghe, le camicie
ricamate da figli dei fiori sono arrivate dopo, dall’America. L’abbigliamento
in genere non era un problema, si tendeva verso una maggiore semplicità pauperistica.
Anche l’arredamento nelle case degli studenti fuori sede, delle nuove coppie e
delle prime abitazioni collettive vedeva la presenza di mobili di midollino,
lampade di carta e tessuti riportati da qualche vacanza più o meno esotica.
VOCE C “E cosa è rimasto?”
VOCE A “Non mi addentro nella analisi più
ampia, storica e politica; innanzitutto siamo rimasti noi, sia quelli che hanno
proseguito, pur con molti errori, nella militanza, sia quelli che rifluendo in
ordinarie vite, private e professionali, hanno conservato comunque una
attitudine critica e un punto di vista solidale. Si è verificato inoltre un
travaso, dall’ambito pubblico, a quello delle famiglie di origine, che spesso
dopo una iniziale fase di perplessità o rigetto, sono state coinvolte,
‘educate’, in un processo di emancipazione dalle ideologie dominanti nel regime
democristiano. E’ interessante notare che molte delle persone impegnate poi sui
vari versanti dell’ecologismo – ma anche nel volontariato sociale e culturale -
provengono da una partecipazione più o meno intensa al Sessantotto, anche se
prima del ’72-73 le tematiche ambientali erano solo talvolta accennate da
soggetti particolari.”
VOCE B “Non avete ancora perso il vizio di contestare…”
annavailati@tiscali.it
“IL MIO ‘68”
di Aldo Vecchi
Qualche riflessione
personale sul rapporto tra i movimenti “del ‘68” e l’utopia, più o meno
“rivoluzionaria”, sullo sfondo di profonde trasformazioni sociali e politiche
lungo due decenni, anni sessanta e settanta (con alcune note di
puntualizzazione rispetto ad altre ricostruzioni storiche e memorialistiche).
Sommario:
premessa
le epifanie culminanti
la lunga fase crescente
il ’68 e la violenza
i nodi al pettine:
lotte operaie, potere dello stato, rivoluzione (?)
il tramonto (e il 77)
considerazioni finali
PREMESSA
Mi ripromettevo di
affrontare il cinquantenario del ’68 (abbastanza rilevante per chi come me
allora aveva 20 anni ed ora viaggia sui 70) dopo aver riordinato i miei archivi
materiali (ahimè invece danneggiati dalle muffe delle cantine e dai traslochi;
sono rimasti solo i libri, lassù negli scaffali più in alto) ed aver
riorganizzato anche i miei ricordi, che ho invece risistemato solo fino al 1967
(per mancanza di tempo, rispetto ad altre priorità da pensionato, o per lapsus
freudiano?): mi tocca invece giocare di rimessa, stimolato dai ricordi e
commenti altrui.
Partendo dall’editoriale
di gennaio 2018 di Fulvio Fagiani1, concordo largamente riguardo al
bisogno ed alla possibilità di utopia oggi e sul limitato apporto che
l’esperienza del 68 vi può addurre, comunque soprattutto in quanto riflessione
su limiti ed errori.
Fagiani però ha
sostanzialmente distinto gli effetti di quella spinta utopistica tra consistenti
effetti “sociali” (costumi, famiglia, gerarchie) ed esigui effetti
“strutturali” (su politica, istituzioni, economia), attribuendo parte di questo
insuccesso allo sposalizio di quei movimenti con una teoria precostituita ed in
realtà inefficace e superata, quale il marxismo-leninismo (ed al mancato
approfondimento dei diversi suggerimenti di un diverso marxista quale Antonio
Gramsci in materia di “egemonia”, di “ case-matte del potere”, ecc.).
Su questi aspetti ritengo
utile precisare alcuni concetti, in una prospettiva di breve ricostruzione
storica, che differisce in parte dalle valutazioni di Fagiani, e si
distingue (soprattutto nelle NOTE) da
altre rievocazioni pubblicate in questi mesi (oppure nei precedenti decennali),
pur trovando consonanze con alcune di esse 2,3,4,5
LE CULMINANTI EPIFANIE
Il
’68 in quanto tale, anche se con “epifanie” scaglionate nell’arco di diversi
mesi per i diversi luoghi e aggregati sociali coinvolti (in Italia di certo, ed
ancor più scaglionate nel mondo), a mio avviso corrispose alle fasi più alte di
auto-coscienza e di liberazione soggettiva (ed antagonistica rispetto alle
autorità di riferimento) di consistenti gruppi di persone che costituivano (e
si sentivano) “masse”, pur essendo per lo più consistenti minoranze degli
universi sociologici di appartenenza (ad esempio: la maggioranza degli studenti
partecipanti alle assemblee, ma non la maggioranza degli studenti iscritti ai
corsi; ripensando come campione ai miei
compagni di classe in 5^ liceo nel 1967, confermo l’impressione che il
movimento ne abbia coinvolto negli anni successivi una limitata minoranza).NOTA
A
Movimenti
temporanei che ebbero tre caratteristiche fondamentali:
-
di
esprimere i bisogni e le istanze immediate dei partecipanti con linguaggi e
modi di comunicazioni (allora) nuovi ed efficaci (ad esempio i “tatsebao”
manoscritti ed i mitici volantini
ciclostilati, distribuiti fin sui sagrati delle parrocchie), capaci in tal
senso di “egemonia” sulla restante società (suscitando per altro importanti reazioni
sociali oppositive a lungo termine, benché nel breve le antiquate istituzioni fossero
piuttosto impreparate a rispondere, se non con la repressione, ottusa – cariche
di polizia – oppure furbastra e criminale – bombe fasciste da attribuire agli
anarchici, uccidendo nel frattempo vittime innocenti -);
-
di
attraversare pervasivamente una complessa articolazione sociale, raggiungendo
man mano “casematte” anche impensabili, come le caserme (“proletari in divisa”
e più tardi, per altri versi, l’ingresso dei sindacati nella Polizia ecc.) e i
palazzi di giustizia (“magistratura democratica”), gli ospedali, i manicomi e le carceri, e poi, con l’esplodere del femminismo, anche le
famiglie (comprese quelle degli stessi “sessantottini”; così, tra l’altro, in
qualche misura si mise fine a porzioni dello stesso movimento: vedi 2° ed
ultimo congresso di Lotta Continua, a Rimini, novembre 1976)6,7
-
di
diffondere un sentimento profondo (e però assai effimero) di solidarietà, non
solo locale ed orizzontale, tra i membri di una specifica assemblea, ma
verticale ed universalista, con altri movimenti locali che si opponevano “allo
stato di cose presenti” (“avete fondato
anche voi un collettivo?”), dalla Cecoslovacchia (invero un po’ divisivaNOTA
B) al Vietnam: non a caso tra i prologhi di quella “meglio gioventù” vi
fu la corsa ad aiutare Firenze sommersa dal fango nel 1966 (aspetti utili da
ricordare a chi oggi legge nel ’68 solo l’inno all’individualismo consumista). NOTA
C
In
quelle fasi culminanti dei singoli movimenti io ci vedo il massimo dell’utopia
di quegli anni, non ancora l’esplicita speranza di una rivoluzione
istituzionale, ma la sensazione di vivere, in una dimensione collettiva, una
propria liberazione, rispetto ad autorità oppressive e rispetto alla fissità dei ruoli sociali
pre-definiti. Un’utopia vivente, antagonistica e contraddittoria, curiosa di
tante letture (ed anche di evasioni, spesso tragiche, come i viaggi in India ed
i viaggi nell’universo delle droghe, alcuni senza ritorno).
Nello “stato nascente”
(come poi così definito da Francesco Alberoni) dei movimenti era diffusa la
sensazione di un “noi” allargato ed ecumenico, che con il tempo divenne invece
un “noi” settario e contrapposto agli “altri”, avversari o concorrenti. Questa
restrizione si accompagnava con le oscillazioni tra il ribellismo, che
caratterizza le ondate iniziali di liberazione soggettiva, sciogliendo le
spinte individualiste in una coralità spontanea, e la disciplina militante, che
afferma una dimensione collettiva a scapito delle pulsioni individuali (salvo
vederle risorgere nel successivo ‘riflusso’; e salvo regalare spesso alla sola
Comunione e Liberazione una dimensione comunitaria ed esistenziale, più legata
ai valori umani, ma spesso non meno settaria).
Ma
tali “epifanie” di movimentismo esplicito e clamoroso (più tardi anche
violento, tema fondamentale, che tratteggio in un successivo paragrafo) si
manifestarono all’apice di trasformazioni più lente e talora poco visibili, in
un arco di tempo assai lungo, che secondo me (e molti altri) attraversa i due
decenni consecutivi “sessanta” e “settanta”.2,3,4.5
LA LUNGA FASE CRESCENTE
In
due cicli, con una preliminare fase crescente (di cui trascuro per brevità la
dimensione internazionale) NOTA D
-
dopo
la caduta nel 1960 – sotto la spinta di imponenti moti di piazza antifascisti -
del governo Tambroni (monocolore DemoCristiano appoggiato dal Movimento Sociale
Italiano neo-fascista), il primo centro-sinistra guidato da Fanfani (con
l’appoggio ancora solo esterno del Partito Socialista) aveva suscitato speranze
di rinnovamento, realizzando anche alcune importanti riforme, dalla scuola
media unica alla nazionalizzazione dell’energia elettrica; ma la successiva
svolta moderata doro-morotea (dopo il “tintinnar di sciabole” del 1964) aveva invece
indotto diffusi elementi di insoddisfazione;
-
nelle
fabbriche era ripresa l’iniziativa sindacale, dopo le grandi sconfitte degli
anni ’50, con un nuovo protagonismo degli operai immigrati (dal Sud al Nord
Italia) ed un nuovo ruolo anche di sindacati e organizzazioni di matrice
cattolica (CISL e soprattutto FIM; ACLI); nascevano anche i primi gruppi operaisti;
NOTA E
-
nel
mondo cattolico, attivizzato dal Concilio Vaticano II (1962-1965), nascevano
infatti nuovi ambiti di riflessione non-dogmatica, anche al di fuori delle
punte “eretiche” dell’Isolotto e di Don Milani (molto letto anche prima del
1968) NOTA F: riviste, “gruppi spontanei”, pratiche di dopo-scuola
non meramente caritativi; NOTA G
-
nel
1963 si verificò la prima occupazione della Facoltà di Architettura di Milano,
su contenuti di innovamento disciplinare ed anti-autoritario NOTA H;
altre occupazioni si svolsero nel 66 a Roma (in risposta ad incursioni
fasciste, anche omicide) e nel 67 in diverse sedi universitarie (Trento, Pisa,
Napoli, Venezia e di nuovo Architettura di Milano); NOTA I
Figura 1 e 2: occupazione architettura Milano 1967: cucina e
dormitorio
– fotografie
di Walter Barbero 8
-
nei
licei si diffondevano i giornalini studenteschi auto-gestiti, piuttosto laici a
Milano, (fino al caso “Zanzara” sul tema della libertà sessuale – 1966) ed
anche la risposta filo-clericale di don Giussani, in quella fase (con
“Milano-studenti” e “Gioventù studentesca”, e non ancora “Comunione e
Liberazione”) era di fatto permeabile al dibattito (tant’è vero che una parte
consistente di GS confluì nei movimenti del ’68, e CL fu fondata stringendo le
redini sui segmenti rimasti).
Figure 3 e 4 – La testata del numero incriminato de “La Zanzara” e una
copertina del giornalino degli studenti di Arona (Novara), dove io frequentavo
il liceo
IL ’68 E
LA VIOLENZA
Fino
agli scontri di Valle Giulia (Roma, marzo 68) e ad esclusione degli episodi
provocati da gruppi neo-fascisti, presenti negli anni ’60 nelle università,
soprattutto a Roma e a Padova, il comportamento prevalente degli studenti in
lotta era quello di subire passivamente gli sgomberi delle facoltà occupate e delle
piazze, mutuando tattiche non-violente, quali i “sit-in”, dagli esempi
americani; ma ciò avveniva senza una elaborazione teorica in favore delle
non-violenza, pur testimoniata in Italia prima di allora da don Milani e da
Danilo Dolci e qualche seguace (e predicata da Aldo Capitini), e nel mondo da Gandhi e da Martin Luther King
(senza contare il precedente di Gesù Cristo, il cui messaggio in proposito è
giunto a noi appannato, prima dal filtro tra lui e la stesura dei Vangeli, e
poi offuscato da secoli di Cristianesimo, spesso belligerante).
Ben
altra era la tradizione delle lotte operaie e contadine di ispirazione
socialista e poi comunista, dall’Ottocento al rovesciamento del governo
Tambroni nel 1960 (incluse in tale fase frange di studenti che potevano essere
i nostri fratelli maggiori), tradizione in cui le posizioni legalitarie e
mansuete (Turati o Prampolini) risultavano per lo più minoritarie; e
militante/militare era indubbiamente il fascino del mito della Resistenza, che
riguardava la generazione dei nostri genitori, e le nostre letture di allora,
da Vittorini a Fenoglio.
Da
qui i servizi d’ordine dei cortei, e poi peggio - per una parte del movimento -
fino alle bande paramilitari, alla clandestinità ed al terrorismo.
Sui
rapporti storici tra movimenti e violenza ho trovato interessante il testo di
Francesco Ciafaloni 4, che evidenzia il basso tasso di violenza nel
biennio 68-69 (fino a piazza Fontana) da ambo le parti (la polizia del
centro-sinistra di regola non sparava, a differenza di quella di Scelba e di
Tambroni, dice Ciafaloni, o almeno,
aggiungo io, non sparava a studenti ed
operai, ‘preferendo’ i braccianti di Avola ed i disoccupati di Battipaglia,
anche per effetto dei cambiamenti al governo dopo le elezioni del 1968: sempre DemoCristiani,
Rumor alla Presidenza del Consiglio e Restivo al Ministero degli Interni si
dimostrarono più reazionari del precedente tandem Moro/Taviani) e – all’opposto – la severa testimonianza di
Giancarlo Caselli 9, di cui apprezzo in particolare la corretta
lettura di don Milani circa l’accettazione delle sanzioni conseguenti agli atti
di disobbedienza civile (mi pare errata invece la sua valutazione sulla
esiguità della componente operaia nei gruppi della sinistra extra-parlamentare:
gli operai estremisti erano pochi rispetto alle masse operaie, avendo però
spesso rapporti dialettici e osmotici con i quadri sindacalizzati; non erano
affatto pochi rispetto al numero complessivo dei militanti dei gruppi).NOTA
L
I NODI AL PETTINE:
LOTTE OPERAIE, POTERE DELLO STATO, RIVOLUZIONE (?)
Diversamente
da quanto accaduto in Francia nel famoso Maggio, con una rapida
generalizzazione delle lotte dagli studenti agli operai in una sorta di
sciopero generale prolungato e le barricate nel centro di Parigi (quasi come
nelle rivoluzioni ottocentesche), e successiva rapida sconfitta non solo a
causa della repressione, ma anche dell’abilità politica del Gaullismo nel
concedere alcuni miglioramenti contrattuali da un lato e dall’altro nel
resuscitare il consenso di massa borghese ed anti-rivoluzionario (poi sancito
dal voto elettorale), in Italia, mentre si vivevano di riflesso quelle
avventure “metropolitane”, il movimento nelle università si spezzettò,
allargandosi però alle scuole medie superiori ed anche finalmente, ma
gradualmente, alle fabbriche e ad alcuni settori di tecnici ed impiegati.
Mentre
le esperienze di contro-cultura sviluppate nelle università ed in ambiti
alternativi (sia in Italia che all’estero), malgrado le ambizioni – ad esempio
in Germania, oppure a Sociologia di Trento ed in qualche misura nella ‘mia’
facoltà di Architettura a Milano – di una nuova “Università-Critica”, sorte in
contrapposizione al sapere accademico tradizionale e talvolta però a rimorchio
dei professori ed intellettuali più aggiornati, non sedimentarono assetti
culturali innovativi nel metodo e nel merito ma forse solamente un nuovo
linguaggio, che fu però riassorbito successivamente nel “sistema” e soprattutto
nei mezzi di comunicazione di massa. 4,10,11,12,13
Il
’69 operaio fu un mix di prese di coscienza molecolari nei reparti, ed anche
nelle piccole fabbriche, di lotte sindacali tradizionali, di fabbrica e di
categoria, di grandi e un po’ velleitarie vertenze unitarie confederali
“pan-sindacaliste” (anche su casa e trasporti), di scoperta ed utilizzo
dell’efficacia degli “scioperi articolati”, per settori e per reparti (il
“gatto selvaggio”), che scardinavano la produzione, di acquisizione di forme di
contro-potere, esaltate dalla rigidità e fragilità del modello produttivo taylorista
(la cui parcellizzazione del lavoro e dequalificazione delle mansioni era per
altro uno dei motori primi del disagio operaio, oltre alle condizioni salariali
e di vita, che negli anni 60 non erano certo da “ceto medio”).
Questo
tipo di lotte si estese, anche se in modo disomogeneo nei diversi settori
produttivi, gruppi industriali e regioni geografiche, e occupò grosso modo –
tra alti e bassi e falliti tentativi di unità sindacale - l’intero decennio
degli anni ’70, imbattendosi però da subito nei condizionamenti
politico-golpisti delle bombe di piazza Fontana nel dicembre 1969 e poi nella
crisi, non solo petrolifera, del 1973.
In
questo scenario, che andava rapidamente mutando, anche il movimento “del ‘68”
iniziò una complessiva fase calante, che non escluse la ulteriore estensione di
autocoscienza e desiderio di ribellione in settori in un primo momento non
ancora raggiunti, ma frantumò lo spontaneo anelito unitario, ponendo agli
studenti in quanto tali il quesito di fondo sul loro ruolo comunque
privilegiato rispetto ai “proletari” ed imponendo a tutti i movimenti la
necessità di formulare risposte politiche sulla direzione di marcia complessiva
delle lotte, sulla risposta alla repressione, sulla questione dello stato.
Il
confronto con gli operai in quanto tali, molto più intenso, serio e
duraturo che non nella fiammata francese, portò molti militanti a scelte – più
o meno radicali o sofferte – di rinuncia ai propri privilegi, abbandonando
carriere o addirittura rinunciando agli studi (e anche qui vorrei richiamare
l’attenzione di chi li racconta come individualisti e consumisti, tutti
imbucati nelle redazioni di giornali e TV) e portò molti operai ad acquisire
una cultura più generale e non subalterna ai modelli paternalisti delle “scuole
serali”.
Invece
l’inevitabile incontro con la storia del movimento operaio, e più
concretamente con sindacati, partiti e partitini, accademie e riviste, “vecchi”
partigiani (allora in realtà molti nemmeno cinquantenni) e antichi affascinanti
maestri (il “Manifesto del Partito Comunista” e molti altri scritti di Marx
sono anche grande letteratura, certo più mobilitanti che non Carnap, Popper o
Wittgestein), non fu altrettanto fecondo in termini di effettiva cultura
politica e capacità di analisi della realtà.
E
qui l’errore grave “del ‘68” (anche se ormai si tratta della storia divisa e
divisiva dei singoli gruppi politici della “sinistra rivoluzionaria”, ma anche
delle frange di sinistra interne a PCI, CGIL, FIM ed allo stesso PSI), non sta
nell’aver abbracciato acriticamente il Leninismo od il più fresco Maoismo (se
non per i gruppi marx-leninisti più ortodossi) NOTA M, ma
nell’averlo letto e studiato, Gramsci NOTA N , e di averlo anche
positivamente sperimentato, però sbagliando nell’analisi di classe e nella lettura della fase storica (errore
che va esteso a mio avviso, ciascuno per la sua parte, dalle Brigate Rosse, per
la scorciatoia della lotta armata, allo stesso Berlinguer, per l’illusione
nella austerità – pur pregevole a mio avviso - come discorso vincente a livello
di massa). NOTA O
Pensando erroneamente
alla rivoluzione, si è praticato a volte in quegli anni un efficace riformismo
“preterintenzionale”: penso a singole battaglie progressiste in provincia,
vinte attivando una egemonia indiretta dai movimenti non solo attraverso i
partiti di sinistra, ma addirittura dentro alla Democrazia Cristiana, per le
sue necessarie implicazioni con i “mondi” cattolici; analogamente avvenne per
alcune delle prime iniziative ambientaliste, ad esempio per l formazione di
parchi regionali (restando nel campo del riformismo; si può anche rilevare,
all’opposto, che la pretesa ‘rivoluzionaria’ dei militanti sessantottini abbia
di fatto indebolito le prospettive riformiste negli anni ’70 ed ’80, anche per
il ridotto ricambio generazionale nei partiti tradizionali).
La
“nicchia” operaia era una grossa nicchia, “centrale”; la sua agitazione
corrispondeva propriamente al concetto di “lotta di classe”; la crisi
conseguente del sistema capitalistico appariva piuttosto evidente;
l’antagonismo delle avanguardie di fabbrica rispetto alle condizioni di lavoro
ed ai rapporti di produzione pareva irriducibile a soluzioni riformiste (pur
rispettabilmente elaborate da Trentin ed Berlinguer con “il nuovo modo di
produrre”); ed anche il quadro politico era in profondo mutamento: assumendo
come indicatore la somma dei voti di opposizione da sinistra ai governi DC-PSI,
si era saliti tra il 1963 ed il 1976 dal 25 al 36% NOTA P, con il
passaggio a sinistra – nel 1975 - del governo delle principali città (Milano,
Roma, Torino, Venezia, Napoli) e di numerosi altri comuni, anche fuori dalle
tradizionali “regioni rosse”.
(Non
vanno trascurati nemmeno i mutamenti istituzionali conseguenti alla spinta dei
movimenti: benchè sofferti e contrastati ed in apparenza poco riformisti, gli
anni ’70 videro il conseguimento di importanti innovazioni istituzionali e
legislative, dall’attuazione delle regioni ‘ordinarie’ allo Statuto dei
Lavoratori, dall’istituzione dei referendum all’obiezione di coscienza per i
militari di leva, dal diritto di famiglia alla apertura dei manicomi, dal
divorzio all’aborto, dalle
rappresentanze scolastiche ai diritti sindacali per i poliziotti, dalla riforma
sanitaria a qualche avanzamento anche su casa e territorio).
Ma
da qui a dedurre che ci fossero prospettive per una “utopia rivoluzionaria”,
tutto sommato non diversa da quella della “rivoluzione d’ottobre”, invero piuttosto
mal riuscita (lo si era visto nel 1956 dal “rapporto Krusciov” sullo stalinismo
ed in Ungheria e Polonia; lo si vedeva in diretta ancora in Polonia ed in Cecoslovacchia),
oppure diversa ma in direzioni sconosciute ed inquietanti (da Mao verso PolPot,
che però fino al 1975 non aveva ancora preso il potere), ce ne correva
parecchio: sia nell’analisi della struttura capitalistica, che in realtà non si
esauriva nell’Europa sindacalizzata e che si mostrò capace di superare
rapidamente le rigidità fordista, sia soprattutto nell’analisi della cosiddetta
“sovrastruttura”, su cui pure avevamo potuto leggere (ma non avevamo voluto capire
politicamente!) non solo Gramsci, ma Freud e Jung, e Levi-Strauss e Max Weber, Adorno
e Marcuse, McLuhan e Foucault; il “regime democristiano”, che si ergeva di
fronte ai movimenti, era tutto da studiare molto meglio, nella sua realtà
complessa di ceti medi e di consenso popolare, di ideologie clericali o
familiste, di evasione fiscale e penetrazioni mafiose, di attenzione alle imprese
ma anche ai sindacati, ancora ben lontano dal crollo degli anni ’90 (crollo del
sistema di potere democristiano avvenuto però solo dopo la caduta del Muro di
Berlino, ed in favore del consumismo berlusconiano).
Oppure bastava
ascoltare le mamme (che non amano né le guerre né le rivoluzioni).
Oppure ascoltare le
donne, che ci stavano spiegando quanto maschilismo stava nelle sigle
rivoluzionarie e nelle aste delle bandiere (per non parlare di chiavi inglesi,
spranghe ed armi vere e proprie).
Inoltre
il quadro internazionale, dopo la “lezione cilena” del 1973, diversamente
interpretata da Adriano Sofri (come apertura feconda di conflitti)7 e
da Enrico Berlinguer (come pericolosa apertura di conflitti), faceva propendere
– al di qua della “cortina di ferro”, allora ben munita di armi su ambedue i
fronti – più su pericoli di golpe e reazione, anche nell’ipotesi di una
semplice ipotesi di “governo di sinistra”, che non su speranze di cammini
rivoluzionari: da qui la cautela del PCI, che si propose per l’”unità
nazionale” per sopperire alla crisi politica di governi DC-PSI (e alleati
minori): un ciclo che si chiudeva dopo 15 anni (il pentapartito degli anni ’80
fu decisamente altra cosa).
Un
insieme di errori più profondo, e più grave, di quello attribuito al ’68, per
brevità, da Fulvio Fagiani1 (ed in un contesto di mutamenti politici
e macro-economici più ampio di quello da lui delineato): la stessa
trasformazione post-fordista del capitalismo fu un effetto indiretto e non
cercato delle lotte sociali di quel periodo – vedi in proposito anche
Boltanski-Chiapello, da me recentemente recensiti – 12,13. NOTA
Q
IL TRAMONTO (E IL ’77)
Non
sto quindi ad analizzare le tappe della lunga fase di declino, limitandomi ad
accennare a quel che a mio avviso ne simbolizzarono gli esiti tombali:
-
la
“sentenza del Tribunale del Popolo”, eseguita uccidendo Aldo Moro nel 1978,NOTA
R segnò un vero spartiacque perché mostrò – a freddo, rispetto ai
precedenti episodi pur cruenti di “lotta armata” - tutta la crudezza di una
supposta rivoluzione, il disprezzo di quelle “avanguardie armate” verso le
masse (che non gradivano quel finale) e tolse a molti militanti ogni gioia
nelle successive lotte sindacali o politiche che comunque succedeva di dover
sostenere, dati gli oggettivi rapporti sociali: non era quella la nostra
“utopia rivoluzionaria”;
-
l’occupazione
della FIAT Mirafiori nel 1980 (sciopero ad oltranza con blocco dei cancelli, in
contrasto con una storia pluri-decennale di duri ma più prudenti scioperi
articolati), in risposta ad un piano di licenziamenti, che fu poi invece pienamente
attuato (decapitando le avanguardie delle lotte) in forza della controffensiva
politica e sindacale della “marcia dei 40.000”, impiegati e quadri organizzati
dall’azienda contro gli scioperanti, e soprattutto vincenti nella ”pubblica
opinione” (e se considerassimo tale pubblica opinione “manipolata” dai mezzi di
comunicazione “padronali” vuol dire perché essa era “manipolabile”: non
c’erano più ad opporsi spontanei capillari volantinatori sui sagrati delle
parrocchie, i loro ciclostilati probabilmente non sarebbero più stati letti da
nessuno, e la gloriosa fase delle “radio libere”, iniziata a metà anni ’70, si
stava chiudendo, e trasformando nel monopolio radio-televisivo di Berlusconi).
Trascuro
la parentesi del movimento del ’77, pure interessante nei suoi momenti ludici e
per la sua rottura dei linguaggi e la pratica della de-costruzione, perché per
qualche verso rappresentò una caricatura del ’68, pur giustificata socialmente
da un degrado delle condizioni materiali e da una oggettiva proletarizzazione
di parte degli studenti (iniziava il “precariato”), e perché mi pare che risultasse
marcato da un eccesso di edonismo e nichilismo (e quindi carenza di utopia: non
credo sia utopia lo “esproprio proletario” di negozi e ristoranti per immediato
auto-consumo), da scarsa intelligenza politica (il PCI di Lama e Zangheri forse
non era un granché, ma continuo a non vederlo come “nemico principale”) e dalla
mancanza di barriere culturali per disciplinare l’esercizio della violenza (pur
spesso ingiustificata già negli anni precedenti), e quindi aperto alle scorribande
di tutte le formazioni inneggianti o praticanti la lotta armata.
CONSIDERAZIONI FINALI
Mentre
i frutti più evidenti e permanenti del ’68 sembrano essere lo sdoganamento
della sfacciataggine televisiva (pallido cascame delle spinte anti-autoritarie)
ed il complottismo vittimistico, sia televisivo che social-mediatico
(caricature del sapere critico), vorrei invece rivendicare, quale meriti
postumi più autentici, ancorché rari, del ’68, e componenti tuttora utili nel
mosaico degli strumenti per una evoluzione positiva dallo “stato di cose
presenti”, la continua attenzione alle condizioni materiali, lavorative e
sociali dei soggetti coinvolti dalle trasformazioni in atto, siano essi
lavoratori o disoccupati o precari, femmine maschi o trasgender, rifugiati
immigrati o dispersi nei deserti o negli atolli più sperduti e sommersi, e la
contestuale attenzione alle trasformazioni organizzative ed ideologiche del
capitalismo: i conflitti sociali continuano ad esistere anche se le classi
si sono un po’ “sfarinate” ed i conflitti talvolta non sembrano di moda.
Mi
ritrovo perciò in alcuni testi che ho letto e recensito, tra cui Paolo Prodi,
Arrighi, Piketty, Boltanki/Chiapello, 12,13,14,15,,16,17,18,19,20 come
anche nelle recenti elaborazioni di intellettuali di diversa estrazione quali
Enrico Giovannini21 e Fabrizio Barca22 e dei laboratori
di pensiero che attorno a loro si stanno attivando sui temi delle
diseguaglianze sociali e sui destini del pianeta Terra.
Le
utopie esistenziali attraversate cinquant’anni fa da una parte di noi non
possono essere né rivissute né ripetute od imitate; ciò non esclude che si
manifestino (su altre basi, sociali ed ideologiche) nuovi movimenti al loro
‘stato nascente’, con diverse utopie da sperimentare.
Malgrado
le sconfitte ed i riflussi, penso che gli slanci contestatori degli anni
‘60-‘70 ci lascino però come ipotesi di lavoro, estremamente pragmatica e
razionale, l’apertura mentale verso l’utopia come rifiuto alla rassegnazione e
alla ‘mancanza di alternative’, come curiosità di capire, come critica
permanente agli assetti culturali stabilizzati.
Ed anche l’ambizione, se non di trovare “risposte complessive” (come
quando si voleva rivoluzionare il ”sistema”) almeno di porsi “domande
trasversali” e non chiuse nei paradigmi specialistici, settoriali e
disciplinari.
NOTE:
NOTA
A: questa riflessione sul coinvolgimento solo parziale delle masse studentesche
(anche nel senso di molti giovani coinvolti solo in parte, solo per brevi
periodi, talora in modo superficiale) non la ritrovo nel testo di Marco Boato 2,
in cui per gran parte invece mi riconosco; eppure potrebbe essere una valida
spiegazione del divario da lui riscontrato nella lettura sociologica della
situazione giovanile nei precedenti anni ’60, che caratterizzava gli studenti
come tranquilli ed “integrati”, senza cogliere la ribellione incombente: tale
ribellione non coinvolse a mio avviso gran parte di quei giovani, che rimasero
abbastanza tranquilli ed integrati anche
attraversando gli sconvolgimenti del ’68.
Inoltre
si diparte da qui anche il discrimine tra democrazia diretta assembleare (come
rivendicato e praticato dai movimenti, privilegiando l’aspetto della
partecipazione di chi è presente, ma con rischi di derive leaderistiche e
totalitarie) e democrazia delegata e rappresentativa (che garantisce
formalmente anche gli ‘assenti’ e le ‘maggioranze silenziose, ma nutre
l’autoconservazione delle élites burocratiche): contraddizione che fu
dirompente nel ’68 contro le vecchie rappresentanze (vedi successiva nota I),
ma si riverbera anche nella storia recente, non solo italiana, con una
indubitabile crisi delle istituzioni democratiche rappresentative e dei partiti
tradizionali, e la finora rozza ed incerta alternativa di nuove forme di
democrazia diretta, come quella della ‘rete’ tratteggiata dalla parabola del
MoVimento5Stelle in Italia (ora approdato alla delega ad un solo ‘capo
politico’, supportato da un’azienda informatica privata) e dalla meteora già tramontata dei Piraten in
Germania
NOTA
B – L’approfondimento sulla contestazione nell’Europa dell’Est, documentata
anche sul numero 1-2/2018 di Micromega, è oggetto del volume di Guido Crainz 23,
che è stato ben presentato nella puntata del 03-04-2018 di “Passato e presente”
su Rai3 e RaiStoria, a cura di Paolo Mieli, con il difetto però di restringere
al solo “Il Manifesto” in Italia (ed a Rudi Dutsche all’estero) il sostegno
occidentale a quelle rivolte, senza considerare invece – ad esempio -quanto
allora i testi del Manifesto fossero letti e seguiti, dentro e fuori il PCI,
sia prima che dopo la radiazione di tale gruppo dallo stesso PCI nell’autunno
del ’68 (molto di più del seguito organizzativo che il gruppo del Manifesto
riuscì a darsi negli anni successivi); il che secondo me indica una ampia apertura
di opinione tra i sessantottini italiani verso i colleghi di oltre cortina
(simpatia diffusa che posso testimoniare di persona).
NOTA
C – In favore della “meglio gioventù”, rimando all’omonimo film di Marco Tullio
Giordana; contro i (pessimi) servizi su l’Espresso N° 3 del 14 gennaio 2018, in
parte riscattati nel numero successivo da un articolo di Roberto Esposito (se il ’68 è trattato così sulla stampa di
sinistra, come sarà su quella di destra, che però faccio a meno di leggere?).
NOTA D - Le
matrici internazionali dei movimenti giovanili (e poi la loro inedita
dimensione e comunanza linguistica globale) sono ben raccontate da Marco Boato
e - più sinteticamente – da Marco
Revelli 2,3.
Con
quest’ultimo concordo anche per molti altri aspetti storici (atomica e pacifismo,
Vietnam, operai italiani, femminismo, Pasolini, consumismo, linguaggio,
movimento del ’77) ma non invece:
-
sul
nessun ruolo da lui attribuito alla sfera religiosa (ben vissuta e raccontata
invece da Boato)
-
sulla
visione di una rivolta ’senza padri’ (vedi invece Resistenza, Don Milani,
ecc.), che Revelli riporta (acriticamente?) dal Manifesto del SDS americano nel
1962.
Interessante, da tale
documento (Port Huron Statement), è piuttosto la citazione di stampo ecologico
“Benché si pensi che la popolazione mondiale raddoppierà nei prossimi 40 anni,
le nazioni ancora permettono … che lo
sfruttamento incontrollato delle risorse impoverisca la Terra”: è forse uno dei
primi sottili “fili verdi” che già negli anni ‘60 percorrono i movimenti – su sfondo rosso - anticipando le preoccupazioni ambientali che
esploderanno nei decenni successivi: tema che la redazione di Utopia21 si
riserva di approfondire.
Gli
intrecci internazionali dei movimenti giovanili culminati con il 1968 sono stati
ben tratteggiati anche nella puntata di “TVStoria”, su RaiStoria a metà aprile
2018, come sempre ben condotta da Massimo Bernardini, con lo storico Giovanni
De Luna, l'americanista Raffaella Baritono e il sinologo Daniele Brigadoi
Cologna (unica pecca del programma, a mio avviso, una troppo sbrigativa
condanna della ‘rivoluzione culturale cinese’).
NOTA
E – sulla vicenda dell’operaismo dagli anni ’60 in poi ho trovato (sorprendentemente)
chiaro l’intervento di Massimo Cacciari su Micromega 24, mentre mi è
sembrato oscurissimo il brano d’epoca (1964) di Mario Tronti “Lenin in
Inghilterra”, ivi ri-pubblicato. 25
NOTA
F – “Lettera ad una professoressa” è della primavera del 1967, ma la notorietà
nazionale di don Milani riale almeno al 1965 con la lettera ai cappellani
militari sull’obiezione di coscienza “L’obbedienza non è più una virtù”
NOTA
G – su cattolici e ’68 mi è sembrata piuttosto valida, oltre al testo di Marco
Boato, la puntata di “Passato e
presente” (su Rai3 e RaiStoria del 23-01-18, rintracciabile su RaiPlay) di
Paolo Mieli con ospite Alberto Melloni, anche se ha trascurato a mio avviso
alcuni aspetti, come la pregiudiziale non-violenta di don Milani; i preti
operai ed i missionari laici (anche di G.S.); l’articolazione plurale del movimento operaio/marxista in
Italia (che non si esauriva nel C.C. del PCI), e la pluralità delle teologie
della liberazione, unite però dalla discriminante di opposizione alla chiesa
delle oligarchie, imperante (allora?) in sud-America, ma benedetta da gran parte
degli ultimi papi.
Valida
ricostruzione delle origini cattoliche del ‘68 risulta anche quella di Paolo
Pombeni26 , mentre il suo testo mi è sembrato molto carente sul
fronte delle lotte operaie: a parte l’inesattezza storica di confondere “Il
Potere Operaio” di Pisa (antesignano di Lotta Continua) con il successivo
gruppo “Potere Operaio”, nell’ambito di una più generale scarsa conoscenza
dell’operaismo (vedi invece Cacciari, nota D) e l’ingenerosa identificazione
dell’eredità del ’68 nelle lotte sociali con il solo sindacalismo
autonomo/corporativo di segmenti del pubblico impiego e dei trasporti (mentre i
movimenti si sono intrecciati anche con la storia migliore del sindacalismo
confederale, vedi ad esempio l’intreccio tra le tesi de “Il Manifesto” e la
battaglia dei metalmeccanici per le “150 ore” di istruzione per adulti), ho
l’impressione che, come molti altri cattolici intimamente interclassisti,
Pombeni non riesca a vedere l’oggettiva contrapposizione tra salario e profitto
come condizione permanente dei rapporti di lavoro, quale che sia il tasso di
“ferocia padronale”.
NOTA
H - l’insegnamento non aveva ancora recepito il “Movimento Moderno” (anche se
oggi si è finito per rivalutare gli architetti tradizionalisti/novecentisti
come Portaluppi e Cassi Ramelli, allora professori contestati e dimissionari);
ad una minaccia di sanzione contro un rappresentante degli studenti per una
assemblea non-autorizzata, tutti i colleghi, senza averlo pre-determinato,
uscirono insieme dall’aula, come nella scena-madre de “L’attimo fuggente”.
Tutta
la vicenda della facoltà di architettura di Milano è stata ignorata nella
puntata del 1° maggio 2018 di “Passato e Presente” a cura di Paolo Mieli e con
Alberto Martinelli, dedicata a “Il ’68 milanese”: nel 68 Architettura fu
occupata piuttosto tardi, perché stava attuando la “sperimentazione”, frutto
della lunga occupazione del 1967 ed osteggiata dal rettore Finzi (Bruno, e non “Domenico”) e da un’ala di
docenti conservatori e poi dal Ministero, che in agosto annullò tutti gli esami
di gruppo, sospendendo il Preside Carlo De Carli, che così pagò di persona
pesanti conseguenze (clamoroso evento che
si ripeté nel 1971, a danno dell’intero Consiglio di Facoltà, in reazione all’ospitalità offerta dall’Assemblea
ad un gruppo di famiglie sfrattate in lotta per la casa). Invece nel
racconto di Mieli e Martinelli di docenti progressisti se ne videro solo a
Scienze Politiche della Statale, Silvano Bassetti risulta un leader
de-contestualizzato (stravolto anche
l’aneddoto sull’invito ad essere “meno mosci” in TV, basta leggere davvero il
libro di Boato2), e si accenna ad una “occupazione del Politecnico”
in quanto tale mai avvenuta, perché fu occupato – oltre ad Architettura, solo
il Rettorato, perché l’Assemblea decise di sgombrarlo da una minoritaria
pattuglia filo-fascista (particolare: in
quell’occasione si distinse il Corriere della Sera diretto da Spadolini, che ci
attribuì, falsificando materialmente una foto, un presunto oltraggio ad una
targa commemorativa dei caduti del 15-18; le “fake news” di quei tempi).
Altre
inesattezze della puntata: gli espulsi della Cattolica furono 3 e non 2 (oltre
a Capanna e Pero, anche Michelangelo Spada), le immagini proposte come sfondo a
“largo Gemelli” echeggiavano gli scontri
di Nanterre (mentre si trattò solo di una violenta carica dei Carabinieri con
studenti in fuga), Brandirali fondò l’Unione dei
Marxisti-Leninisti/”Servire-il-Popolo” solo nell’ottobre del ’68 (fase di
inizio di tanti altri “gruppi”), con scarsa visibilità fino al pieno ’69.
Mi chiedo talora come si fanno
il giornalismo e la storia, se così tanti sono gli scarti tra I miei
documentabili ricordi ed i racconti ufficiali.
NOTA
I – Fino al 1967 le rivendicazioni degli universitari erano guidate dalle
rappresentanze istituzionali confluenti nell’U.N.U.R.I., entro cui
collaboravano l’INTESA (cattolici), l’UGI (sinistre) e l’AGI (laici) – è da
notare che le “G” di UGI e AGI significavano “goliardici”- ; Paolo Flores d’Arcais (ora direttore di
MicroMega) e lo stesso Gianni DeMichelis (poi potente ministro socialista)
rievocano gustosamente su Micromega 27 il colpo di mano di PCI e PSI
contro PSIUP e movimentisti al congresso UGI del 1967, che di fatto allontanò
la dirigenza nazionale dell’UGI dalle lotte del 68; ma complessivamente nelle
singole sedi universitarie le rappresentanze storiche si sciolsero volentieri
nel nuovo assemblearismo, senza un distacco netto, nei primi mesi del ’68,
rispetto alle forze politiche tradizionali; le contrapposizioni maturarono più
avanti, prima contro i partiti di governo e poi anche verso il Partito
Comunista (o almeno verso al sua direzione nazionale, perché sul territorio i
rapporti erano spesso più complessi ed aperti, come anche verso i sindacati; ad
esempio ad Architettura di Milano la cellula “Ho Chi Minh” del PCI – studenti e
docenti - era pienamente partecipe dell’occupazione del ’68 ed anche negli anni
successivi si coesisteva, spesso “con franco dissenso”).
I
rapporti tra i movimenti universitari del il PCI sono ben riepilogati nel testo
di Marco Boato2:
nelle
oscillazioni tra le aperture (pre-elettorali) di Longo nella primavera del ’68
e la successiva chiusura di Amendola nell’autunno, si rischia però di
trascurare (perché in parte nascoste dallo stesso ‘centralismo democratico’
impernate nel Partito) le posizioni aperturiste della sinistra interna (quando
la Rossanda scrive il suo libro “L’anno degli studenti” a fine ’68, come
sottolinea lo steso Boato, è ancora una dirigente del PCI); le successive
elaborazioni ”eretiche”, che costeranno la radiazione al gruppo del
“Manifesto”, non scaturirono di certo all’improvviso, né erano separate da un
più ampio sentire della larga (ancorché minoritaria) corrente “ingraiana”, indisponibile però a seguire la fronda di
Magri-Pintor-Rossanda-Castellina oltre il crinale della disciplina di partito.
NOTA
L – Non ritengo determinante invece la precisazione di Paolo Mieli28
sulla datazione del Collettivo Politico Metropolitano di Renato Curcio
&Compagni, che ne sottolinea la fondazione in chiave
cospiratoria/militarista antecedente di 3 mesi alle bombe di piazza Fontana,
perché a mio avviso è importante
rammentare che tali bombe furono precedute nel corso dello stesso 1969 da altri
attentati “di allenamento” da parte dello stesso ambiente fascista/golpista (in
particolare il 25 aprile '69 alla Stazione Centrale e alla Fiera di Milano, e
in agosto su alcuni treni), sempre accusando fantomatici anarchici, e non
sappiamo se la mancanza di vittime in tali episodi fosse voluta o
preterintenzionale.
NOTA
M - Nella ricostruzione che emerge complessivamente dal numero doppio di
Micromega mi pare sovrastimato, a causa dell’ottica prevalentemente romana degli
autori (Mieli, Flores)27,28 il peso di Servire-il-Popolo, che
abbracciò il marx-leninismo maoista in termini quasi caricaturali (così come
altri gruppetti “M-L”); diversa fu la situazione nelle altre sedi, ed in
particolare a Milano, dove il più forte omaggio alla tradizione
marxista-leninista (ed in particolare a Stalin, anche sull’onda di una
particolare affezione nella federazione del PCI) si manifestò nel “Movimento
Studentesco” (e poi MLS) fondato da Capanna, Cafiero e Toscano, che aveva
rigidità ideologiche, ma a mio avviso più ciniche che fideiste.
NOTA
N – “Gruppo Gramsci” addirittura si chiamava uno dei gruppi (che poi si scisse,
confluendo in parte in Lotta Continua, con Gad Lerner ad esempio, ed in parte
nella cosiddetta autonomia operaia), cui parteciparono intellettuali come
Bianca Beccalli, Romano Madera, Giovanni Arrighi, e che scrisse diverse cose
intelligenti sulla realtà di quegli anni
NOTA
O - Mi pare significativa, ad esempio, questa valutazione esposta in pieno ’68
(dibattito a “L’Espresso” sulla poesia di Pasolini ‘contro gli studenti’)29
da Vittorio Foa, allora segretario generale aggiunto della CGIL in quota PSIUP
ed in seguito dispensatore di più moderate saggezze: “Oggi noi assistiamo a un
processo rivoluzionario, o almeno ne cogliamo i sintomi, iniziali ma
chiarissimi; e vediamo che a questo processo la classe operaia e il movimento
studentesco partecipano concordemente.”
NOTA
P – trend elettorale della sommatoria delle formazioni schierate
all’opposizione di sinistra:
1958 23%; 1963 25,6%; 1968 31,4%; 1970 31,1%; 1972
30,8%; 1975 35%; 1976 35,9%
NOTA
Q - mi sembra schematica invece la
lettura di un “sistema” demiurgico che assorbe le spinte innovative del ’68
dove gli fa comodo e lo piega a suo uso e consumistico consumo: la
ristrutturazione capitalistica dopo la crisi tra anni 60 e 70 non fu una passeggiata
neanche per il potere, e soprattutto non sortì da disegni pre-ordinati, bensì
dalla capacità di reagire nel concreto, da parte di diversi e talora divergenti
soggetti aziendali e politici.
NOTA
R – Le B.R. scelsero di tenere per altro segreto l’esplosivo memoriale “difensivo”
di Aldo Moro, testo con cui dopo qualche anno si è potuta riscrivere la storia
del dopoguerra, aggiungendovi la struttura cospirativa filo-americana di
Gladio, che si poteva anche supporre, ma senza averne le prove
Fonti:
1. Fulvio
Fagiani “L’UTOPIA DEL XXI SECOLO, A CINQUANT’ANNI DAL ‘68” su UTOPIA21 di
gennaio 2018 https://drive.google.com/file/d/1J3FdaOX5oKmZhWGQ3-1yJgLFpi-Da1ZX/view?usp=sharing
2. Marco
Boato “IL LUNGO ’68 IN ITALIA E NEL MONDO” – E.L.S. La Scuola, Brescia 2018
3. Marco
Revelli “1968. LA GRANDE CONTESTAZIONE” Laterza, Bari e-book del 2012 (estratto
da “NOVECENTO ITALIANO”, Laterza, Bari 2008)
4. Luigi
Bobbio, Francesco Ciafaloni, Peppino Ortoleva, Rossana Rossanda, Renato Solmi
“CINQUE LEZIONI SUL ‘68” – Dossier di RossoScuola, Torino 1987
5. Guido
Viale “IL SESSANTOTTO TRA RIVOLUZIONE E RESTAURAZIONE” – Mazzotta, Milano 1978
6. “IL 2°
CONGRESSO DI LOTTA CONTINUA – Rimini 31 ottobre – 4 novembre 1976” – Edizione
Coop. Giornalisti Lotta Continua, Roma 1976
7. Luigi
Bobbio “STORIA DI LOTTA CONTINUA” - Feltrinelli, Milano 1988
8. AA.VV:
a cura di Stefano Levi Della Torre e Raffaele Pugliese “OCCUPANTI 1963-1968.
GLI ESORDI DELLA MODERNA FACOLTÀ DI ARCHITETTURA NELLE FOTOGRAFIE DI WALTER
BARBERO” – Alinea, Firenze 2011
9. Giancarlo
Caselli su MicroMega n° 1-2 2018 http://temi.repubblica.it/micromega-online/micromega-sessantotto-presentazione-e-sommario/
10. Gustavo
Zagrebelski su MicroMega n° 1-2 2018, vedi sopra
11. Guido
Crainz “NON SCHIACCIATE IL ‘68“ su L’Espresso n° 5/28 gennaio 2018
12. Luc
Boltanski e Eve Chiapello “IL NUOVO SPIRITO DEL CAPITALISMO” – Mimesis,
Milano/Udine 2014
13. Aldo
Vecchi - recensione su BOLTANSKI-CHIAPELLO in UTOPIA21, gennaio 2018 https://drive.google.com/file/d/18rOwVEv0Uv-uYPjmBw7OdeXY4aKczbyg/view?usp=sharing
14. Paolo
Prodi “IL TRAMONTO DELLA RIVOLUZIONE” - Il Mulino, Bologna 2015
15. Aldo
Vecchi – recensione su Paolo Prodi in UTOPIA21, marzo 2017 https://drive.google.com/file/d/0BzaFw8WEAEgYQ29aT0Q2QjhvSG8/view
16. Paolo
Prodi “SETTIMO, NON RUBARE. Furto e mercato nella storia dell'Occidente” – Il
Mulino, Bologna 2009
17. Giovanni
Arrighi “IL LUNGO XX SECOLO. Denaro, potere e le origini del nostro tempo” - Il
Saggiatore, Milano 2014
18. Recensioni
sui precedenti 2 testi su questo blog “relativamente, sì” - http://aldomarcovecchi.blogspot.it
in
appositi POST e nella pagina ULTERIORI LETTURE
19. Thomas
Piketty “IL CAPITALE NEL XXI SECOLO” – Bompiani, Milano 2014
20. Aldo
Vecchi – recensione su Piketty in UTOPIA21, novembre 2018 https://drive.google.com/file/d/1N-8cYVuTAiCes4_S2UV9pBxm0f20SbMH/view?usp=sharing
21. Enrico
Giovannini “L’UTOPIA SOSTENIBILE” – Laterza, Bari 2018
23. Guido
Crainz “IL SESSANTOTTO SEQUESTRATO. CECOSLOVACCHIA, POLONIA, JUGOSLAVIA E
DINTORNI” - Donzelli, Roma 2018
24. 25. 27. 28. 29. Massimo Cacciari, Mario
Tronti, Paolo Mieli, Paolo Flores d’Arcais e dibattito nel ‘68 all’Espresso su
Pasolini, in MicroMega n° 1-2 2018 http://temi.repubblica.it/micromega-online/micromega-sessantotto-presentazione-e-sommario/
26.
Paolo Pombeni “CHE COSA RESTA DEL ‘68” –
Il Mulino, Bologna 2018
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